31 luglio 2025

Ignazio di Loyola, un santo moderno

Dopo aver trattato negli ultimi due articoli dell’antropologia di Sant'Agostino ispirandomi alla Città di Dio, l’opera più completa della sua maturità, oggi desidero presentare un altro gigante della fede, che continua ad avere seguaci in tutto il mondo: Sant'Ignazio di Loyola, di cui oggi 31 luglio ricorre la memoria liturgica. Tra i due non esiste alcun legame storico diretto (anche se non sarebbe difficile trovare qualche analogia), ma entrambi possono essere considerati artefici di primissimo piano nella costruzione del pensiero moderno occidentale impregnato di valori cristiani. Basterebbe pensare all’influenza che hanno ancora nel mondo moderno alcune opere di Sant’Agostino e gli «Esercizi spirituali» di Sant’Ignazio. Del resto, i due ordini religiosi che s’ispirano ai carismi dei due Santi, l’Ordine di Sant'Agostino (o Agostiniani) e la Compagnia di Gesù (o Gesuiti) sono ancora vitali, impegnati, utili alla Chiesa e al mondo. Basti ricordare che l’attuale papa Leone XIV è un agostiniano e il suo predecessore Francesco era un gesuita. In quest’articolo tratterò tuttavia  solo della Compagnia di Gesù, di cui il 27 settembre ricorre il 485° di fondazione, per evidenziarne soprattutto la singolarità del nome e la sua costante influenza anche nel mondo d’oggi.

Ignazio di Loyola e l’esperienza religiosa

Ritratto di Sant'Ignazio di Loyola (1491-1556), di P. P. Rubens
Di solito quando si parla dei Gesuiti al passato si pensa a una dimensione più appariscente che interiore, con l’aggiunta spesso di una buona dose di esagerazione. Si pensa, per esempio, al ruolo ch'essi avrebbero avuto nell'evangelizzazione, nell'arte di convertire gli infedeli e gli eretici, nella formazione dei quadri dirigenti, nell'educazione dei giovani, nella diffusione del pensiero cattolico, ecc. talvolta esagerandone la portata e, soprattutto, dimenticando da quali principi erano mossi e con quale spirito agivano.

Spesso si dimentica che il fondatore dei Gesuiti, Iñigo Lopez de Loyola (1491-1556) non ha voluto un manipolo di combattenti, ben addestrati (intellettualmente), obbedienti e coraggiosi, per contrastare il paganesimo e l’eresia, ma un gruppo di amici tra loro e innamorati di Gesù Cristo. Infatti, pur essendo di origine cavalleresca, Ignazio di Loyola, non volle costituire una compagnia di cavalieri alle sue dipendenze che portasse il suo nome (come si usava allora), sia pure a fini religiosi, ma seguì una sorta di illuminazione celeste e, visto che non avevano un capo se non Gesù Cristo che volevano servire, propose al gruppo di chiamarsi «Compagnia di Gesù», anche se oggi i suoi membri sono forse più noti come «Gesuiti».

A mio parere si è fantasticato molto, anche tra i suoi primi biografi, su come Ignazio e i suoi primi compagni siano giunti a quel nome, lasciandosi magari suggestionare dalla mentalità dell’epoca che considerava gli Ordini religiosi come milizie scelte della Chiesa al comando del Papa. Persino Francesco d’Assisi era cantato in un carme francescano «capitano di uomini apostolici che guerreggiano contro le guarnigioni del mondo, della carne, di Satana». E anche lo stesso Ignazio di Loyola, almeno in certi momenti, ha considerato la Compagnia di Gesù una truppa scelta della Chiesa a disposizione del Papa, provvidenzialmente suscitata da Dio a difesa della fede cattolica contro i Protestanti del Nord Europa e per evangelizzare «tutte le terre degli infedeli».

In realtà, Ignazio di Loyola ha sempre pensato soprattutto a un «gruppo di amici, compagni», uniti nella fede e nell'amore di Cristo, che desideravano imitare fino in fondo e servire in modo esclusivo, pur lasciando decidere al Papa «dove», se in Palestina o altrove, ma sempre pronti a recarsi in qualunque parte del mondo fosse necessario per il bene della Chiesa e degli uomini. Per questo dovevano essere particolarmente preparati e ben disposti («obbedienza»).

Ignazio stesso si era voluto preparare, dapprima alla meglio (in alcune città spagnole) e poi scrupolosamente a Parigi, dove divenne dottore in teologia. In realtà l’ambizione di Ignazio e dei suoi compagni era quella di rassomigliare il più possibile a Cristo, nella povertà estrema, nella sofferenza e persino andando in prigione a causa della verità. Per questo maturavano l’idea di volersi chiamare come gruppo nient’altro che la «Compagnia di Gesù».

Il papa Paolo III approva la Compagnia di Gesù (1540) 

Quando chiesero al Papa Paolo III il riconoscimento ufficiale del gruppo nella forma di un nuovo Ordine religioso, la Curia sollevò non poche obiezioni (forse anche a causa del nome prescelto) finché il Papa il 27 settembre 1540 ne decise l’approvazione con la bolla «Regimini Militantis Ecclesiae» (Al governo della Chiesa militante), ma ne limitò anche il numero di membri a sessanta (un numero presto superato, facendo abrogare la limitazione).

La Compagnia di Gesù

Ignazio scriverà nella «Formula» dell’istituzione: «Chiunque voglia militare per Dio sotto il vessillo della Croce in questa Compagnia, che vogliamo insignita del nome di Gesù e voglia mettersi al servizio del Signore e del Romano Pontefice, suo vicario in terra,… tenga sempre presente che la intera Compagnia e i singoli suoi membri combattono al servizio di Gesù…».

Esula dall'ambito di questo articolo ricordare anche solo per sommi capi l’intera biografia di Ignazio di Loyola e soprattutto la storia dei Gesuiti, ma a prescindere da qualsiasi giudizio storico si dia su di essa, non si può non ricordare che la Compagnia di Gesù è nata attorno a un Capo, Gesù Cristo, «vero e sommo Capitano», «un re così generoso e così umano», ma anche un Capo esigente perché non chiede una semplice collaborazione esterna nella conquista del Regno, ma esige la donazione completa di tutta la persona, della mente e del cuore, di tutte le proprie forze, come Cristo che si è dato totalmente al servizio del Padre. Ignazio considerava il servizio apostolico richiesto alla Compagnia un impegno gravoso perché «dobbiamo essere occupati per la maggior parte del giorno e perfino della notte ad aiutare quelli che soffrono nel corpo e nell'animo».

Ignazio di Loyola alla ricerca della volontà di Dio!
Per questo il fondatore della Compagnia si è sempre preoccupato della consistenza interiore dei suoi seguaci ai quali additava costantemente come fine la sequela di Cristo nella Chiesa, nella fede, nell'amore e nelle opere (l’apostolato nelle più svariate forme). Per questo ogni gesuita e ogni seguace doveva «cercare Dio in ogni cosa», sviluppare il «discernimento dei diversi spiriti», ossia la capacità di riconoscere la volontà di Dio attraverso riflessioni, sentimenti ed emozioni, dedicarsi periodicamente agli «esercizi spirituali» (esame di coscienza, meditazione, preghiera vocale e mentale, ecc.), non dimenticando, però, che «non è il sapere molto che sazia e soddisfa l'anima, ma il sentire e gustare le cose internamente».

Se la Compagnia di Gesù sia sempre stata fedele alla sua «Formula», se abbia sempre cercato di «militare sotto il vessillo della Croce» e se abbia sempre cercato la «maggior gloria di Dio» spetta agli studiosi deciderlo. La storia ha comunque già assegnato alla Compagnia di Gesù un posto di rilievo nella Chiesa, nella cultura e nel mondo moderno. Del resto, la pratica degli Esercizi spirituali secondo il metodo ignaziano è sempre molto diffusa anche tra i laici, soprattutto tra coloro che cercano di «disporre l'anima a liberarsi da tutte le affezioni disordinate e, dopo averle eliminate, a cercare e trovare la volontà di Dio nell'organizzazione della propria vita in ordine alla salvezza dell'anima».

