18 dicembre 2024

41. L’Europa di papa Francesco (seconda parte)

Papa Francesco non è un sognatore, ma una persona con grande senso della realtà, molto sensibile al dolore, alle preoccupazioni e alle paure della gente, ma anche un uomo di fede e di speranza. La sua grande stima della dignità della persona e la sua provata empatia con l’umanità che soffre ed è spesso costretta a fuggire in cerca di salvezza lo spingono a condannare senza mezzi termini lo sfruttamento sconsiderato delle risorse del pianeta per avidità di profitto e desiderio di possesso, ma soprattutto l’insensatezza delle guerre. Ha cercato di far capire in tutti i modi che la guerra, qualsiasi guerra, è inutile, ignobile, disumana, il trionfo della menzogna e dell'interesse, «un crimine contro l'umanità». Per questo invita in continuazione a pregare per la pace, «la martoriata Ucraina», «la Palestina, Israele, il Libano, il Myanmar, il Sud Sudan, e per tutti i popoli che soffrono per le guerre», ma sollecita anche «quanti hanno responsabilità politiche perché facciano un serio esame di coscienza davanti a Dio, che è Dio della pace e non della guerra», denuncia quanti lucrano con gli armamenti, ricorda che la guerra non è una via per la pace ma un’illusione: «la guerra non porterà mai pace, non porterà mai la sicurezza, è una sconfitta per tutti».

Guerra e pace in Europa

Papa Francesco si rende ben conto che i suoi appelli restano per lo più inascoltati da coloro che potrebbero fermare la guerra e avviare i negoziati di pace, ma non si arrende, non cessa di fare appello alle coscienze sperando che si ascoltino almeno la voce della ragione e il grido delle vittime delle guerre. Resta pertanto incomprensibile che soprattutto coloro che hanno il dovere morale e politico del buon governo e delle buone relazioni internazionali non si rendano conto che con la guerra si mette a repentaglio la pacifica convivenza dei popoli.

Del resto, tutti gli Stati moderni che fanno parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) si sono impegnati dalla fine della seconda guerra mondiale «a praticare la tolleranza e a vivere in pace l’uno con l’altro in rapporti di buon vicinato, […], ad assicurare che la forza delle armi non sarà usata [per risolvere controversie che potrebbero portare ad una violazione della pace], a impiegare strumenti internazionali per promuovere il progresso economico e sociale di tutti i popoli».

Ancora, tutti i membri dell’ONU hanno dichiarato di impegnarsi «a salvare le future generazioni dal flagello della guerra […], a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole, a creare le condizioni in cui la giustizia ed il rispetto degli obblighi derivanti dai trattati e dalle altre fonti del diritto internazionale possano essere mantenuti, a promuovere il progresso sociale ed un più elevato tenore di vita in una più ampia libertà».

Incoerenza di molti Stati

Molti Stati sembrano aver dimenticato tali impegni internazionali o non credono più nella forza e nell'efficacia del rispetto dei diritti fondamentali, dello sviluppo comune, della collaborazione, della riduzione fino all'abbandono definitivo della rincora agli armamenti più micidiali. Troppi Stati preferiscono ancora ricorrere alla guerra per risolvere conflitti risolvibili pacificamente, come se ci fossero istituzioni abilitate a disporre a piacimento della vita di intere generazioni, senza scrupoli per mandare a morire centinaia, migliaia e forse centinaia di migliaia di giovani per la conquista o la difesa di un pezzo di terra. 

Inutilmente, purtroppo, papa Francesco ci ricorda nell'enciclica Laudato si' che in definitiva «del Signore è la terra» (Sal 24,1), a Lui appartiene «la terra e quanto essa contiene» (Dt 10,14). Perciò Dio nega ogni pretesa di proprietà assoluta: «Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti» (Lv 25,23).

Facile osservare la palese incoerenza di chi ancora sostiene la guerra come strumento per raggiungere la pace (in pratica difendere terre e confini) e altrettanto facile costatare la fede incrollabile di papa Francesco persino in una soluzione condivisa del conflitto russo-ucraino. Evidentemente papa Francesco oltre che una grande fede in un Dio misericordioso ha anche una grande fede nella possibilità delle persone e dei popoli di riconciliarsi, di rimettersi in cammino anche dopo cadute fragorose, di «sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-decisione dei popoli».

«Europa, ritrova te stessa!»

Due grandi papi: Giovanni Paolo II e Francesco
Per questo, in una lettera del 22 ottobre 2020 al cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin in occasione del 40° anniversario della Commissione degli Episcopati dell'Unione Europea (COMECE), del 50° anniversario delle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e l'Unione Europea e del 50° anniversario della presenza della Santa Sede come Osservatore Permanente al Consiglio d'Europa fece proprie le parole di Giovanni Paolo II pronunciate a Compostela: «Europa «ritrova te stessa, sii te stessa» aggiungendo: «In un tempo di cambiamenti repentini c’è il rischio di perdere la propria identità, specialmente quando vengono a mancare valori condivisi sui quali fondare la società. All’Europa allora vorrei dire: tu, che sei stata nei secoli fucina di ideali e ora sembri perdere il tuo slancio, non fermarti a guardare al tuo passato come ad un album dei ricordi […]. Presto o tardi ci si accorge che i contorni del proprio volto sfumano, ci si ritrova stanchi e affaticati nel vivere il tempo presente e con poca speranza nel guardare al futuro. Senza slancio ideale ci si riscopre poi fragili e divisi e più inclini a dare sfogo al lamento e lasciarsi attrarre da chi fa del lamento e della divisione uno stile di vita personale, sociale e politico».

Papa Francesco non è pessimista, è anzi convinto che l’Europa abbia ancora molto da offrire al mondo e all’umanità, secondo la visione che dell’Unione europea avevano i fondatori Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi. E’ auspicabile che tale convinzione e tale visione siano condivise non solo dalle Istituzioni europee, ma dalla maggioranza dei cittadini e dei popoli europei di oggi e di domani.

