Tra le varie criticità riguardanti l’Italia di oggi che il governo italiano dovrebbe tenere maggiormente in considerazione, c’è sicuramente lo stato del sistema formativo. Non è possibile qui analizzare nei dettagli la situazione, ma basteranno pochi dati per rendersi conto della sua gravità.
Dati allarmanti
Per la scuola obbligatoria è sufficiente ricordare i risultati
abbastanza mediocri ottenuti dagli scolari quindicenni italiani nelle indagini
internazionali (in particolare in quella più nota organizzata dall’OCSE e conosciuta
sotto il nome di «Pisa»). Gli allievi italiani occupano una posizione di media
classifica su una settantina di Paesi partecipanti.
La situazione della formazione postobbligatoria non è
più rallegrante. In ambito europeo, l’Italia ha una percentuale di giovani
(18-24 anni) senza formazione postobbligatoria del 35,5% (media europea: 30,0%)
e una percentuale di adulti (25-64 anni) con formazione superiore di appena il 14,9%
(media europea: 26,8%).
Va inoltre osservato che, secondo l’ufficio statistico
europeo Eurostat, l’Italia è ultima in Europa per numero relativo di laureati.
Tra i 27 paesi Ue, nel 2012 solo il 21,7% di chi ha cominciato l’università ha
completato il percorso di studi e si è laureato entro i 34 anni: ce l’ha fatta
il 26,3 % delle donne e solo il 17,2% degli uomini. Il tasso di abbandono è
pertanto altissimo.
Per quanto riguarda il livello della formazione universitaria,
l’Italia si piazza decisamente male nelle principali classifiche internazionali
delle 500 più importanti università: nessuna università italiana figura nelle
prime cento posizioni (la piccola Svizzera è presente con ben quattro) e solo
quattro università rientrano tra la centesima e duecentesima posizione (Pisa,
Roma-La Sapienza, Milano e Padova); altre cinque si collocano nelle successive
cento posizioni.
I dati appena menzionati sono sicuramente parziali e
frammentari, ma sufficienti a consentire al lettore di farsi una propria idea
della situazione, che contrasta non solo col rango ancora occupato dall'Italia
come potenza economica (anche se da qualche decennio in netto calo) ma anche con
le potenzialità dei suoi abitanti. Dovrebbe suonare come un campanello
d’allarme non solo la percentuale altissima di giovani disoccupati (anche tra i
laureati e diplomati) soprattutto nel Mezzogiorno, ma anche il numero crescente
di persone qualificate che lasciano l’Italia per svolgere le loro ricerche o conseguire
specializzazioni all'estero, finendo spesso per restarci.
Rimedi necessari e urgenti
Qualcuno potrebbe pensare che le partenze possono essere
compensate da nuovi arrivi, gli immigrati, ma sarebbe un’illusione. La «fuga
dei cervelli» senza ritorno rappresenta un impoverimento durevole per l’Italia
che potrebbe portare in pochi decenni al declino. Fino a quando il saldo tra
partenze e arrivi non sarà almeno pari, quantitativamente e qualitativamente,
non è vero che i giovani italiani potranno guardare al futuro con ottimismo. Basterebbe
questa considerazione per ritenere che il sistema formativo dev'essere
affrontato con grande serietà e urgenza.
Dovrebbe inoltre far riflettere questa ulteriore
costatazione: mentre in Europa i giovani (da 0 a 19 anni) sono proporzionalmente
più numerosi (2011: 19,5%) delle persone anziane di 65 anni e più (14,6%), in Italia
si assiste da anni al fenomeno inverso di una percentuale di anziani (20,3%) più
elevata di quella dei giovani (18,9%).
Quest’ultima osservazione dovrebbe rappresentare un
ulteriore motivo per rendere inderogabile da parte delle istituzioni e in
particolare della politica l’adozione di tutte le misure indispensabili per
un’inversione di tendenza, cominciando da una seria riforma dell’intero sistema
formativo italiano. La disoccupazione giovanile e la fuga dei cervelli sono due
sintomi di una malattia grave, molto contagiosa, che non può essere
sottovalutata.