Giovanni Longu
31 luglio 2025

29 luglio 2025

Antropologia agostiniana (2a parte)

A chi leggesse frettolosamente e frammentariamente le opere principali di Sant'Agostino o anche solo il De Civitate Dei l’antropologia agostiniana potrebbe apparire negativa e pessimistica già dalla definizione di uomo come composto di anima e corpo, in cui l’anima, pur essendo la parte superiore è fortemente condizionata e appesantita sulla terra dal corpo, la parte inferiore, corruttibile, gravato pesantemente dal peccato originale, che rende tutto l’uomo «peccatore» e autore del disordine del mondo dopo aver abbandonato la Città di Dio per vivere nella Città terrena «senza Dio». Ad una lettura più attenta, invece, l’antropologia agostiniana risulterebbe sostanzialmente positiva, ottimistica, sublime, ovviamente nel contesto di fede in cui vive e scrive Agostino.

L’uomo salvabile, anima e corpo

Ritratto di Agostino (354-430) di S. Botticelli, 1480.

Benché peccatore, tanto da meritare di essere cacciato dal Paradiso e di trasmettere all’intera umanità il peccato originale, l’uomo per Agostino è ancora salvabile, sia pure non per merito suo, ma perché Dio stesso, facendosi uomo, ha salvato la natura umana nella sua essenza e può renderlo ancora partecipe della gloria eterna. Anche un non credente, leggendo il De Civitate Dei, sarebbe soggiogato dalla convinzione e dall’enfasi con cui Agostino tratta il mistero dell’Incarnazione («Il Verbo fatto carne») e della Salvezza attraverso Gesù Cristo, «vero uomo e vero Dio», che ha reso l’uomo «fratello» e Dio «padre», anche nostro.

L’uomo per Agostino è dunque salvabile, come se Dio non si fosse rassegnato a perdere la sua creatura speciale, creata a sua «immagine e somiglianza», ciò che costituisce una certa affinità tra il Creatore e la creatura umana, benché non si possa ritenere questa «somiglianza» una copia perfetta, altrimenti l’uomo sarebbe come Dio.

Agostino ha dovuto lottare con quanti avevano dell’uomo opinioni diverse e più pessimistiche (da Platone ai Manichei) ed è riuscito a trasmettere ai contemporanei e a noi stessi un’immagine dell’uomo originariamente buono, libero e immortale. La caduta ha rovinato il suo primigenio stato di grazia, ha reso l’uomo «fiacco, fragile e destinato alla morte», ma Dio non l’ha privato di tanti doni e soprattutto della possibilità di salvarsi attraverso la conoscenza, la fede e la grazia divina. Anche il corpo potrà raggiungere la felicità e l’immortalità.

Per Agostino, il corpo, soggetto a corruzione appesantisce l'anima, ma non l’opprime. In alcune opere ne ammira le capacità, la bellezza, il suo tendere costantemente al bello e al vero. Poco importa, sembra dire Agostino, che l’uomo sia fatto di anima e corpo perché è unico, per grazia di Dio. E anche se il corpo prima o poi morirà, l’uomo anima e corpo è destinato a sopravvivere alla morte, che di per sé «non è niente», è solo un passaggio. Del resto, già su questa terra il suo corpo è una meraviglia e Agostino si domanda: «in esso la posizione dei sensi e le altre membra non sono forse così disposte, l'aspetto, l'atteggiamento e la statura di tutto il corpo non sono forse così regolate che esso si rivela organizzato per il servizio dell'anima razionale?». E non è meravigliosa la complessità e l’armonia delle varie parti del corpo umano con il suo «groviglio di vene, nervi e viscere, nascondiglio di funzioni vitali»?

L’uomo, la grazia e l’immortalità

L’uomo, dice Agostino, a differenza di tutti gli altri esseri viventi «privi di ragione e chini verso la terra» ha una forma « che si erge verso il cielo» e fa pensare che egli capisca le cose dell'alto. «La sorprendente facilità di movimento, che è stata assegnata alla lingua e alle mani, appropriata e congiunta al parlare e allo scrivere e a compiere le opere di molte tecniche e servizi, non dimostra forse chiaramente a quale anima, per esserle sottomesso, è stato unito un corpo simile?»

E che meraviglia gli altri sensi, attraverso i quali l’uomo riesce a percepire la bellezza e l’utilità della realtà creata «nella multiforme e varia bellezza del cielo, della terra e del mare, nella grande profusione e meraviglioso splendore della luce stessa nel sole e luna e nelle stelle, nella ombrosità dei boschi, nel colore e odore dei fiori, nella diversità e numero degli uccelli ciarlieri e variopinti, nella diversa vaghezza di tanti e tanto grandi animali, fra i quali destano maggiore ammirazione quelli che hanno il minimo della grossezza, perché ammiriamo di più l'operosità delle formiche e delle api che i corpi immensi delle balene, e nella immensa veduta del mare quando, come di una veste, si ricopre di vari colori e talvolta è verde nelle varie gradazioni, talora color porpora, talora azzurro e lo si ammira anche quando è in tempesta…».

E che dire dell’avvicendarsi del giorno e della notte, della carezzevole tiepidezza delle brezze, della varietà della vegetazione e del bestiame, della ricchezza dei colori e dei sapori! Agostino però va oltre e quando sembra interrogarsi se «tutti questi beni sono sollievi d'infelici e condannati» o piuttosto «premio dei beati» pone un’altra domanda: «che cosa sarà dunque quel bene [il premio dei beati] se già questi [terreni] sono tanti, così considerevoli e grandi? Che cosa darà a coloro che ha predestinato alla vita colui che li ha anche dati a coloro che ha predestinato alla morte? Quali beni farà avere nella vita beata a coloro per i quali in questa vita infelice ha voluto che il suo Figlio unigenito soffrisse tanti mali fino alla morte?»

Agostino non ha dubbi, sarà «una grande, abbagliante, certa scienza di tutte le cose, senza errore e inquietudine, perché lì si berrà la sapienza dalla sua stessa sorgente con somma serenità, senza difficoltà». Anche il corpo avrà la sua ricompensa che consisterà in una «grande perfezione».

Libertà e grazia per l’eternità

Sulla terra, però, l’uomo non ha sempre un compito facile perché deve scegliere, tra il bene e il male, è libero. Infatti, nel Paradiso terrestre, dopo il peccato originale, Dio non gli ha tolto la libertà, gliela ha lasciata perché da uomo libero decidesse a quale Città appartenere, a quella terrena o a quella celeste, con la possibilità di rinunciare o perseguire, sia pure con l’aiuto della grazia divina, il fine per cui è stato creato, ossia la contemplazione di Dio stesso che «ci hai fatti per sé e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in Lui».

Agostino, che eredita dalla filosofia greca, specialmente da Platone, molte nozioni e considerazioni generali, a quelle nozioni sovrappone le sue scoperte più geniali e confortanti, frutto di lunghe riflessioni, una conoscenza approfondita delle Sacre Scritture, una grande umiltà e una incrollabile fede: l’uomo non ha solo un’origine divina, ma è l’immagine di Dio, a Lui deve tendere con tutte le sue forze senza lasciarsi deviare da altri amori. Solo in Lui, infatti, l’uomo raggiungerà la felicità eterna.

Forse nessuno meglio di Agostino, nel mondo occidentale, ci ha tramandato un’antropologia così originale, preziosa, ottimistica e incoraggiante, perché sottolinea la tensione fortissima dell’uomo verso la Trascendenza. L’uomo, infatti, secondo Agostino, lo sappia o no, lo voglia o no, è sempre in cammino verso Dio perché è da Lui è stato creato a sua immagine e somiglianza ed è fatto per Lui. (Fine)

Giovanni Longu
Berna 26.07.2025

 

22 luglio 2025

Antropologia agostiniana (1a parte)

Estate significa per molti, giustamente, tempo di riposo, di svago, di estraneazione dalle occupazioni e preoccupazioni quotidiane. Proprio per questo l’estate è un periodo in cui è forse più facile per chiunque ritagliarsi momenti di riflessione su se stessi e sul mondo. Ne abbiamo bisogno perché il senso della vita non ci viene imposto nascendo ma dobbiamo costruirlo e perfezionarlo giorno per giorno. E abbiamo bisogno di una seria riflessione sul mondo perché alcune situazioni (guerre, eccidi, violazioni dei diritti umani fondamentali…) non possono lasciarci indifferenti, interpellano le nostre coscienze e non possiamo abdicare alle nostre responsabilità riesumando il pensiero manicheo del Bene e del Male come forze superiori e insuperabili. Per aiutare tale riflessione ritengo utile proporre ai lettori alcune considerazioni dopo aver letto un’opera geniale anche se poco conosciuta di Sant'Agostino, il De Civitate Dei, la Città di Dio. Con esse desidero anche rendere omaggio a papa Leone XIV che appartiene all'Ordine di Sant'Agostino e ne interpreta egregiamente il pensiero, l’anelito alla pace, alla verità, alla giustizia, a Dio.