Giovanni Longu
Berna, 18.12.2024

11 dicembre 2024

40. L'Europa di papa Francesco (prima parte)

Papa Francesco, venuto dall'altro capo del mondo, ama l’Europa non solo come la terra delle sue origini, ma anche come un continente ricco di esperienza e di umanità, che ha contribuito non poco ad espandere le scienze e la civiltà e che può ancora dare molto aprendosi maggiormente agli altri. Assumendo il nome di Francesco in onore di san Francesco d’Assisi, il cardinale Jorge Mario Bergoglio (argentino, figlio di emigrati italiani) ha voluto evidenziare fin dalla sua elezione la sua predilezione per una Chiesa povera com'era alle origini, ma anche per un mondo migliore, più giusto e pacifico. Anch'egli, come il poverello di Assisi, uomo di pace, vorrebbe un mondo senza guerre, dove sia possibile vivere senza dover scappare, dove la fratellanza sia non solo possibile ma reale, in un clima di amore universale, dove nessuno deve sentirsi scartato. Papa Francesco ritiene possibile eliminare la guerra e la povertà estrema con la solidarietà e il rispetto dei diritti fondamentali di ogni persona.

Interesse di papa Francesco per l’Europa

Papa Bergoglio/Francesco si muove nella scia dei predecessori. Ne ha raccolto e sviluppato le visioni, gli appelli, i timori. Li cita spesso nei suoi discorsi e nelle sue encicliche come guide che hanno indicato la direzione da seguire. Del resto, come potrebbe papa Francesco non tener conto dell’osservazione di Giovanni Paolo II sull'Europa (1988): «Come potrebbe la Chiesa disinteressarsi della costruzione dell’Europa, lei che è radicata da secoli nei popoli che la compongono e che ha condotto un giorno al fonte battesimale popoli per i quali la fede cristiana è e rimane uno degli elementi della loro identità culturale?».

Papa Francesco conosce bene la storia bimillenaria che lega l’Europa e il cristianesimo, «una storia non priva di conflitti e di errori, anche di peccati, ma sempre animata dal desiderio di costruire per il bene. Lo vediamo nella bellezza delle nostre città e più ancora in quella delle molteplici opere di carità e di edificazione umana comune che costellano il continente. Questa storia, in gran parte, è ancora da scrivere. Essa è il nostro presente e anche il nostro futuro. Essa è la nostra identità. E l’Europa ha fortemente bisogno di riscoprire il suo volto per crescere, secondo lo spirito dei suoi Padri fondatori, nella pace e nella concordia, poiché essa stessa non è ancora esente dai conflitti».

Parlando dei «Padri fondatori», ossia di Schuman, De Gasperi, Adenauer, papa Francesco sembra commuoversi, certo li ammira come «araldi della pace e profeti dell’avvenire», che «sognavano alla grande!» ed erano animati da un grande progetto politico, quello di promuovere «uno sviluppo fondato sulla pace, sulla fraternità e sulla solidarietà».

Un papa sognatore?

Talvolta, quando parla dell’Europa, papa Francesco potrebbe sembrare un sognatore perché, pur ritenendola «debole», la considera «tuttavia necessaria» e, grazie all'immenso patrimonio culturale, umano, tecnico, storico che ha alle spalle, «unica nel contesto dell'umanità». Inoltre ritiene ancora possibile una sua trasformazione da continente bloccato dalla paura in continente aperto agli altri, all'amore universale.

Del resto egli stesso sembra incoraggiare questa visione ottimistica dell’Europa quando dice, per esempio, «sogno un’Europa, cuore d’Occidente, che metta a frutto il suo ingegno per spegnere focolai di guerra e accendere luci di speranza, […] che sappia ritrovare il suo animo giovane, sognando la grandezza dell’insieme e andando oltre i bisogni dell’immediato, […] che includa popoli e persone con la loro propria cultura, senza rincorrere teorie e colonizzazioni ideologiche…».

In quest’ottica potrebbe essere letto anche il suo celebre discorso in occasione del conferimento del Premio Internazionale Carlo Magno 2016 a Papa Francesco, specialmente la parte finale: «sogno un nuovo umanesimo europeo, un costante cammino di umanizzazione, cui servono memoria, coraggio, sana e umana utopia. Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre: una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranze di vita. Sogno un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo. Sogno un’Europa che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto. Sogno un’Europa, in cui essere migrante non è delitto, bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile. Sogno un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull'aumento dei beni. Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia».

Ma papa Francesco è davvero un sognatore? (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 11.12.2024

04 dicembre 2024

39. L’Europa di Benedetto XVI (5a parte)

Ratzinger/Benedetto XVI, almeno in alcuni periodi della sua vita, è stato ottimista sul futuro dell’Europa, ritenuta un continente (dall'Atlantico agli Urali) caratterizzato da una storia, una cultura, una religiosità particolari. Sul finire degli anni Ottanta, l’ottimismo si basava sui alcuni segnali promettenti (ampliamento dell’Unione europea, crescente distensione tra Est e Ovest, caduta del muro di Berlino, successi del sindacato cattolico Solidarność in Polonia, incontro in Vaticano tra Giovanni Paolo II e il capo del Soviet Supremo dell’URSS Michail Gorbaciov, ecc.). Anche il cardinale Joseph Ratzinger, attento osservatore degli eventi interni ed esterni alla Chiesa era fiducioso sul futuro dell’Europa.

