La settimana scorsa, il 20 novembre, è stato celebrato il 25° anniversario dell’approvazione della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti dell’infanzia. I media hanno dato il giusto rilievo a questa ricorrenza e hanno riproposto all'opinione pubblica i drammi di milioni di bambini privati di diritti fondamentali. Ben 230 milioni di bambini non risultano nemmeno registrati ufficialmente, molti di più soffrono la fame, sono privati del diritto alla salute, all'istruzione, alla protezione, a un’infanzia serena e a un futuro dignitoso.
In questo periodo, in vista della prossima votazione
federale sull'iniziativa popolare Ecopop («Stop alla
sovrappopolazione – sì alla conservazione delle basi naturali della vita»),
sono state organizzate in diverse città svizzere manifestazioni per
sensibilizzare la popolazione sui rischi di un’accettazione di questa ennesima iniziativa
antistranieri.
Stagionali e baracche
In questo sforzo di sensibilizzazione, il sindacato Unia
ha organizzato a Berna anche un’esposizione e un convegno sul tema «Baracche,
xenofobia e bambini clandestini» per ricordare «le disumane condizioni
di vita degli stagionali e dei loro figli, costretti talvolta alla
clandestinità». Per l’occasione è stata anche allestita una baracca sul modello
di allora e una interessante raccolta di testimonianze fotografiche sulla vita
degli stagionali.
In questa nostra vita frenetica, che sembra fatta apposta
per impedirci di riflettere (la riflessione ha bisogno di tempo!) e di
ricordare (persino un passato non tanto lontano), le ricorrenze e le
rievocazioni sono talvolta benedette. Ci aiutano a osservare il mondo oltre i
confini ristretti del nostro Paese e dei nostri interessi e ci aiutano a
ricordare da dove veniamo, quali sono le nostre origini.
L’esposizione di Berna, in particolare, mi suggerisce alcune
considerazioni sul periodo delle baracche, della xenofobia e dei bambini
clandestini, a cui peraltro ho già accennato di recente in altri articoli (cfr.
L’ECO del 5.11. e 19.11.2014), e su cui in questi ultimi anni è stato scritto
molto, spesso tuttavia in maniera ideologica e poco critica. Spesso in questi
scritti manca il necessario riferimento al contesto.
La paura dell’inforestierimento
In Svizzera, gli Anni Sessanta e Settanta,
a cui si riferiscono soprattutto (anche se abbracciano in realtà un periodo più
lungo) i fenomeni degli stagionali, delle baracche e dei bambini clandestini) furono
molto difficili non solo per gli immigrati italiani, ma anche per la politica
immigratoria svizzera, per non parlare della politica emigratoria italiana. Le
difficoltà per giungere a un compromesso accettabile nella trattativa
italo-svizzera sull’emigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera riflettevano
un contesto ben più ampio, sociale e politico, che lasciava ben pochi margini
di manovra.
Per rendersi conto del fenomeno degli stagionali bisognerebbe
ricordare almeno mezzo secolo di dibattiti e di decisioni che portarono a
impegnare il governo federale a prendere tutte le misure necessarie per evitare
la Überfremdung, l’«inforestierimento», ossia una presenza
di stranieri percepita nell’opinione pubblica come eccessiva. All’indomani
della pubblicazione dei dati del censimento del 1910 si ebbe in Svizzera una
sorta di choc, quando si venne a sapere che nel Paese erano presenti e
in forte crescita 552 mila stranieri, quasi il 15 per cento della popolazione
totale.
Da allora il popolo svizzero non ha smesso di preoccuparsi e
il governo centrale, che si basa sul consenso popolare, non può non tenerne
conto nelle sue decisioni, soprattutto quando sono avvalorate da un voto, dalla
Costituzione federale e dalle leggi federali. Di fatto, dal 1910 la percentuale
di stranieri in Svizzera non ha fatto che diminuire fino al 1941 (5,2%).
Quando nel dopoguerra, per le note esigenze dell’economia
l’afflusso di manodopera straniera doveva essere in qualche modo liberalizzato,
la politica ha dovuto affrontare due imperativi apparentemente inconciliabili:
quello di soddisfare l’economia (che solitamente detta l’agenda
politica) e quello di impedire l’inforestierimento, contro cui erano già
in azione agguerriti movimenti xenofobi. Scelse un compromesso: favorire
l’afflusso di manodopera temporanea (stagionale) e rendere sempre più difficile
la residenza stabile e soprattutto il domicilio degli stranieri.
Una scelta obbligata?
Oggi è facile contestare tale scelta, anche perché non ha
affatto impedito la crescita della popolazione straniera (1950: 6,1%, 1960:
10,8%, 1970: 17,2%, 1980: 14,8%, 1990: 18,1%, 2000: 20, 9%) e non ha frenato le
spinte xenofobe di ampi settori della società. Allora tuttavia sembrava una
scelta obbligata. Certamente il governo federale avrebbe potuto fare di più per
migliorare le condizioni di vita degli stagionali, obbligando ad esempio le
imprese a garantire ai propri dipendenti abitazioni decenti, ma anche al
riguardo non si possono ignorare le difficoltà oggettive sia per creare un tale
obbligo, sia per controllarne il rispetto e sia soprattutto per realizzare nuovi
alloggi in un tempo relativamente breve.