Premesse

Sant’Agostino di Ippona (354-430)
Purtroppo media poco critici, considerazioni politiche di bassa lega, interventi troppo «prudenti» di governanti, genericismi di intellettuali poco motivati e indifferenza crescente per tutto ciò che è apparentemente lontano ci stanno spingendo a un’eccessiva e superficiale considerazione del mondo, come se fosse effettivamente governato dal Bene e dal Male. Fra l’altro, un’interpretazione molto rischiosa perché spinge a dividere il mondo in Paesi buoni e Paesi cattivi, contrapponendo Paesi democratici a Paesi autoritari e magari Occidente a Oriente, Stati Uniti a Russia, Israele a Palestina, ecc. come se il bene e il male non possano trovarsi, sia pure in misura diversa, nell'uno e nell'altro campo. Sta di fatto, però, che la contrapposizione manichea oggi si sta nuovamente diffondendo, in svariate forme e ha già contagiato parti significative della politica, dei media, degli intellettuali e dell’opinione pubblica.

Che il mondo d’oggi (come del resto quello di ieri) sia piuttosto complicato non ha bisogno di dimostrazione, ma la teoria manichea già combattuta e vinta da Sant'Agostino nella Città di Dio dovrebbe essere combattuta anche ora per dimostrare che sia il male che il bene presenti nel mondo sono opera dell’uomo, libero per natura ed evidentemente capace di opere buone e opere cattive. Come aiuto alla riflessione propongo alcune considerazioni che traggono spunto da un’attenta lettura dall'opera geniale anche se poco conosciuta di Sant'Agostino, il De Civitate Dei, la Città di Dio.

Sant'Agostino (354-430), uno dei più importanti Padri della Chiesa latina, pensatore acuto e profondo è anche autore di altre opere molto note (Confessioni, Ritrattazioni…), ma il De Civitate Dei è a detta di molti studiosi l’opera più completa e più rappresentativa della sua esperienza umana, religiosa, filosofica e teologica.

Da quest’opera, piuttosto lunga e di non facile lettura, trarrò solo alcuni spunti, prescindendo dal momento storico in cui è stata scritta ( tra il 413 e il 426) e dallo scopo iniziale (difendere il Cristianesimo dalle accuse di aver provocato con l’abbandono dei vecchi culti la caduta dell’Impero Romano alla morte di Teodosio nel 395), dalle considerazioni specificamente teologiche (peccato originale, grazia, inferno, paradiso, ecc.) e anche dalle considerazioni dell’Autore su quell'evento sbalorditivo mai successo prima, il saccheggio di Roma da parte dei barbari, i Goti di Alarico nel 410.

Papa Leone XIV, grande interprete di Sant'Agostino
Pur prescindendo da questi aspetti, l’opera è importante perché Agostino, allora vescovo di Ippona (oggi Annaba in Algeria), in quest’opera non si limita a demolire il fondamento etico, filosofico, religioso e politico del mondo pagano, ma fornisce ai contemporanei e persino a noi moderni una chiave interpretativa del mondo e della storia, da leggersi come la lotta secolare fra due Città, molto potenti, la Città celeste e la Città terrena.

L'idea fondamentale che pervade da un capo all'altro il De Civitate Dei è la presenza di Dio nella storia, il quale guida e regge meravigliosamente gli avvenimenti umani fino alla consumazione dei secoli senza togliere la libertà, anzi proprio attraverso la libertà degli uomini. Non so quanto sia fondamentale questa idea, ma trovo convincente che forse basterebbe questa considerazione per ammettere che il «disordine» del mondo potrebbe dipendere proprio dalla negazione della presenza di Dio nella storia e dal conseguente disorientamento della libertà dell’uomo.

Libertà e responsabilità

Certamente non è possibile interpretare il mondo di oggi, nemmeno quella parte sconvolta dalle guerre, dall'odio tra popoli diversi, dalle violazioni dei diritti fondamentali delle persone, dai soprusi nell'indifferenza pilatesca dei grandi poteri politici, solo utilizzando le categorie-guida di Agostino, ma non è nemmeno possibile capire gli eventi che ci preoccupano e ci turbano senza richiamare i concetti agostiniani e cristiani di coscienza, colpa, libertà, responsabilità, verità, giustizia, bontà, ricerca di sé e della felicità, ricerca di Dio.

Per gran parte dell’umanità, soprattutto in Occidente, Dio e uomo sono oggi inesorabilmente separati; non lo erano per Agostino, che riusciva a individuare l’uomo nelle sue profondità esistenziali come essere da Dio, di Dio e per Dio. D’altra parte, l’uomo non può conoscere Dio se non ritornando nel fondo di sé stesso, nella sua coscienza, perché Dio, diceva Agostino nelle Confessioni, è «intimior intimo meo» (più interiore della mia intimità). (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 19.07.2025

09 luglio 2025

1935: Aggressione italiana dell’Etiopia

90 anni fa l’Italia fascista aggrediva l’Etiopia per mania di grandezza imperiale e per trovare una destinazione sicura all'emigrazione. Non credo che questo anniversario sarà ricordato dai grandi media, specialmente in Italia. Per fortuna il tempo cancella molte ferite, ma non mi sembra privo d’interesse sia come fatto storico, legato fra l’altro alla politica migratoria del tempo, e sia come spunto di riflessione sull'attualità e soprattutto sui rischi che anche la nostra società può correre se non si percepisce il nazionalismo come una minaccia e non si riesce a produrre i necessari anticorpi per liberarcene. E’ vero che quell'aggressione è imputabile a una politica scellerata del fascismo, ma non si può ignorare che a renderla accettabile anche da moltissimi immigrati, furono un diffuso nazionalismo, carenze democratiche e indifferenza sociale. Purtroppo il nazionalismo è nuovamente in crescita in Europa e anche in Italia e si fa poco per denunciarne la pericolosità. La corsa al riarmo, la bassa considerazione degli immigrati e dei diritti umani e lo scarso impegno per «lo sviluppo integrale dell’uomo e lo sviluppo solidale dell’umanità» (Paolo VI nell'enciclica Populorum progressio del 1967) non promettono nulla di buono. Dovremmo reagire tutti.

I fatti in breve

Va premesso che l’Italia fino allo scoppio della prima guerra mondiale aveva scelto come sfogo ai rischi della disoccupazione e della sovrappopolazione la via dell’emigrazione regolare, mentre il regime fascista, anche per aggirare le restrizioni di molti Paesi all'immigrazione in seguito alla crisi economica dei primi anni Trenta, privilegiò «il mito delle colonie di popolamento».

L’invasione dell’Etiopia rientrava in questa politica, senza rendersi conto dei rischi. Le operazioni militari si svolsero  fra il 3 ottobre 1935 e il 5 maggio 1936, a partire dalle colonie italiane d’Eritrea e Somalia. Mussolini era convinto che la potenza di una nazione dipendesse dal suo impero coloniale, pur sapendo che i territori più vantaggiosi erano già occupati. Volle ugualmente la conquista di un Paese arretrato e male armato come era allora l’Etiopia, convinto «che ormai gli fosse tutto possibile usando la forza» e una rapida vittoria fosse alla sua portata. La campagna d’Etiopia fu un’interminabile strage con centinaia di migliaia di morti militari e civili, attuata con bombardamenti massicci, l'impiego di armi chimiche e la repressione contro la popolazione etiope.

Dopo qualche momento di esitazione, a causa degli accordi di mutua convenienza sanciti dai Patti Lateranensi (1929) e della posizione del clero italiano, che appoggiava in gran parte la guerra, il papa Pio XI intervenne decisamente il 28 agosto 1935 dichiarando che «una guerra condotta unicamente per conquistare era una guerra ingiusta: qualcosa di indicibilmente triste ed orrenda”. Mussolini non lo ascoltò, ma non altrettanto fecero altre potenze che investirono del caso la Società delle Nazioni (SdN), antesignana dell’ONU. E questa decise severe sanzioni contro l’Italia, a cui aderì anche la neutrale Svizzera.