L’ottimismo di Benedetto XVI

Si sa che a quei segnali di apertura e di distensione non seguirono sempre i fatti sperati, tant'è vero che, qualche anno dopo, Ratzinger (1927-2022) parlò di «crepuscolo» dell’idea europea. Divenuto papa nel 2005, tuttavia, come credeva nel fondamento solido e inscalfibile della Chiesa fondata da Gesù Cristo, così era convinto che anche l’Europa, dotata di solide fondamenta, avrebbe superato le difficoltà presenti.

Benedetto XVI sapeva che oltre alla radice cristiana (Chiesa, monachesimo, lotta all'islam radicale, conversione dei popoli slavi, ecc.) l’Europa aveva attinto a piene mani dall'ebraismo, dal mondo classico greco-romano e persino dalla cultura islamica, elaborando una propria cultura positiva, fondata sul diritto naturale, sul rispetto dei diritti fondamentali della persona, sulla capacità di gettare ponti, sulla solidarietà, sulla ricerca scientifica, sull'arte, sulla bellezza, sul dialogo con le altre culture, ecc. Con questa eredità, in gran parte cristiana, l’Europa avrebbe superato le difficoltà presenti e future. Questa era almeno la speranza.

Del resto, con gli occhi dello storico esigente e dell’osservatore attento, Benedetto XVI vedeva che più volte l’Europa era caduta e si era sempre risollevata, che nemmeno ideologie illusorie e la follia distruttrice della seconda guerra mondiale l’avevano stroncata, anzi avevano incoraggiato lo sprigionarsi di quella «forza morale positiva» che portò nel dopoguerra alla riconciliazione tra popoli prima nemici e l’avvio di un processo d’integrazione tendente a rendere possibile «un mondo più aperto e più grande per l'individuo» e una «prosperità economica» comune.

Pericoli e soluzioni

Benedetto XVI non poteva, dunque, essere pessimista sul futuro dell’Europa, ma non ha mai esitato a denunciarne anche i rischi, che egli vedeva specialmente nel degrado morale, nel dilagare della secolarizzazione, nell'esclusione di Dio dall'orizzonte dell’uomo e della storia, nella riduzione dell’uomo a «capitale umano», «risorsa», «parte di un ingranaggio produttivo e finanziario che lo sovrasta», nel relativismo che indebolisce il discernimento tra bene e male, vero e falso, giusto e ingiusto, nel nazionalismo (anche religioso) che invece di valorizzare le differenze in grado di dar vita a una «grande sinfonia di culture» tende a far vedere negli altri popoli, negli altri Stati e nelle altre religioni degli antagonisti e persino nemici, invece che cooperatori per il bene comune, ecc.


Non so cosa pensasse il papa emerito sulla guerra in atto tra Russia e Ucraina, ma certamente condivideva la posizione del suo predecessore Benedetto XV e quella attuale di papa Francesco sull'«inutile strage». Si sa anche che pochi giorni dopo lo scoppio del conflitto, che avrebbe provocato e continua a provocare morti e distruzioni, scrisse all'arcivescovo di Kiev, assicurandogli le sue preghiere perché il Signore «vinca l’accecamento che ha condotto a simili misfatti». Forse ha anche pensato che la guerra avrebbe potuto essere evitata se non si fosse dato seguito ciecamente alle tendenze nazionaliste presenti in entrambi i Paesi e si fosse tenuto fede agli impegni internazionali sottoscritti.

Sarebbe bastato prendere sul serio anche solo due paragrafi dell’articolo 1 dello Statuto delle Nazioni Unite: «2. Sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell'eguaglianza dei diritti e dell'autodecisione dei popoli, e prendere altre misure atte a rafforzare la pace universale; 3. Conseguire la cooperazione internazionale nella soluzione dei problemi internazionali di carattere economico, sociale culturale od umanitario, e nel promuovere ed incoraggiare il rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzione di razza, di sesso, di lingua o di religione». Purtroppo nei media si parla soprattutto dei diritti degli Stati e molto meno dei diritti delle persone e dei popoli. Lo Statuto dell'ONU contempla a giusta ragione gli uni e gli altri. Se entrambi venissero rispettati e applicati non ci sarebbero più guerre, perché tutti gli sforzi sarebbero orientati alla prosperità comune.

Nello spirito del messaggio di Benedetto XVI non si può dire che ormai è troppo tardi, ma occorre prendere coscienza subito che il tempo della «guerra giusta» è finito, che «la guerra è la peggiore soluzione per tutti, non porta nulla di buono per nessuno, neppure per gli apparenti vincitori», che «alla corsa agli armamenti si deve sostituire uno sforzo comune per mobilitare le risorse verso obiettivi di sviluppo morale, culturale ed economico, ridefinendo le priorità e le scale di valori».

Giovanni Longu
Berna, 4.12.2024

20 novembre 2024

38. L’Europa di Benedetto XVI (4a parte)

Joseph Ratzinger/Benedetto XVI, da cardinale e da papa, è sempre stato molto prudente nelle conclusioni pratiche delle sue riflessioni, soprattutto quando sapeva che avrebbero potuto suscitare difficoltà di comprensione e di accettazione. Questa prudenza era evidente nelle analisi storiche (per esempio sui rapporti tra Cristianesimo e Islam), ma anche quando trattava questioni fondamentali come i rapporti tra fede e ragione, il «diritto naturale», la sacralità della vita, i principi di sussidiarietà e solidarietà, l’identità europea, ecc. Probabilmente preferiva che fossero i lettori e gli ascoltatori a trarre le conclusioni, ma talvolta ha fatto eccezione, tenendo comunque sempre ben distinti gli aspetti teologici e le considerazioni di carattere storico, filosofico o di semplice buon senso. Questa non è comunque l’unica premessa che occorre fare per cercare di comprendere la sua visione dell’Europa.