L’Italia in questo momento ha sicuramente molti problemi
urgenti da risolvere e poche risorse da investire; ma guai se questi problemi e
le scarse risorse diventano alibi per non metter mano finalmente a una scuola
che formi, a un sistema universitario efficiente e di eccellenza, a poli di
ricerca e d’innovazione capaci non solo di trattenere i talenti nostrani ma
anche di attirarne altri dall'estero. Il futuro dell’Italia passa
necessariamente per la scuola, la formazione, la ricerca, l’innovazione.
Momento favorevole per le riforme
Mi auguro che il governo dia seguito alle affermazioni del
Presidente Letta nel suo discorso per la fiducia, soprattutto quando afferma
che bisogna investire sui giovani perché «solo i giovani possono ricostruire
questo Paese», mentre « rinunciare a investire su di loro è un suicidio
economico. Ed è la certezza di decrescita, la più infelice».
I più pessimisti diranno che discorsi del genere ne hanno
sentiti più di una volta e che la situazione ha continuato a peggiorare. Difficile
negare l’evidenza. Eppure in questo momento ragioni oggettive suggeriscono un
minimo di ottimismo. La situazione politica, che vede uniti in uno sforzo
comune i due maggiori partiti italiani sono un’occasione imperdibile per
attuare anche una seria riforma del sistema formativo italiano, soprattutto nel
suo grado più elevato, l’università e la ricerca.
Solo pochi anni fa fu adottata tra molti contrasti la
cosiddetta «riforma Gelmini», dalla ministra dell’epoca. Che fine ha fatto? Non
so se era fatta bene o male, so solo che in Italia è sempre enormemente
difficile approvare e realizzare qualunque riforma, senza nemmeno rendersi
conto che mentre il mondo va avanti l’Italia marcia sul posto, ossia arretra. E
so anche che per qualunque Paese voglia sopravvivere, una delle condizioni
essenziali è che il suo sistema educativo funzioni e le formazioni proposte
siano appetibili. E senza investimenti adeguati nella scuola, nella ricerca e
nell'innovazione non c’è futuro non solo per i giovani ma anche per il Paese.
Parole d’ordine: efficienza, eccellenza…
Per tornare alla riforma Gelmini, ma senza entrare nel
merito, mi domando per esempio quale sarebbe stato il risultato se invece della
feroce opposizione di un Bersani e di un Di Pietro, che bocciarono a priori sul
nascere il disegno di legge del governo, le minoranze di allora avessero
contribuito a rimodellare il progetto e la maggioranza berlusconiana si fosse
resa disponibile ad accogliere anche contributi esterni. Forse oggi parleremmo
meno di «fuga di cervelli», di disoccupazione giovanile, di formazione da
riformare, e più di meritocrazia, di eccellenza, di ricerca avanzata,
d’innovazione, d’importazione di cervelli e anche di capitali.
Certo con i «forse» e con i «se» si costruiscono al massimo
dei sogni, ma è utile ragionare anche sulle ipotesi, soprattutto se il contesto
cambia. Ciò che rende l’attuale governo notevolmente diverso da tutti quelli
che l’hanno preceduto è che, sul tema della riforma del sistema formativo e
degli investimenti a favore dei giovani, la concentrazione di forze politiche favorevoli
è enorme. Sarebbe a mio modo di vedere una catastrofe se, insieme a molti altri
punti qualificanti del governo Letta, il tema della scuola, della ricerca,
dell’innovazione non trovasse l’attenzione che merita e le risorse indispensabili.
In un Paese che invecchia velocemente e non può permettersi
«generazioni perdute» l’intervento in queste materie è ormai determinante non
solo per frenare l’emorragia dell’emigrazione giovanile particolarmente
qualificata, ma anche per creare occupazione. E’ tuttavia fondamentale che a
guidare progetti e interventi siano soprattutto alcune parole chiave quali efficienza,
eccellenza, meritocrazia, sviluppo, tenendo conto dei mercati,
non solo di quello interno ma anche di quello internazionale.
Giovanni Longu
Berna 12.06.2013
Berna 12.06.2013
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