Le reazioni tra gli emigrati

Manifesto in vista della votazione del 16.5.1920
 sull'adesione svizzera alla Società delle Nazioni
(Biblioteca nazionale svizzera, Berna).
Le sanzioni non furono senza conseguenze non solo in Italia (dove suscitarono soprattutto una ventata di nazionalismo e di patriottismo che portò al successo della campagna per il dono delle fedi nuziali destinata a procurare oro alla nazione), ma in tutto il mondo italofono. In particolare negli Stati Uniti contribuirono ad accrescere la popolarità del Duce e ad animare l’orgoglio nazionale, soprattutto tra gli italo-americani, che nel 1935 raccolsero mezzo milione di dollari per sostenere l'invasione italiana dell'Etiopia.

In Svizzera non ci fu una reazione omogenea perché, come si è visto negli articoli precedenti, l’antifascismo aveva cominciato a far presa su gruppi organizzati già dagli anni Venti e sul solido gruppo socialista di Zurigo che faceva riferimento al «Cooperativo». Per questo l’aggressione dell’Italia all'Etiopia tra gli immigrati italiani non è stata particolarmente seguita, anche per il tiepido atteggiamento governativo svizzero.

Al riguardo desidero ricordare che la reazione della Confederazione alle decisioni della Società delle Nazioni è stata alquanto singolare. Infatti, pur aderendo in quanto Stato membro, alle sanzioni della SdN, decise di non applicarle rigidamente nei confronti dell’Italia, ritenuta un «Paese amico». Al consigliere federale Giuseppe Motta, capo della politica estera, più della fedeltà al Patto della SdN interessava la difesa della neutralità della Svizzera e soprattutto degli interessi economici in Italia (si pensi al problema degli approvvigionamenti). Di fatto, la Svizzera finì per adottare le sanzioni contro l’Italia solo in misura molto blanda, quasi simbolica. Non solo, nel dicembre del 1936 la Svizzera, su proposta di Motta al Consiglio federale, fu il primo Paese neutrale a riconoscere ufficialmente l’Impero italiano in Africa e a considerarne i suoi abitanti nel contesto del Trattato di domicilio e consolare tra Svizzera e Italia del 1868.

In conclusione

Oggi rievoco quella tragica aggressione, in cui i soldati italiani del Ventennio si macchiarono di atroci delitti, non solo come un fatto storico che ha influito sull'emigrazione italiana nel mondo, ma anche per denunciare che il fascismo aveva talmente contagiato il mondo degli emigrati italiani organizzati da far pensare che bastasse una vittoria militare, per altro immeritata data l’evidente differenza della preparazione degli eserciti contrapposti, per far dimenticare le umiliazioni subite nel Paese d’immigrazione. Purtroppo molti non si rendevano conto che solo una buona integrazione e uno sforzo di solidarietà collettiva li avrebbe parificati agli autoctoni.

Ricordare l’aggressione italiana dell’Etiopia, che all'epoca suscitò tra gli emigrati grandi entusiasmi un po’ ovunque, vuol essere anche un richiamo alle responsabilità individuali per evitare che il nazionalismo, anche in forme apparentemente innocue, possa produrre in futuro danni enormi e un invito a diffidare di forme ambigue e pericolose di deterrenza, perché la corsa al riarmo di oggi non promette nulla di buono e non mi sembra saggio invocare la pace preparando la guerra.

Giovanni Longu
Berna 9 luglio 2025


02 luglio 2025

1925-31: Politica immigratoria federale la legge del 1931

Facendo seguito all'articolo precedente, per completezza d’informazione mi sembra opportuno fornire ulteriori informazioni sulla legge federale che ha richiesto la modifica costituzionale approvata nel 1925 e che è stata alla base di gran parte della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera. Poiché questa storia è stata vissuta male da molti italiani e sono ancora tanti coloro che la considerano una storia di sfruttamento e persino di violazione aggravata di fondamentali diritti dell’uomo, ritengo utile fornire ai lettori non prevenuti alcuni elementi oggettivi di giudizio sulla legge federale del 26 marzo 1931 concernente la dimora e il domicilio degli stranieri (LDDS), la legge organica che ha integrato e sostituito gran parte delle ordinanze concernenti gli stranieri emanate durante e subito dopo la prima guerra mondiale. Entrata in vigore il 1° gennaio 1934, è rimasta valida fino all'entrata in vigore della nuova legge sugli stranieri (1° gennaio 2008).

Il contesto

Anzitutto merita ricordare il contesto, ossia il primo dopoguerra, in cui gli svizzeri, pur non avendo partecipato alle operazioni militari hanno conosciuto insieme agli orrori della guerra il prezzo della libertà e dell’indipendenza. Successivamente, anch'essi subirono la difficile crisi del 1929-32, che colpì duramente l’industria d’esportazione, con conseguente aumento della disoccupazione (mentre ha tenuto l’economia interna, favorita dalla crescita dei consumi e dell'edilizia abitativa). Gli anni successivi fino al 1936 furono caratterizzati da una persistente stagnazione e un ulteriore aumento della disoccupazione, con decine di migliaia di disoccupati, che rischiava di aggravare le tensioni sociali ancora esistenti dopo lo sciopero generale del 1918 e la crisi del 1920-23.

Da queste esperienze trassero alcune conclusioni fondamentali:
1. Poiché la sovranità appartiene al popolo e ai Cantoni svizzeri, che insieme costituiscono la Confederazione, a questa spetta principalmente la lotta contro i pericoli di «inforestierimento» dovuti alla presenza di un numero eccessivo di stranieri.
2. Pertanto dev'essere di competenza della Confederazione e non dei Cantoni o dell’economia il controllo degli stranieri (permessi d’ingresso, permessi di dimora e di domicilio, naturalizzazione, integrazione (allora «assimilazione»).
3. Alla Confederazione spetta inoltre il compito di salvaguardare l’ordine pubblico, garantire la sicurezza dello Stato e rafforzare l’unità e l’identità nazionali.

Che la Confederazione abbia scelto la Polizia federale degli stranieri come strumento politico-burocratico per la gestione della politica immigratoria federale non dovrebbe meravigliare perché anche la Svizzera, come in generale tutti i Paesi industrializzati, almeno inizialmente ha visto l’ingresso e la dimora degli stranieri come un problema di ordine pubblico e comunque da tenere sotto controllo. Tanto più che all'epoca era molto diffusa la propaganda fascista a cui si sarebbe aggiunta poco dopo anche la propaganda nazista.

Non dovrebbe nemmeno meravigliare che la legge sia rimasta in vigore tanto a lungo, fino al 1° gennaio 2008, nonostante alcuni tentativi di abrogarla, falliti grazie all'ampio sostegno popolare, all'infondatezza delle accuse di xenofobia nei confronti delle autorità e all'efficacia della legge nel mantenere la pace sociale e la pace del lavoro. Nel frattempo, tuttavia, vennero introdotte diverse modifiche, richieste non solo ad esigenze interne (innovazione tecnologica nell'industria, cambio di mentalità sugli stranieri), ma anche ad esigenze degli immigrati, sempre più stanziali (domiciliati), nonché a pressioni internazionali (negoziati bilaterali).

Pregiudizi ingiustificati

Ciò che invece meraviglia è che qualche pseudo storico o sedicente esperto di migrazioni continui a parlare di una politica di sfruttamento con cui centinaia di migliaia di lavoratori soprattutto italiani siano stati alla mercé di datori di lavoro spietati, di organi dello Stato svizzero vessatori (Polizia degli stranieri), degli svizzeri come se tutti fossero razzisti e nonostante votassero contro le iniziative xenofobe, di rappresentanti diplomatici e consolari italiani più interessati alla loro tranquillità che al benessere dei connazionali, di attivisti politici e sindacali (specialmente svizzeri) solidali a parole e indifferenti in pratica.

Purtroppo questi detrattori seriali della politica immigratoria svizzera non s’interrogano mai sulla legittimità e costituzionalità di quella legge, altrimenti scoprirebbero che fu non solo legittima e costituzionale, ma anche democratica perché approvata all'unanimità dai rappresentanti del popolo e dei Cantoni. A molti di essi sfugge anche la considerazione che senza un rigido controllo degli ingressi e dei permessi di soggiorno degli stranieri, attratti dalla florida economia, il loro aumento illimitato avrebbe potuto pregiudicare la composizione etnica, linguistica, culturale, economica e persino politica della Svizzera, sarebbe stato difficile o forse impossibile conservare l’integrità nazionale e territoriale della Confederazione, rafforzare la fragile identità nazionale, promuovere il benessere generale e la sicurezza economica della popolazione, conformemente al senso e allo spirito della costituzione federale.