Centralità dell’uomo, immagine di Dio

Anzitutto va ricordato che l’interesse e l’amore di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI per l’Europa non era dovuto solo al fatto di essere e di sentirsi europeo, ma anche alla considerazione dei meriti e delle responsabilità speciali dell’Europa nella diffusione e nella difesa del Cristianesimo e della civiltà. Ne parlò con molta chiarezza decine di volte in omelie, conferenze, interviste, scritti vari. L’amore per l’Europa non gli impediva tuttavia di denunciarne i pericoli e i mali che l’affliggevano o incombenti.

Va anche ricordata la sua ferma convinzione che la Chiesa non intende intromettersi nella politica degli Stati, perché «la Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire», ma non può nemmeno derogare dalla sua «missione di verità» da compiere in ogni tempo ed evenienza per il bene dell’uomo e della sua dignità. E poiché la fedeltà all'uomo, creato a immagine di Dio, esige la fedeltà alla verità, garanzia di libertà e della possibilità di uno sviluppo umano integrale, Benedetto XVI ha dato di sé stesso la qualifica di «collaboratore della verità». Per lui, naturalmente, la Verità era soprattutto quella «rivelata», anzi il Dio vivente in Gesù Cristo, ma anche quella terrena dettata dalla «retta coscienza».

Un’altra premessa importante è la convinzione di Ratzinger/Benedetto XVI che anche i non cristiani hanno un dovere di verità e di giustizia in forza del diritto naturale (cfr. articolo precedente) a cui tutti devono attenersi, perché è giusto ciò che a ciascuno è «dovuto» non in forza di una religione, ma del «diritto naturale», «il solo valido baluardo contro l’arbitrio del potere o gli inganni della manipolazione ideologica». E poiché è un diritto naturale anche la libertà religiosa, per Benedetto XVI, sarebbe un grave errore che Dio, la religione, non trovassero un posto anche nella sfera pubblica.

Del resto anche le grandi Dichiarazioni dei diritti dell’uomo fanno riferimento al diritto naturale quando affermano che «tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza» (Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite del 1948, art. 1) e che «ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione…» (art. 2).

Benedetto XVI e l’Europa

Ancor più esplicito è stato l’Atto finale della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa ((OSCE) del 1975 nell'affermare che «gli Stati partecipanti rispettano i diritti dell'uomo e le libertà fondamentali inclusa la libertà di pensiero, coscienza, religione o credo, per tutti senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione. Essi promuovono e incoraggiano l'esercizio effettivo delle libertà e dei diritti civili, politici, economici, sociali, culturali ed altri che derivano tutti dalla dignità inerente alla persona umana e sono essenziali al suo libero e pieno sviluppo. In questo contesto gli Stati partecipanti riconoscono e rispettano la libertà dell'individuo di professare e praticare, solo o in comune con altri, una religione o un credo agendo secondo i dettami della propria coscienza» (VII).

Già da queste premesse è possibile intuire quel che Ratzinger/Benedetto XVI intendesse per «Europa», non tanto come entità geografica (dall'Atlantico agli Urali), ma come «identità storica e culturale». Per lui non era tanto il continente che «ha anche oggi nel mondo un grande peso sia economico, sia culturale e intellettuale», quanto piuttosto la forza morale positiva che l’Europa ha cercato di trasmettere nel dopoguerra e che ora (ormai da alcuni decenni) sembrava affievolirsi. (Segue).

Giovanni Longu
Berna, 20.11.2024 

13 novembre 2024

37. L'Europa di Benedetto XVI (3a parte)

Benedetto XVI conosceva l’Europa non solo nei suoi tratti evidenti, ma anche tra le pieghe, perché conoscendo la storia della Chiesa non poteva non conoscere le sue connessioni con la storia civile europea, dai tempi dell’Impero romano alla stretta attualità. Conosceva sicuramente il lamento di un suo lontano predecessore, Gregorio Magno (590-604), quando faceva presente all’imperatore bizantino che l’Europa era «sottomessa al diritto dei barbari»; ma non ignorava come l’Europa era poi divenuta cristiana, in Occidente come in Oriente. Soprattutto negli ultimi anni del suo pontificato era preoccupato che l’Europa potesse perdere la sua anima dopo i tentativi di riportarla a nuova vita da parte dei suoi predecessori e del benemerito trio Adenauer-Schuman-De Gasperi.

L’interesse di Benedetto XVI per l’Europa

L’interesse di Joseph Ratzinger per l’Europa non era solo religioso, ma anche esistenziale. Da papa non voleva restare indifferente al tramonto di un continente che aveva dato tanto al mondo intero, soprattutto nei campi della cultura, dell’arte, del diritto, della scienza, della bellezza. Era convinto che quando l’Europa si fosse messa in ascolto della storia del cristianesimo avrebbe ascoltato la sua stessa storia, perché «le sue nozioni di giustizia, libertà e responsabilità sociale, assieme alle istituzioni culturali e giuridiche stabilite per difendere queste idee e trasmetterle alle generazioni future, sono plasmate dalla sua eredità cristiana».

A Benedetto XVI stavano a cuore l’unità e il futuro dell’Europa, benché si rendesse conto delle difficoltà. Oltre all'impegno ecumenico (sostenuto con la preghiera, gli incontri e i tentativi di riconciliazione) erano importanti per lui anche la ricerca e la comunicazione dei fondamenti della speranza per il futuro.

Sono interessanti alcune conclusioni di tale ricerca sulla relazione diritto-persona umana-potere. Sosteneva, per esempio, che «una società senza diritto sarebbe una società priva di diritti», intendendo per «diritto» semplicemente ciò che è «giusto», lo justum, il dovuto, e per «giustizia» il dare a ciascuno il dovuto. Alla base di queste affermazioni semplici ma fondamentali c’era il riconoscimento della persona umana creata ad immagine di Dio e dotata naturalmente di diritti inviolabili e inalienabili (compresa la libertà religiosa), solitamente riassunti nell'espressione «diritto naturale», fin dal tempo degli antichi Romani.