D’altra parte, non bisogna nemmeno dimenticare che gli
alloggi, anche se ce ne fossero stati a disposizione, avrebbero avuto un costo
che gran parte degli stagionali non avrebbe potuto sostenere, per di più per
tutto l’anno. Va anche detto che a fronte di baracche o altri tipi di
alloggio indecenti (o, com’ebbe a denunciare in parlamento un deputato
comunista nel 1963, «gli abituri fangosi, le stalle e le baracche umide e
sconnesse che sono il loro tetto»), le baracche del dopoguerra di norma
dovevano essere sicure e attrezzate in modo adeguato. Alcuni regolamenti
cantonali prevedevano che i dormitori dovessero essere costituiti di stanze ben
tramezzate e isolate comprendenti in regola generale 4 o al massimo 6 letti; per
ogni inquilino ogni stanza doveva raggiungere almeno 15
metri cubi ; dovevano essere inoltre dotati di
toelette, lavabi e docce, ecc. Alcuni baraccamenti in montagna (ad es. durante
le costruzioni di dighe) avevano ancora requisiti aggiuntivi, quali il riscaldamento,
la mensa, l’infermeria, la biblioteca, sala da giochi, ecc.
Ciò di cui gli stagionali si rammaricavano maggiormente non
era sicuramente l’infrastruttura. Poiché tra di essi vi erano persone sposate
(ma non è dato sapere in che proporzione nei vari periodi), non c’è dubbio che per
esse la mancanza più sentita era la famiglia e nove mesi di lontananza dovevano
essere un sacrificio non indifferente. Ancora oggi ci si chiede se questo
sacrificio non fosse un’imposizione esagerata e disumana. Credo che non esista
una risposta assoluta e non si può neppure rispondere che in fondo alla base di
quella situazione c’era un contratto (in senso largo), accettato da entrambe le
parti, anche dallo stagionale sposato. Una delle condizioni del contratto era
che lo stagionale non poteva farsi raggiungere dalla famiglia. Credo tuttavia
che dalla Svizzera si sarebbe potuto ottenere di più se nella trattativa per
l’Accordo del 1964 l’Italia avesse insistito maggiormente sul punto dei
ricongiungimenti familiari perché questa era la tendenza che si stava
affermando ovunque in Europa.
Ricongiungimenti familiari: e i bambini?
Probabilmente i tempi della politica, italiana e svizzera, non
erano ancora maturi e numerosi stagionali, ritenendo di non poterli rispettare,
hanno preferito farsi ugualmente raggiungere dalla famiglia, nonostante i
divieti. Quando il resto della famiglia era costituito dalla moglie o dal
marito poco male, all’epoca era abbastanza facile trovare un lavoro almeno
stagionale anche per la nuova o il nuovo arrivato. I guai nascevano quando insieme
venivano dall’Italia (per limitare il campo ai soli italiani) pure i figli o
quando la moglie stagionale metteva al mondo un bambino.
I problemi, va detto subito, non riguardavano solo e forse
non tanto il rischio di espulsione dalla Svizzera per aver infranto un divieto.
Uno dei problemi di più difficile soluzione riguardava l’abitazione dove
alloggiare la famiglia, visto che gran parte degli stagionali alloggiava in
baracche, in camere singole o in mansarde in affitto. Le abitazioni disponibili
erano rare e costose. C’era poi il problema della cura del bambino o dei
bambini durante il giorno, visto che padre e madre avevano entrambi solo un
permesso di lavoro stagionale, non di residenza (anche senza dover lavorare).
Si sarebbe potuto lasciarli soli? Affidarli eventualmente ad altri, ma a chi?
Tenerli nascosti, come hanno fatto in tanti?
La problematica dei bambini cosiddetti «clandestini» o
«nascosti» o «proibiti» o altro ancora è nota e non si dirà forse mai abbastanza
che sono stati vittime innocenti, anche se i colpevoli non emergono mai
chiaramente. A prescindere dai singoli casi, che andrebbero conosciuti
approfonditamente, in generale mi pare innegabile la complicità fra tutti i
responsabili dell’emigrazione, dell’immigrazione e dei genitori interessati.
Ognuno avrà avuto sicuramente delle attenuanti, ma non c’è dubbio che nessuna
di queste entità ha messo chiaramente e decisamente al primo posto l’interesse
del bambino, della sua crescita, della sua formazione, della sua felicità in
una condizione «normale».
Una pagina triste di una storia positiva
Non si saprà mai quanti siano stati questi bambini
«clandestini» tra gli anni Sessanta e Ottanta, anche se è verosimile che in una
trentina d’anni siano stati diverse migliaia (poco plausibili, invece, le cifre
di 10-30 mila riferite a un solo anno). Indipendentemente dal loro numero, il fenomeno
dei bambini «clandestini» va ritenuto comunque una pagina triste della lunga
storia dell’immigrazione italiana in Svizzera, da non dimenticare.
Condivido pertanto l’appello dello scrittore svizzero Franz
Hohler quando scrive in una poesia intitolata «Feindesland» (Paese nemico):
Daran sollten wir uns erinnern / dass die Geschichte unseres glücklichen
Landes / voll ist von Geschichten unglücklicher Kinder. (dovremmo
ricordarci / che la storia del nostro Paese felice / è piena di storie di
bambini infelici).
Fortunatamente, tuttavia, la storia di questi bambini è
anche piena di esempi di solidarietà di vicini di casa e di amici, persino di
funzionari di polizia, di datori di lavoro comprensivi oltre che interessati e
soprattutto di esempi degli stessi bambini che hanno saputo superare nel tempo
i traumi infantili subiti. Anche questi esempi di solidarietà e di riuscita
meritano di essere ricordati nella variegata e complessivamente positiva storia
dell’immigrazione italiana in Svizzera.
Giovanni Longu
Berna, 26.11.2014
Berna, 26.11.2014
Una legislazione dura ma fondata su regole ben precise. Dura ma che si può sempre mitigare. Ma qui in Italia non abbiamo saputo farne tesoro.Oggi c'è la giustificazione che siamo in presenza di un esodo ma per ieri?
RispondiEliminaAntonino Alizzi