Purtroppo è stato invece sempre carente, a parere dello scrivente, il contributo al miglioramento della legge e della situazione degli immigrati da parte dell’immigrazione italiana organizzata, perché questa ha quasi sempre privilegiato la contestazione e quasi mai la proposta ragionevole e sostenibile, non ha scelto sempre gli strumenti più adeguati e non ha sempre sostenuto convintamente la via maestra dell’integrazione, non ha visto a lungo di buon occhio la tendenza alla naturalizzazione della seconda e poi della terza generazione. Ma non è questo l’ambito giusto per trattare questi temi.

Limiti della legge del 1931

Anche la legge sugli stranieri del 1931 può essere ovviamente criticata e a mio parere alcuni punti lo meritano perché avrebbe potuto essere opportunamente modificata, almeno dal momento in cui la politica svizzera si è resa conto che l’immigrazione stava diventando strutturale. Il legislatore avrebbe potuto (e forse dovuto) mitigare la rigidità dei permessi di soggiorno, intervenire contro gli abusi del permesso stagionale che creavano troppi «falsi stagionali», introdurre misure di sostegno all'integrazione senza aspettare le iniziative anti-stranieri di Schwarzenbach, facilitare la naturalizzazione della seconda generazione, superare la rigidità di una legge che era stata concepita e approvata per consentire alla Confederazione di lottare contro il pericolo dell’inforestierimento (Überfremdung), soprattutto quando la percentuale degli stranieri ha cominciato a decrescere (8,7% nel 1930).

La Svizzera si presentava ed era vista allora soprattutto
come meta «temporanea» (e precaria) di lavoro e di vita! 
L’articolo 4, per fare qualche esempio, avrebbe potuto essere eliminato o almeno riscritto dando per scontato che «l’autorità decide liberamente, nei limiti delle disposizioni di legge e dei trattati con l’estero, circa la concessione del permesso di dimora o di domicilio» e che non è obbligata al rinnovo dei permessi, qualora vengano meno le condizioni per le quali furono rilasciati. Perché insistere sul sentimento di precarietà già vissuto drammaticamente da molti immigrati?

Anche l’articolo 10 avrebbe potuto essere lasciato cadere o scritto diversamente senza elencare la nutrita casistica per cui gli stranieri indesiderati potevano essere espulsi (criminalità, malattia, indigenza (!), abuso dell’ospitalità svizzera con ripetute infrazioni gravi dell’ordine pubblico, ecc.).

L’articolo 16, giustificato nella sostanza, avrebbe potuto essere migliorato nella forma, anche per non ingenerare equivoci, inevitabili quando si dice genericamente che «nelle loro decisioni, le autorità competenti a concedere i permessi terranno conto degli interessi morali, economici del paese nonché dell’eccesso della popolazione straniera». Bastava forse dire che le nuove ammissioni dovranno avvenire tenendo presente la situazione del mercato del lavoro.

Tuttavia, il principale limite di questa legge è stato forse di mirare essenzialmente a «proteggere» gli interessi svizzeri (e i valori svizzeri contro il pericolo di un’invasione incontrollata di migranti eterogenei), trascurando, anche nell'interesse svizzero, il principio dell’integrazione degli stranieri, soprattutto di quelli residenti stabilmente. Purtroppo, solo lentamente, dopo il 1970, la politica è intervenuta a mitigare le difficili condizioni di vita degli stranieri e ad avviare lentamente l’integrazione, cominciando dalle seconde generazioni. Meglio tardi che mai?

Giovanni Longu
Berna 02.07.2025 

25 giugno 2025

1925: Basi della politica immigratoria federale

Alla fine della prima guerra mondiale la Confederazione sapeva che doveva darsi una normativa chiara e solida riguardo agli stranieri che dagli ultimi decenni dell’Ottocento giungevano in massa per sopperire alla carenza di manodopera svizzera per un’economia con ampie prospettive di sviluppo. L’Esposizione nazionale di Berna del 1914 aveva messo in luce non solo i risultati conseguiti dall’industria svizzera e riverberati nel benessere diffuso su vasta scala (la Belle Epoque), ma anche le grandi potenzialità delle nuove scoperte, dell’innovazione tecnologica e dell’organizzazione del lavoro. La guerra, però, aveva insegnato agli svizzeri che il progresso illimitato non era garantito e che l’abbondante forza lavoro straniera presente in Svizzera avrebbe potuto creare seri problemi, perché non poteva essere naturalizzata «per forza» né rinviata al Paese di provenienza, a causa degli accordi bilaterali con gli Stati fornitori, qualora non fosse stata più necessaria. L’incertezza del futuro animò a lungo il dibattito pubblico sugli stranieri, fin quando, nel 1925, giusto cento anni fa, il Popolo fu chiamato a decidere.

Le incertezze del dopoguerra

La prima guerra mondiale, pur avendo risparmiato in gran parte la Svizzera, ne aveva minato lo slancio ottimistico che aveva caratterizzato il primo decennio del secolo e che si era manifestato nella grande Esposizione nazionale di Berna nel 1914, in piena Belle Epoque. Per coloro che non vedevano più davanti a sé un futuro roseo per l’economia (e di conseguenza per la prosperità sociale) fu facile individuare nella sovrabbondante manodopera straniera l’ostacolo a cui occorreva trovare urgentemente un rimedio per non correre il rischio di dipendere dall’estero (pericolo di inforestierimento) e dover assistere migliaia di persone in più (pericolo di un’assistenza insopportabile) in caso di disoccupazione estesa.

Il dibattito era in corso dall'inizio del secolo, ma le soluzioni proposte si rivelarono inefficaci, compresa la nuova legge sulla cittadinanza del 1903 voluta per facilitare l’acquisizione della cittadinanza svizzera a chi nasceva in Svizzera da genitori stranieri già residenti in questo Paese (introducendo una sorta di Ius soli). In tal modo si pensava di poter stabilizzare la popolazione straniera residente, ma nessun Cantone se ne avvalse. D’altra parte, la Confederazione non aveva alcuna competenza sulla gestione ordinaria degli stranieri in quanto la Costituzione l’attribuiva ai Cantoni.

A questa difficoltà interna si aggiungeva per la Confederazione quella esterna di aver sottoscritto, specialmente con i Paesi vicini, per esempio con l’Italia, trattati importanti di libera circolazione delle persone in entrambi gli Stati, ai quali non intendeva rinunciare. Come avrebbe potuto la Svizzera rinviare in quei Paesi la manodopera eccedente le necessità dell’economia? Inoltre, come poteva impedire l’ingresso alle persone che volevano entrare in Svizzera?

Rimedi provvisori

Per alcuni decenni il Consiglio federale rimediò a questa lacuna costituzionale con soluzioni provvisorie, prolungando alcune misure eccezionali introdotte in tempo di guerra (come facevano generalmente tutti gli Stati belligeranti) per impedire l’ingresso indiscriminato in Svizzera a disertori, renitenti anarchici, socialisti, bolscevichi, disoccupati e persino delinquenti comuni provenienti da tutta l’Europa in seguito al crollo degli imperi russo, austro-ungarico e tedesco. Fu persino reintrodotto il «visto» sui passaporti, ma, soprattutto, avvalendosi dei poteri straordinari ricevuti durante la guerra, il Consiglio federale istituì nel 1917 l’Ufficio centrale di polizia degli stranieri (la cosiddetta Polizia degli stranieri), destinata a diventare praticamente lo strumento politico-burocratico contro l’«inforestierimento».

Si sa che grazie alle misure adottate dalla Confederazione alcuni risultati erano stati raggiunti, per esempio, la quota degli stranieri sulla popolazione residente totale era scesa dal 14,7% di prima della guerra al 10,4% del 1920, sebbene il Consiglio federale ritenesse che il 10,4 % di stranieri costituisse pur sempre «una proporzione anormale per l'equilibrio della nostra popolazione».

Nessuno, tuttavia, era soddisfatto della situazione normativa riguardante gli stranieri perché non era costituzionalmente fondata, si prestava a grandi difformità cantonali.