Poiché affermazioni del genere non possono non comportare conseguenze importanti, si preferisce rimandare al prossimo articolo qualche esempio e qualche considerazione sull'attualità. Già ora, tuttavia, si può affermare che nell'ottica di Benedetto XVI (e in generale della Chiesa) il «diritto» non può essere subordinato al «potere» e il potere deve «servire il diritto e combattere il dominio dell’ingiustizia». Oltretutto, secondo Benedetto XVI, la fede, la religione e anche il «diritto naturale» sono «ragionevoli», ossia non contrari alla ragione.

Ottimismo nonostante la crescente secolarizzazione

Nella visione di Benedetto XVI i tempi sono lunghi e le radici cristiane dell’Europa sono sane perché la cultura europea è il risultato dell’incontro fecondo «tra Gerusalemme, Atene e Roma», dell’incontro «tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma l’intima identità dell’Europa», anche se oggi non può sfuggire il «tentativo dell’Europa di costruire delle società e persino una comunità di Stati che per principio prescindono da un fondamento religioso».

In un discorso del 2009, di fronte ad alcuni «tentativi tesi a marginalizzare l’influsso del cristianesimo nella vita pubblica» suggerì una doppia autocritica (dell’età moderna e del cristianesimo moderno) e l’invito rivolto soprattutto ai cristiani di impegnarsi (maggiormente) nella ricostruzione di «un ordine politico giusto» e «nel dialogo per aprire nuove vie verso la comprensione reciproca, la collaborazione in vista della pace e il progresso del bene comune».

Benedetto XVI, come già ricordato, non si lasciò prendere mai dallo scoramento perché riteneva che compito del Pontifex maximus è costruire ponti, non piangerne la distruzione, soprattutto in tempi difficili con una società molto frammentata, secolarizzata («senza riferimento alla Trascendenza») e sedotta dal materialismo. L’ottimismo non è d’obbligo, ma in questo caso è fondato perché i buoni esempi non mancano e duemila anni di storia del cristianesimo in Europa possono essere una fonte inesauribile d’ispirazione per l’azione. Benedetto XVI è stato un buon esempio.

Del resto, come avrebbe potuto Joseph Ratzinger/Benedetto XVI rinunciare a quelle ch'egli stesso aveva definito «irrinunciabili radici cristiane della cultura e della civiltà europea»? Come avrebbe potuto rinnegare quanto da lui stesso affermato, che «il diritto naturale fa parte del patrimonio culturale europeo da molti secoli, tanto da aver dato un importante contributo allo sviluppo giuridico dell’Europa»? (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 13.11.2024

06 novembre 2024

36. L’Europa di Benedetto XVI (2a parte)

L’interesse di Benedetto XVI per l’Europa non era dovuto né a una scelta sentimentale né a una scelta politica, ma a considerazioni prevalentemente religiose. In quanto tedesco si sentiva ovviamente europeo e in quanto tale non poteva disinteressarsi delle vicende riguardanti l’Europa, anche se papa della Chiesa universale. Ma questo interesse di Benedetto XVI va visto soprattutto, in linea col predecessore Giovanni Paolo II, come un tentativo necessario di messa in sicurezza dei valori cristiani riguardanti l’uomo, creato a immagine di Dio e redento da Cristo, e della Chiesa, chiamata a «dare testimonianza alla verità». Non va nemmeno dimenticato che Joseph Ratzinger, prima di diventare papa, era stato a lungo stretto collaboratore del papa polacco, di cui aveva condiviso non solo la profonda spiritualità, ma anche la visione politica di un’Europa che stava ritrovando a fatica la sua anima. Divenutone suo successore, ha voluto raccoglierne in pieno l’eredità e l’impegno ecumenico mirando con umiltà al «grande traguardo della piena unità» attraverso obiettivi intermedi realistici, come «rafforzare la testimonianza comune dell’amore in un mondo che ne ha sempre più bisogno».

Tra pessimismo e ottimismo

Il cardinale Ratzinger e papa Giovanni Paolo II
E’ probabile che Benedetto XVI (1927-1922) abbia ereditato dal papa Karol Wojtyła (1920-2005) anche una buona dose di ottimismo, avendolo visto all'opera e condividendone le posizioni, mentre contribuiva, almeno indirettamente, a indurre in Europa, ancora divisa in due blocchi dalla guerra fredda, cambiamenti radicali. Il cardinale Ratzinger, come suo collaboratore, lo aveva pienamente sostenuto e come suo successore sentì la responsabilità di proseguirne l’opera soprattutto in campo ecclesiologico e teologico, ma anche politico in senso ampio.

Non va dimenticato che sia per Giovanni Paolo II e sia per Benedetto XVI i tempi, nella Chiesa e in Europa, non erano facili. A prescindere dai problemi interni alla Chiesa, non si possono dimenticare, per esempio, le difficoltà di dialogo con gli Ortodossi considerati da decenni appartenenti al blocco «comunista». D’altra parte, senza tale dialogo sarebbe stato molto più difficile dialogare con avversari politici.

Joseph Ratzinger non riuscì a raggiungere «il grande traguardo», ma grazie alla sua apertura teologica e alla sua disponibilità al dialogo e all'ascolto riuscì a progredire nel tentativo di avvicinamento non solo tra Cattolici e Ortodossi, uniti nella fede in Cristo, ma anche tra Cattolici e Islamici, con cui pregare insieme e promuovere la fratellanza umana per la pace e la convivenza nel mondo.

