Ho l’impressione che in Italia si parli troppo di alcune riforme costituzionali e se ne trascurino completamente altre a mio parere ben più importanti. Trovo soprattutto incomprensibile e pericoloso che non si affrontino prioritariamente, con lucidità, concretezza e determinazione, le vere emergenze del Paese, ancora in profonda crisi.
Francamente stento a capire perché si dedichi così tanto
tempo alla riforma del Senato senza nemmeno inquadrarla in una riforma
ben più consistente dell’intera architettura dello Stato in senso presidenziale
o semipresidenziale, col rafforzamento della democrazia e delle autonomie locali
in senso federalistico, accorpando eventuali Regioni, e rendendo più
equilibrato ed efficiente il rapporto centro-periferia.
Riforme come alibi?
Talvolta ho l’impressione che il difficile processo delle riforme
costituzionali (ridotte per il momento a quella del Senato) serva più che altro
da alibi al Governo incapace di affrontare le vere emergenze del Paese,
soprattutto del Meridione. Dovrebbero bastare le cifre sull'evoluzione negativa del PIL (-0,2% nel secondo trimestre di quest'anno), sulla disoccupazione
giovanile, ancora in crescita, e sulla perdita costante di posti di lavoro per provocare
un’immediata inversione di rotta sia al Governo che al Parlamento. Non mi
sembra accettabile, per entrambi, sperare in una ripresa automatica senza fare
nulla per provocarla e influenzarla.
Sono convinto che se il Paese non cresce con le proprie
forze (comprese quelle imprenditoriali, finanziarie e sindacali) non sarà
certamente l’Unione Europea (UE) a presidenza italiana a trainarlo. Se si
continua, come si sta facendo, ad aumentare il debito pubblico (in nome di una
mal’intesa flessibilità), non sarà certo la Banca Centrale Europea (BCE) a farsene
carico. Se non si taglia la spesa pubblica che continua a crescere, le risorse
disponibili per alleviare il disagio (estensione della platea dei beneficiari
dei famosi 80 euro) e incentivare la crescita saranno sempre più insufficienti.
Se non viene bloccata la fuga all’estero dei cervelli e dei giovani
perché in Italia non trovano prospettive per la loro formazione e il loro
futuro professionale si rischia di sconvolgere la demografia di intere regioni
e aggravare fino a renderlo insostenibile il rapporto di dipendenza tra
anziani e giovani.
Quest’ultimo aspetto mi sembra particolarmente drammatico nel
Mezzogiorno, dove la formazione è sterile, senza sbocchi nel contesto locale, e
l’occupazione si riduce sempre più in quantità e qualità. Anche a livello
nazionale dovrebbe far riflettere la statistica di Eurostat secondo cui, mentre
nei Paesi dell’UE il tasso di occupati nazionali (68,9%) supera di gran lunga quello
degli stranieri, in Italia è occupato il 59,3% degli italiani, ma il 60,1%
degli stranieri non europei e il 65,8% degli stranieri provenienti dall’UE.
Riforma del Senato: rischi connessi
L’interminabile discussione sulla riforma del Senato, mi
sembra il simbolo di questo capovolgimento delle priorità. Per quanto si possa
ritenere necessaria l’eliminazione del «bicameralismo perfetto» è difficile sostenerne
l’urgenza. Inoltre, l’insistenza con cui il Governo ha preteso la non elezione
diretta dei senatori mi appare molto sospetta.
Un Senato non elettivo (quindi sostanzialmente composto da nominati)
non potrà mai essere rappresentativo della volontà popolare e quindi sarà
sempre di rango inferiore alla Camera dei deputati eletti a suffragio
universale. Ma un Senato non rappresentativo e privato della capacità
legislativa e di controllo del Governo potrebbe apparire ed essere uno dei
tanti carrozzoni inutili dell’apparato statale. Tanto varrebbe eliminarlo del
tutto.
Conservando un Senato sia pure ridotto a 100 membri
(auspicabile) ma senza poteri si rischia di far scomparire in Italia non solo
il bicameralismo perfetto, ma semplicemente il bicameralismo, presente in buona
parte degli Stati moderni comparabili per grandezza e complessità con l’Italia.
La sua sostanziale ininfluenza significherebbe anche una rinuncia definitiva al
federalismo. Nemmeno la Lega Nord sembra rendersene conto.
In oltre 150 anni di
storia unitaria dell’Italia il divario regionale e tra le grandi aree
geografiche del Nord, del Centro e del Sud non solo non è scomparso, ma rischia
di accrescersi ulteriormente.
Una forma di decentramento e di autonomie regionali o per
grandi aree potrebbe essere almeno tentata. Una riforma del Senato in senso
federale avrebbe potuto rappresentare un buon segnale in questa direzione. Forse
sarebbe stato meglio, in questo momento, fare una miniriforma riducendo il
numero dei parlamentari, deputati e senatori, eliminando alcuni compiti del
Senato e attribuendogliene altri, come avviene in tutti i Paesi che hanno un
Senato accanto alla Camera del popolo.
Tutto in nome della governabilità?
Ma forse il governo Renzi, forte di una straordinaria e anomala
maggioranza (frutto di una legge elettorale riconosciuta in parte
incostituzionale) crede di poter imporre il proprio punto di vista ora o mai
più. Per garantire la piena governabilità del Paese, l’obiettivo di Renzi potrebbe
essere il governo di un uomo solo al comando, ossia il capo del maggior partito
risultante vincitore alle elezioni, che disporrebbe del sostegno incondizionato
della Camera dei deputati (grazie al premio di maggioranza attribuito al primo partito
eletto secondo la nuova legge elettorale in discussione) e delle principali
leve del potere. Oppure no?
Giovanni Longu
Berna 6.8.2014
Berna 6.8.2014
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