Necessità di una riforma costituzionale

L’insoddisfazione per le misure eccezionali adottate dal governo era molto diffusa, anche perché la regolamentazione degli stranieri differiva da Cantone a Cantone, e da più parti si reclamava un disciplinamento legislativo federale uniforme della materia. Nel corso di un dibattito parlamentare del 1923 «sui provvedimenti da prendersi per favorire l'assimilazione degli stranieri in Svizzera e specialmente sulla revisione della legislazione concernente la naturalizzazione» fu chiesto ancora una volta al Consiglio federale di presentare al Parlamento una regolamentazione federale organica delle questioni relative al problema degli stranieri, specialmente quelle del soggiorno e della naturalizzazione.

Nel 1924, nella sua risposta il Governo non fece che ribadire che un intervento regolatore della Confederazione in materia di stranieri sarebbe stato possibile solo se ne avesse avuto la competenza costituzionale. Si trattava quindi di adottare in Parlamento la modifica costituzionale necessaria e sottoporla, come ogni modifica della Costituzione federale, al voto popolare. Il 25 ottobre 1925 fu sottoposto al voto popolare il «decreto federale concernente la dimora e il domicilio degli stranieri» già adottato dall'Assemblea federale il 19 giugno 1925, il quale, col nuovo articolo 69 ter, attribuiva in sostanza alla Confederazione «il diritto di far leggi sull'entrata, l'uscita, la dimora e il domicilio degli stranieri».

Ampio consenso popolare

La riforma costituzionale fu ampiamente approvata dal Popolo (col 62,2% di sì) e dai Cantoni (solo tre Cantoni - Friburgo, Ticino e Vallese – e un Semicantone – Appenzello Interno votarono contro) per cui la Confederazione poteva ora elaborare quella che sarà per decenni la legge più importante relativa agli stranieri e consentirà di adottare tutte le misure che riguarderanno la stabilizzazione, l’integrazione e la naturalizzazione degli stranieri. 

Sui risultati ottenuti con le leggi, le ordinanze, le misure di accompagnamento e l’impegno profuso dalla Confederazione, dai Cantoni e da altre istituzioni pubbliche e private in questa complessa materia le opinioni sono divergenti, ma dovrebbe essere innegabile che tutto si è svolto sulla base di un ampio consenso popolare, nella legalità e nel rispetto della Costituzione federale democratica.

Purtroppo, invece, alcune opinioni, che tali dovrebbero restare, si trasformano in certe narrazioni di pseudo-storici dell'immigrazione italiana in Svizzera in giudizi severi in base a categorie non attuali al tempo di quei provvedimenti, ignorando totalmente non solo il contesto, ma anche la base giuridica democratica e costituzionale. Tanto è vero che di fronte alle restrizioni introdotte con la legge del 1931 (di cui si tratterà prossimamente) nemmeno l'Italia è intervenuta a difesa del Trattato del 1868, ma riconobbe tacitamente la legittimità dei nuovi provvedimenti restrittivi introdotti unilateralmente dalla Svizzera.

Giovanni Longu
Berna, 25.06.2025

18 giugno 2025

1925: Origine e sviluppo delle colonie libere italiane (2a parte)

Le Colonie Libere Italiane (CLI), fondate da esuli antifascisti avevano a cuore soprattutto le sorti dell’Italia, che pensavano di poter restituire alla democrazia una volta caduto il regime fascista. Non essendo una creazione degli immigrati per motivi di lavoro, almeno inizialmente le CLI non ebbero un interesse particolare per le tipiche problematiche immigratorie. Esso maturò solo dopo la creazione della Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera (FCLIS) nel 1943 e dopo la fine della guerra, quando apparve chiaro che l’immigrazione italiana era destinata a durare e aveva bisogno di sostegno (politico), di istruzione (per l’infanzia e per gli adulti), di cultura (ritrovi, giornali, biblioteche, conferenze), di formazione professionale e anche di un forte senso di appartenenza a un gruppo sociale consistente e talvolta persino determinante nell'economia e nella società svizzere.

Pretese eccessive e miopi

Come detto nell'articolo precedente, l’impegno politico sociale e culturale delle CLI per il miglioramento delle condizioni generali degli immigrati (italiani) in Svizzera e soprattutto per una maggiore presa di coscienza dei loro diritti è incontestabile e complessivamente virtuoso, ma in una retrospettiva seria e obiettiva non si può negare che il loro contributo sia stato meno incisivo di quanto alcuni ritengono. Di seguito vengono rievocati alcuni errori clamorosi delle CLI allo scopo di fornire qualche elemento in più per comprendere (meglio) la storia dell’immigrazione italiana in Svizzera ed evidenziare che su di essa hanno probabilmente influito negativamente anche l’atteggiamento talvolta intransigente e miope e alcune pretese eccessive (si pensi per esempio all'abolizione dello statuto stagionale o alla soluzione del problema dei «falsi stagionali») della FCLIS (ma non solo di essa).

Finita la guerra, la FCLIS, rivendicò subito per sé «la rappresentanza unitaria di tutti gli italiani dimoranti in Svizzera e rimasti fedeli alle grandi tradizioni di libertà e di umanità». Si trattava non solo di una rappresentanza morale (ispirata ai principi della libertà, della solidarietà e della difesa dei lavoratori), ma anche politica (caratterizzata da un forte spirito antifascista e, da quando il PCI guidò l’opposizione, anche antigovernativo), che sollevò però forti dubbi e contrasti persino all'interno della FCLIS, ma soprattutto presso altre organizzazioni di immigrati e persino in alcuni ambienti svizzeri.

Errori clamorosi

Un primo errore è stato commesso proprio nell'ambito dell’associazionismo. Infatti i successi conseguiti dopo il 1943 con un’ampia adesione di immigrati alle prime CLI ha fatto credere ad alcuni dirigenti che la neocostituita FCLIS fosse la vera e unica rappresentante di tutti gli italiani residenti in Svizzera. In effetti, il Terzo Convegno delle Colonie Libere della Svizzera, tenutosi a Berna nel marzo 1945, approvò all'unanimità la seguente risoluzione: «La Federazione delle C.L.I. della Svizzera […] rivendica anzitutto alle Colonie libere e alla loro Federazione […] il merito di aver preso un'iniziativa valsa a trarre l'emigrazione italiana in Svizzera dallo stato di disorientamento e di inerzia seguito agli avvenimenti del luglio e settembre del 1943 [e] riconferma per questa iniziativa e per l’autorità morale e politica che le Colonie Libere hanno saputo acquistarsi, la sua qualità di unica rappresentante dell’emigrazione italiana nella Svizzera».

Si trattò di una decisione che peserà moltissimo, negativamente, sull’evoluzione della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera. Infatti, invece di unire i vari enti ormai epurati dal fascismo, le CLI fomentarono spesso la disunione soprattutto nei confronti delle Missioni cattoliche italiane (MCI) e associazioni aderenti, che consideravano antagoniste, sebbene rappresentassero importanti centri d’incontro, gestissero numerose scuole e svolgessero altre importanti opere sociali.

Un secondo errore clamoroso è stato l’opposizione della FCLIS alle rappresentanze diplomatiche e consolari, come quando pretendeva l’epurazione perentoria dei (presunti) fascisti dalle organizzazioni e istituzioni ex-fasciste o che in qualche misura erano state compromesse col regime (Consolati, Società Dante Alighieri, Case d’Italia, Istituti di cultura, scuole, gruppi sportivi, ecc.). Quanto bastava per avere contro, oltre alle MCI, numerose istituzioni e creare molta diffidenza anche tra le rappresentanze diplomatiche e consolari italiane e nei sindacati svizzeri.

Si legge ad esempio nel verbale di una riunione del 1973 della «Commissione federale consultiva per il problema degli stranieri» che il Consigliere nazionale e presidente del sindacato FLMO Wüthrich si rammaricava che le Colonie Libere Italiane (CLI) fossero ancora così tanto ascoltate.

Si temeva, infatti, che alla base di queste operazioni non ci fosse solo il desiderio di far valere le ragioni dell’antifascismo o di apportare miglioramenti alle condizioni degli immigrati, ma anche l’obiettivo di gestire il malcontento e «iniziare alla pratica della libertà le collettività italiane uscenti da una specie di medioevo spirituale». Questo atteggiamento creò qualche timore anche in alcuni ambienti svizzeri, per i quali sembrava che l’obiettivo vero fosse quello di creare disordine e far penetrare in Svizzera l’ideologia comunista attraverso la propaganda sovversiva.