L’ottimismo di Benedetto XVI riguardo al futuro dell’Europa, come risulterà meglio dai prossimi articoli, potrebbe apparire esagerato perché nei media si ricordano forse più volentieri le critiche e le condanne di alcune deviazioni come il nazionalismo o il relativismo, ma non c’è dubbio che la visione di Benedetto XVI sull'Europa era complessivamente ottimistica. Ciò non significa che gli fosse indifferente la direzione che stavano prendendo la società e la politica o la pericolosità di alcuni mali che avevano portato il continente e il mondo sull'orlo dell’abisso, bensì che, conoscendoli, potevano essere meglio combattuti ed emendati.

Contro il «neopaganesimo»

Non è possibile analizzare nel poco spazio disponibile i mali più pericolosi per l’Europa e per il mondo individuati da Benedetto XVI, ma non si può fare a meno di accennare dapprima a quello di natura religiosa che maggiormente ha preoccupato i papi del Novecento, forse perché più diffuso, più contagioso e più pericoloso, costituito contemporaneamente da un progressivo allontanamento del «popolo di Dio» dal Vangelo e da una sorta di involuzione delle nostre società sul piano etico, culturale e politico. Del resto già Pio XI (1857-1939) aveva parlato di «neopaganesimo» per indicare la perdita di valori religiosi e il diffondersi di un «umanesimo ateo» in una società sempre più secolarizzata.

Benedetto XVI ha insistito in diverse occasioni sull'opposizione tra «umanesimo ateo» e «umanesimo cristiano», non solo per ragioni teologiche, ma anche per ragioni molto umane. Per lui, infatti, «l’ateismo e più precisamente l'anticristianesimo» tende a schiacciare la persona umana, anche se proclama di volerla liberare da un Dio ritenuto oppressore invece che salvatore e misericordioso.

Il tema dell’ateismo, come si vedrà anche nel prossimo articolo, non era indifferente alla problematica del futuro dell’Europa e Benedetto XVI sapeva bene che senza dialogare con la parte che si proclamava «atea» non sarebbe stato possibile nemmeno parlare di diritti dell’uomo, libertà fondamentali, tolleranza, solidarietà, sviluppo comune, ecc.

Giovanni Longu
Berna, 06.11.2024

04 novembre 2024

Attenzione alle feste «nazionali»!

L’Italia celebra oggi, 4 novembre, la Festa Nazionale, più precisamente la «Festa dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate» (come vuole la legge n. 27 del 1° marzo 2024). Non mi sorprende questo abbinamento, non completamente in linea con una lunga tradizione. Fino al 1949, infatti, il 4 novembre si celebrava solo la «vittoria per annientamento» dell’esercito austro-ungarico («L'Esercito Austro-Ungarico è annientato», dal Bollettino della vittoria di Armando Diaz), sorvolando sulle ingenti perdite umane (oltre 650.000 i militari italiani morti e oltre un milione i feriti!) di quell’«inutile strage» (Benedetto XV). Dal 1949, quando in Italia (e in Europa) il clima politico stava decisamente cambiando e il bellicismo perdeva consensi, alla celebrazione della Vittoria della guerra 1915-18 si aggiunse la celebrazione dell’Unità nazionale e delle Forze Armate. Negli anni Sessanta e Settanta, la contestazione non risparmiò le Forze Armate, il 4 novembre smise di essere giorno festivo e le celebrazioni furono spostate alla prima domenica di novembre. Nel 2007 annotava Sergio Romano: «Il 4 novembre non è del tutto scomparso, ma è ormai soltanto una festa domestica delle Forze armate, celebrata quasi privatamente nelle caserme».

La nuova maggioranza ha voluto ripristinare la festività nazionale del 4 novembre col titolo Giornata dell'Unità nazionale e delle Forze armate sperando forse di rivalutare l’Unità nazionale e il ruolo delle Forze Armate. Con un pizzico di retorica la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha voluto ricordare che le Forze Armate esistono per «tutelare i valori della libertà e dell’unità» e il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha aggiunto in riferimento alle Forze Armate, «le cui imprese hanno contribuito a fare dell’Italia una nazione indipendente, libera, ispirata a valori democratici e di pace». 

Non so quanti italiani si sentano toccati da queste celebrazioni «nazionali» e da questi fervorini retorici; da parte mia trovo sorprendente che anche nelle figure apicali d’Italia la storia sia ancora letta con lo sguardo rivolto al «passato» (spesso tutt’altro che glorioso) e non si riesca a valorizzare altri aspetti che pure fanno parte della Costituzione e che dovrebbero caratterizzare l’Unità nazionale. Penso in particolare agli articoli 1 (L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro), 2 (La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo… l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale), 3 (E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese), 9 (La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica), 11 (L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali).

Mi aspetterei che dai discorsi ufficiali risultassero più chiaramente gli impegni presi dall’Italia in favore della pace, per favorire la convivenza pacifica tra Stati poco propensi a collaborare, per promuovere in tutti i campi l’integrazione europea (che richiede inevitabilmente limitazioni di sovranità nazionale), per ridurre in Italia, in Europa e nel mondo le disuguaglianze, per promuovere ovunque la convivenza, la collaborazione, la solidarietà, la prosperità, la bellezza. Quale «nazione» bisognerebbe celebrare?

Giovanni Longu
Berna, 4 novembre 2024

23 ottobre 2024

35. L’Europa di Benedetto XVI (1a parte)

Un altro papa che si è speso molto per l’Europa e la riscoperta delle sue radici cristiane è stato il successore di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI. Il cardinale Josef Ratzinger, già assumendo il nome Benedetto intendeva affermare la continuità storica non solo del Papato, riprendendo il nome di un suo illustre predecessore, Benedetto XV (1854-1922), ma anche del Cristianesimo europeo (diffusosi soprattutto grazie al movimento monastico avviato da San Benedetto da Norcia. Mentre gli ultimi grandi papi erano interessati, riguardo all'Europa, soprattutto al dialogo interreligioso (specialmente con i «nostri fratelli cristiani»), Benedetto XVI aggiunse una particolarità legata al suo carisma di acuto teologo e attento osservatore della società contemporanea: l’analisi accurata e profonda dei mali che affliggono il continente (e il mondo) e delle possibilità di sanarli.