Nei confronti delle autorità italiane alcune rivendicazioni dovevano apparire palesemente eccessive, come quando su alcune questioni le CLI preferivano investire direttamente Roma, attraverso i partiti di riferimento (PCI e PSI) o i sindacati di riferimento (CGIL e UIL), senza rendersi conto che scavalcando le autorità diplomatiche e consolari finivano per indebolirle agli occhi degli svizzeri e potevano creare screzi importanti nei tradizionali buoni rapporti italo-svizzeri, come nel caso di vistose intromissioni in questioni di politica interna svizzera da parte di certi ministri, sottosegretari e ambasciatori.

Grave è stato anche l’errore, nell'ambito di rivendicazioni lavorative, di fare esplicitamente più affidamento sui sindacati e patronati italiani che sui sindacati svizzeri, che non gradivano per nulla di essere messi in competizione e talvolta opposizione con le organizzazioni sindacali italiane. In questo contesto, una conseguenza negativa, di cui poco si sa e meno si parla, fu il diverso atteggiamento dei principali sindacati svizzeri nei confronti delle varie istituzioni di formazione professionale italiane, che non riuscirono mai a concepire programmi formativi comuni e ancor meno a gestire in comune strutture, finanziamenti, retribuzioni, formazione del personale, ecc.

Un terzo errore, gravissimo, perché divise profondamente la collettività immigrata, fu proprio quello di aver diviso, sebbene per lo più involontariamente e in contraddizione col desiderio diffuso di unità (che portò nel 1970 alla fondazione del Comitato Nazionale d’Intesa CNI), le associazioni degli immigrati, riproducendo anche in un ambiente tradizionalmente apolitico la lotta tra i partiti che si accese nel dopoguerra in Italia. Le CLI non fecero abbastanza per risolvere le divergenze, anzi si schierarono prevalentemente da una parte, lasciando che i sospetti di filocomunismo gravassero sull'insieme della collettività italiana immigrata.

In altri ambiti, e specialmente in quelli della cultura, della scuola, del tempo libero, del dibattito pubblico, della formazione politica, della fedeltà all'antifascismo, ecc. le CLI sono state indubbiamente molto più efficienti, per cui resta difficile se non impossibile stilare un bilancio obiettivo complessivo, tanto più che alcune CLI sono ancora in piena attività. Semmai starà al lettore fare la sintesi che ritiene più giusta.

Giovanni Longu
Berna, 18.06.2025

10 giugno 2025

1925: Origine e sviluppo delle Colonie Libere Italiane (1a parte)

Le Colonie Libere Italiane (CLI) meritano di essere ricordate in questa serie di anniversari significativi perché hanno inciso profondamente sullo sviluppo dell’immigrazione italiana in Svizzera, sebbene agli inizi (1925) non fossero né una sua emanazione diretta né funzionali alla sua evoluzione. Le prime CLI nacquero infatti in ambienti di esuli antifascisti intenzionati a riportare in Italia la democrazia e la libertà, una volta abbattuto il regime fascista. Solo in seguito, dopo la fondazione nel 1943 della Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera (FCLIS), cominciarono ad occuparsi anche della situazione migratoria e della sua trasformazione. Il loro contributo al miglioramento delle condizioni degli immigrati (italiani) fu intenso, ma meno incisivo e risolutivo di quanto alcuni ritengono. Pesarono negativamente sull'efficacia delle loro iniziative specialmente l’atteggiamento iniziale di una loro presunta superiorità sulle altre organizzazioni e la loro connotazione, ampiamente percepita, di movimento politico-sociale filocomunista. Se da una parte le CLI hanno contribuito alla crescita tra gli immigrati italiani di una maggiore consapevolezza culturale e politica, dall'altra ne hanno forse rallentato la coesione e, soprattutto, ritardato l’integrazione.

Perché colonie «libere»?
Per le prime CLI (anche se fino al 1943 non si chiamavano «Colonie libere italiane») costituitesi a Ginevra (1925), a Zurigo (dal 1930) e dopo il 1943 anche in altre città svizzere, «libere» significava «antifasciste», una connotazione distintiva nei confronti delle organizzazioni che avevano aderito al regime o ne avevano a vario titolo accettato il controllo. Le prime due colonie (di Ginevra e di Zurigo) illustrano bene questa caratteristica. 

La CLI di Ginevra, anzitutto, considerata da numerosi studiosi la prima nata, nel 1925 (anche se agli inizi non aveva tale denominazione, trattandosi in effetti della Società Dante Alighieri, già esistente dal 1894) divenne «libera» quando rifiutò di partecipare a una manifestazione organizzata dal Fascio locale, lasciando intendere che non riconosceva l’egemonia fascista. Questo rifiuto provocò non solo lo smembramento della Dante e la perdita dei contributi pubblici per la parte separatista, ma anche il cambio della sede e, dal 1928, pure del nome, divenuto «Associazione Dante Alighieri».

Altra importante conseguenza fu la perdita del sostegno alle «Scuole italiane di Ginevra», frequentate da centinaia di allievi e sostenute dalla Dante Alighieri, perché rifiutarono di sottomettersi al regime. Riuscirono tuttavia a sopravvivere, sia l’Associazione che le Scuole, grazie all'impegno e al prestigio di due grandi antifascisti, Egidio Reale a capo dell’Associazione e Giuseppe Chiostergi alla direzione delle Scuole. Entrambi preferirono la libertà per sé e per le istituzioni che dirigevano.

A Zurigo la situazione ebbe un’evoluzione analoga o forse un tantino più facile perché da decenni c’era già una concentrazione di socialisti attorno al centro storico del «Cooperativo» (cfr. https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2025/04/1915-conferenza-di-zimmerwald-5-891915.html). Il rifiuto dell’assoggettamento al fascismo si accentuò tuttavia nel 1927 quando fu creata una combattiva associazione di antifascisti denominata «La Mansarda», come punto di riferimento per tutte le associazioni che non intendevano sottostare al regime fascista. Nel 1930, per sottolineare l’opposizione al fascismo la Mansarda venne ribattezzata «Colonia libera italiana» e da allora Zurigo divenne uno dei principali centri dell’antifascismo all'estero.

Analogamente a quel che succedeva a Ginevra, anche a Zurigo la Mansarda creerà una «Scuola Libera» per i figli degli emigrati italiani, in opposizione al tentativo di penetrazione fascista attraverso la scuola oltre che tramite il Fascio e la Casa d’Italia locali.

Evoluzione delle CLI

Con la costituzione della Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera (FCLIS) nel corso di una riunione storica ad Olten (21 novembre 1943), le prime dieci Colonie Libere Italiane già costituite o in via di costituzione decisero di migliorare i contatti, coordinare le attività, adottare una linea comune nei confronti delle istituzioni fasciste e neofasciste presenti in Svizzera, sensibilizzare il maggior numero possibile di lavoratori emigrati ai valori democratici che avevano guidato la Resistenza, darsi un’organizzazione centrale, uno statuto e finalità comuni.

La nascita della FCLIS, che avrà come sede provvisoria Ginevra e poi, definitiva, Zurigo, fu salutata con grande interesse non solo dagli ambienti antifascisti, ma anche, secondo il resoconto fattone dal quotidiano socialista ticinese Libera Stampa, da «scuole, società ricreative, mutue, cooperative, gruppi sindacali, ecc.». In breve tempo, alle prime dieci Colonie se ne aggiunsero altre quindici, che giustificarono ben tre convegni federali, due a Zurigo (1944) e uno a Berna (1945), e un Congresso a Lugano (1945).

Per l’immigrazione italiana in Svizzera sembrava l’inizio di una nuova era, anche perché a quell'incontro avevano partecipato numerose personalità molto in vista dell’antifascismo e ben preparate politicamente e culturalmente come Giuseppe Chiostergi, Egidio Reale, Fernando Schiavetti, Giuseppe de Logu, Manlio Sancisi, Mario Mascarin e altri. Il loro impegno fu all'inizio contagioso e si riverberò nella costituzione di numerose CLI in tutta la Svizzera. Ma la loro evoluzione non sempre corrispose alle aspettative dei fondatori e ai reali bisogni degli immigrati. (Segue).