Benedetto XVI e Benedetto XV

Del papa Ratzinger i media internazionali sottolineavano, nei primi anni del suo pontificato, soprattutto l’origine tedesca associandola secondo un diffuso luogo comune a un presunto carattere freddo, quasi prussiano (benché fosse bavarese) e a un altrettanto presunto complesso di superiorità. Si sbagliavano e si accorsero presto del carattere mite e aperto di Benedetto XVI e cominciarono ad apprezzarne il metodo di lavoro, la finezza del ragionamento, l’ottima conoscenza della Bibbia e della Tradizione, la capacità di ascolto, la chiarezza della comunicazione verbale. Non subito, tuttavia, si accorsero del suo grande amore per l’Europa che rischiava, secondo lui, ma in linea col suo immediato predecessore, di perdere le sue radici cristiane, lasciandosi trascinare da una forma di «neo-paganesimo», dal relativismo, dal materialismo, dal dominio dell’avere sull'essere.

Eppure avrebbe dovuto far riflettere già la scelta del nome Benedetto, perché l’ultimo papa con quel nome, Benedetto XV, si era prodigato con grande coraggio per evitare il dramma della prima guerra mondiale, poi per fermare quella «inutile strage» e infine per garantire a tutti i popoli europei coinvolti una «pace giusta». Non vi era riuscito, ma per Joseph Ratzinger quei fallimenti non costituivano un problema, ma uno stimolo per proseguire gli sforzi nella stessa direzione, come confermerà qualche anno dopo: «sulle sue orme desidero porre il mio ministero a servizio della riconciliazione e dell’armonia tra gli uomini e i popoli».

Benedetto XVI e Benedetto da Norcia

Altra fonte d’ispirazione per chiamarsi Benedetto gli proveniva dalla «vicinanza» ideale a san Benedetto di Norcia (480-546), il patriarca del monachesimo occidentale, che ebbe un’importanza straordinaria nella diffusione del cristianesimo nel continente europeo (cfr. L’ECO del 24.01.2044: Il monachesimo medievale e la nascita dell’Europa).

Del resto, appena poche ore prima della morte di Giovanni Paolo II, racconta un suo biografo, avendo ricevuto a Subiaco il «Premio San Benedetto», aveva ribadito l’impegno della Chiesa e uo per l’Europa: «Abbiamo bisogno di uomini come Benedetto da Norcia, che in un tempo di dissipazione e di decadenza, si sprofondò nella solitudine più estrema, riuscendo, dopo tutte le purificazioni che dovette subire, a risalire alla luce. Ritornò e fondò Montecassino, la città sul monte che, con tante rovine, mise insieme le forze dalle quali si formò un mondo nuovo. Così Benedetto, come Abramo, diventò padre di molti popoli».

Anche Benedetto XVI era fortemente preoccupato del futuro dell’Europa, perché rischiava di dimenticarsi (e di perdere) le «irrinunciabili radici cristiane della cultura e della civiltà europea».

In continuità con Giovanni Paolo II

Su questo punto Benedetto XVI si sentiva in continuità con un altro predecessore autorevole, Giovanni Paolo II, col quale aveva condiviso in larga misura preoccupazioni, analisi e soluzioni possibili anche riguardo al futuro dell’Europa. Dopo il crollo dei regimi totalitari dell’Europa orientale e la fine dei «blocchi contrapposti» (1989-1991), Giovanni Paolo II aveva auspicato un ripensamento globale dello sviluppo dell’intera Europa. Non ci fu, anzi, negli ultimi anni della sua vita, dovette costatare suo malgrado un peggioramento della situazione. 

Divenutone per volontà del Conclave suo successore, Benedetto XVI sentì come suo compito continuarne l’opera nella convinzione che un’Europa «cristiana» fosse ancora possibile, ma a una condizione: che in Europa ci fossero uomini toccati da Dio come San Benedetto che facessero avanzare la nuova evangelizzazione più che con le parole con la preghiera e la testimonianza.

Purtroppo, come si vedrà meglio nei prossimi articoli, anche Benedetto XVI dovette rendersi conto che l’Europa non stava più ad ascoltare i Papi, la secolarizzazione delle società europee aumentava, il relativismo cresceva …. Mai tuttavia Benedetto XVI perse la speranza perché, come vuole la Regola benedettina, «Nulla si anteponga all'opera di Dio» (Operi Dei nihil praeponatur). (Segue)

Giovanni Longu

Berna, 23.10.2024 

16 ottobre 2024

34. L’Europa di Giovanni Paolo II (4a parte)

Giovanni Paolo II accolse di buon grado i risultati della Conferenza di Helsinki (1973-1975) perché contenevano l’impegno dei Paesi firmatari (Unione Sovietica compresa) a rispettare «i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali, inclusa la libertà di pensiero, coscienza, religione o credo, per tutti senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione».  Inoltre, s’impegnavano a promuovere e incoraggiare «l’esercizio effettivo delle libertà e dei diritti civili, politici, economici, sociali, culturali ed altri che derivano tutti dalla dignità inerente alla persona umana e sono essenziali al suo libero e pieno sviluppo». Quanto bastava, per Giovanni Paolo II, per poter proseguire la «politica del dialogo» dei suoi predecessori, ma anche per andare oltre, se gli fosse stato possibile e se soprattutto gli europei lo avessero seguito, come sperava.