Giovanni Longu
Berna 10.6.2025

03 giugno 2025

1925: Conferenza di Locarno tra realtà e illusione

La cittadina di Locarno, in Svizzera, sul Lago Maggiore, gode di un microclima particolare che la rende una meta turistica di prim'ordine a livello nazionale e internazionale. Oggi, la sua notorietà è legata soprattutto al Festival internazionale del cinema di Locarno, la più importante manifestazione cinematografica svizzera e una fra le più importanti d’Europa, Locarno era già molto rinomata agli inizi del secolo scorso, quando fu scelta come sede di una conferenza di pace. Si trattava in particolare di garantire il confine renano tra la Francia, il Belgio e la Germania, stabilito dal Trattato di pace di Versailles dopo la prima guerra mondiale (1914-1918). La Conferenza di Locarno di cent’anni fa viene qui rievocata perché rappresentò per l’Europa una grande speranza, trasformatasi pochi anni più tardi in una cocente delusione, da cui non sembrava potersi facilmente riavere.

Dal Trattato di Versailles alla Conferenza di Locarno

Foto-ricordo della Conferenza di Locarno
Col Trattato di Versailles, firmato il 28 giugno 1919 da 44 Stati, i vincitori della guerra decisero di far pagare cara ai tedeschi l’immane tragedia che avevano provocato ai popoli europei. Esso infatti obbligava la Germania a cedere territori al Belgio, alla Cecoslovacchia e alla Polonia, imponeva ingenti riparazioni di guerra, lo smantellamento dell'impero coloniale tedesco, la demilitarizzazione della Renania, la riduzione massiccia dell’esercito, della marina e dell’aviazione, il divieto di aggressione e l’obbligo di ricorrere all'arbitrato pacifico in caso di controversie. Si sapeva però che il punto più fragile sarebbe stato il confine del Reno tra Francia, Belgio e Germania, per cui su di esso si concentrarono le preoccupazioni maggiori dei partecipanti alla Conferenza di pace di Locarno, che si tenne dal 5 al 16 ottobre 1925.

Finalizzata a preservare gli Stati europei dal flagello della guerra, regolare pacificamente eventuali controversie e garantire soprattutto il confine renano, tra i delegati dei vari Paesi interessati (Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Cecoslovacchia e Polonia) sembrò regnare fin dall'inizio uno spirito positivo (l’«ésprit de Locarno») e un certo ottimismo. Alla conclusione dei lavori, con la firma di un Patto di garanzia per la frontiera del Reno e quattro trattati di arbitrato, tutti sembravano ritenere che la «pace del Reno» avrebbe garantito «la pace d’Europa» e tutti speravano di ripristinare in Europa una pace stabile. Persino la Germania, che aveva subito il diktat più pesante, era ottimista: accettava il nuovo confine renano, garantito da Gran Bretagna e Italia (potenze garanti), e s’impegnava con la Polonia e la Cecoslovacchia a regolare secondo il diritto internazionale le eventuali divergenze.

L’ottimismo dei delegati pareva giustificato perché tra loro regnava effettivamente un’atmosfera distesa, positiva e produttiva e tutti speravano che con la Conferenza di Locarno si aprisse in Europa «un’era di efficiente pacificazione» e «un periodo nuovo, fondato sul principio dell’uguaglianza dei vinti con i vincitori e sul funzionamento dei patti d’arbitrato sotto l’egida della Società delle Nazioni», che era stata appositamente creata col Trattato di Versailles, con sede a Ginevra.

La Conferenza sembrava segnare in effetti una pietra miliare nella storia della pace e della civiltà umana perché forse per la prima volta al rappresentante di un Paese vinto e schiacciato, il ministro degli esteri tedesco Gustav Stresemann (1878-1929), fu concesso di partecipare attivamente ai lavori della conferenza alla pari degli altri rappresentanti. Alla conclusione della Conferenza, riconoscente, dichiarava non solo di «accettare» di firmare i trattati «in piena lealtà», ma aggiungeva che «con sincera gioia» la Germania si augurava una pace stabile e il riavvicinamento dei popoli e dei governi, nella convinzione che «solo la pace e la collaborazione possono assicurare l’avvenire e lo sviluppo dei popoli».

Da sin.: G. StresemannA. Chamberlain e A. A. Briand
Alle parole di Stresemann si associarono il delegato francese Aristide Briand (1862-1932) e quello britannico Austen Chamberlain (1861-1937), sottolineando l’importanza per la pace della «cooperazione dei popoli europei», nella convinzione che si dovesse «lavorare in comune in tutti i campi per la realizzazione di un’Europa pacifica, fedele a tutto ciò che rappresenta il suo passato di civiltà e di nobiltà». Anche Benito Mussolini (1883-1945) non esitò a considerare la Conferenza «un avvenimento memorabile, destinato ad affratellare i popoli».

Dall'ottimismo alla cocente delusione

L’azione seria e fiduciosa di Stresemann, Briand e Chamberlain e specialmente l’impegno di Stresemann per la riconciliazione tra i popoli europei e per l’ingresso della Germania nella Società delle Nazioni furono giustamente premiati con l’assegnazione ai tre politici del Premio Nobel per la Pace. Si deve anche riconoscere che nel 1926, con l’entrata in vigore del Patto di Locarno e l’ingresso della Germania nella Società delle Nazioni, cominciò in Europa un intenso periodo di distensione e collaborazione. Lo spirito di Locarno sembrava aleggiare tra le nazioni e niente lasciava presagire l’immane tragedia che le avrebbe colpite nuovamente.

«Quasi tutta l’Europa – ha scritto Sergio Romano – tirò un sospiro di sollievo ed ebbe la sensazione che cominciasse finalmente nella storia del mondo, undici anni dopo lo scoppio della Grande guerra, un capitolo nuovo». Illusione! 

Dieci anni più tardi, però, apparve chiaramente a tutti che lo spirito di Locarno si era dileguato. Lo dimostrava Hitler, da poco al potere in Germania, che il 7 marzo 1936 denunciò gli Accordi sottoscritti ritenendoli una prosecuzione della politica di Versailles e occupò militarmente la Renania; ma lo dimostrò anche Mussolini, che sognava anch'egli l’impero e le colonie. E da allora fu solo una lunga e intensa preparazione della seconda guerra mondiale, la più grave catastrofe dell’umanità.

In realtà, che Mussolini si attendesse altro dalla Conferenza di Locarno non tardò a farlo capire egli stesso. Sperava infatti che la garanzia limitata al confine renano venisse estesa alla frontiera italiana del Brennero, preoccupato di poter avere prima o poi una frontiera comune con la Germania qualora questa avesse deciso di assorbire l’Austria. Ma gli altri partecipanti alla Conferenza non erano d'accordo e glielo fecero capire fin dal suo arrivo a Locarno. 

Infatti, arrivato in motoscafo da Stresa, non ebbe l’accoglienza che forse si aspettava nemmeno da parte della stampa internazionale e della popolazione, sia per il comportamento arrogante delle camicie nere che lo accompagnavano e sia perché in Ticino erano note le violenze squadriste dei suoi fanatici seguaci. Da parte loro, anche i rappresentanti degli Stati si mostrarono nei suoi confronti del tutto indifferenti (ad eccezione del britannico Chamberlain) se non addirittura sprezzanti. Non godeva evidentemente già allora di una buona reputazione. 

Lo «spirito di Locarno» è ancora vivo

Del resto, anche il Consiglio federale rispose tiepidamente al messaggio che il Duce gli aveva inviato prima di metter piede in Svizzera. Rispose, infatti, che «il Consiglio federale Le è gratissimo dell’amichevole saluto rivoltogli e nel mentre Le dà il più cordiale benvenuto sul territorio svizzero, è lieto di constatare che la di Lei presenza a Locarno testifichi in modo così manifesto che la Conferenza Internazionale sta per mettere il proprio sigillo alla grande opera di pace per la quale è stata convocata». Da allora Mussolini non metterà più piede in Svizzera, anche se vi sperò fuggendo precipitosamente da Milano nel 1945.

Lo spirito di Locarno tuttavia non morì, anzi riprenderà vita, sotto nuove forme e incarnato in nuovi personaggi. Subito dopo la seconda guerra mondiale  ricominciò ad aleggiare e prendere forma nella nuova Europa che anche se non ben definita comincia a intravedersi.
Giovanni Longu
Berna, 3 giugno 2025