Diritti fondamentali

Medaglia del 2004 per ricordare le radici cristiane dell'Europa.
Il riconoscimento dei diritti fondamentali degli individui e dei popoli rappresentava per Giovanni Paolo II un ottimo punto di partenza perché sanciva ai suoi occhi la centralità dell’uomo in ogni attività politica, economica, sociale e culturale, a livello nazionale e internazionale. Lo affermò chiaramente fin dalla sua prima enciclica «Redemptor hominis» del 4 marzo 1979, ricordando lo sforzo compiuto per dare vita all'Organizzazione delle Nazioni Unite, «uno sforzo che tende a definire e stabilire gli oggettivi ed inviolabili diritti dell'uomo, obbligandosi reciprocamente gli Stati-membri ad una rigorosa osservanza di essi», anche a garanzia della pace.

Ribadì questo concetto nel discorso tenuto all'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 2 ottobre 1979, affermando che «tutta l’attività politica, nazionale e internazionale […] viene dall'uomo, si esercita mediante l’uomo ed è per l’uomo» e costituisce «l’adesione, piena di sollecitudine e responsabilità, ai problemi ed ai compiti essenziali della sua esistenza terrena, nella sua dimensione e portata sociale, dalla quale contemporaneamente dipende anche il bene di ciascuna persona».

Nei rapporti tra Stato e Chiesa, Giovanni Paolo II, ispirandosi al precetto evangelico («Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio, Mt 22, 21), sottolineò più volte l’autonomia delle due sfere d’azione, per cui in materia civile la Chiesa non deve proporre opzioni «tecniche» che sono di competenza dello Stato, ma lo Stato «deve rispettare la missione specifica della Chiesa nella diffusione del Vangelo e nella formazione delle coscienze. Chiesa e Stato, tuttavia, in quanto a servizio delle stesse persone hanno l’obbligo morale del dialogo e della mutua collaborazione.

«Europa, ritrova te stessa!»

Nella visione dell’Europa di Giovanni Paolo II c’è sempre meno spazio per anatemi, concordati e rivendicazioni, ma una gran voglia di dialogo interreligioso (soprattutto tra cattolici e ortodossi per ricomporre la frattura che divise la cristianità nel 1054) e un’insistenza senza remore sui principi sottoscritti dagli Stati all'ONU e a Helsinki. C’è anche la visione di una «grande Europa» che si estende dall'Atlantico agli Urali, che dovrebbe riuscire a superare la divisione inaccettabile seguita alla seconda guerra mondiale.

Giovanni Paolo II si aspettava probabilmente un grande sostegno delle popolazioni europee alla sua visione dell’Europa, ma nonostante i viaggi trionfali in molte capitali, la situazione sembrava bloccata. Solo nella sua terra d’origine, la Polonia, qualcosa si muoveva anche grazie al sindacato Solidarnosc, ma nel resto d’Europa i suoi richiami sembravano inascoltati.

PapaWojtyła voleva il dialogo anche con l'URSS. L'incontro con M. Gorbachev 
in Vaticano nel 1989 fu molto importante per la Chiesa, l'URSS e il mondo.
Nel resto d’Europa non si registrava alcun movimento in direzione dell’unità e autonomia politica dell’Europa anche perché i due blocchi sembravano insensibili e intransigenti. Non si registrava alcuna voglia di recuperare le radici cristiane, perché una sorta di apatia religiosa si era diffusa ovunque in Europa anche nei Paesi cosiddetti «cattolici». Anche in essi, infatti, erano ormai diffusi materialismo, relativismo e secolarizzazione. 

Eppure la voce del papa venuto da un Paese lontano non si attenuava e come la goccia che scava la roccia agiva, lentamente, ma agiva, tanto da far tremare alcuni palazzi, compreso il Cremlino. Verrebbe persino da chiedersi se con Giovanni Paolo II sarebbe stata possibile una così evidente violazione degli obblighi della Carta delle Nazioni Unite, dell’Atto Finale di Helsinki, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) nelle regioni orientali dell’Ucraina.

Che fine ha fatto il grido del papa lanciato dal santuario di Compostela (1982): «Europa: ritrova te stessa, sii te stessa!»). Giovanni Paolo II era un visionario ma non un illuso. Era soprattutto un sincero cristiano, convinto che la sua visione corrispondesse al disegno di Dio sull'uomo e sulla società, che prima o poi avrebbe finito per trionfare. Sapeva anche che altri dopo di lui avrebbero proseguito la sua azione. Persino nel periodo più doloroso della sua vita seppe conservare l’ottimismo che lo aveva sempre animato, anche riguardo all'Europa.

Giovanni Longu
Berna 16.10.2024

09 ottobre 2024

33. L’Europa dei Papi: Giovanni Paolo II (3a parte)

I risultati della Conferenza di Helsinki (1973-1975), ai quali la Santa Sede aveva contribuito significativamente con interventi mirati di Mons. Agostino Casaroli, saranno bene accolti da Karol Wojtyła (papa dal 1978), perché rappresentavano secondo lui un buon punto di partenza per sviluppare la «politica del dialogo» avviata dai suoi predecessori con i Paesi dell’Est e con l’Unione Sovietica, anch'essi firmatari degli Accordi. Egli riteneva che non sarebbe stato difficile trovare un’intesa sui principi sottoscritti a Helsinki, legando insieme i diritti degli Stati e i diritti delle persone, anche se la loro applicazione avrebbe potuto incontrare resistenze persino nel mondo cattolico (perché alcuni prelati si opponevano a ogni forma di dialogo con i marxisti). Giovanni Paolo II era invece convinto che quella fosse la strada giusta da percorrere per il bene della Chiesa e anche dell’Europa. E la percorse, fino all'ultimo.

La Conferenza di Helsinki

Giovanni Paolo II e il card. Agostino Casaroli, appena nominato
Segretario di Stato e corresponsabile della Ostpolitik del Vaticano.
La Conferenza di Helsinki fu organizzata quasi trent'anni dopo la fine della seconda guerra mondiale con l’obiettivo di dare sicurezza e garanzie di sviluppo comune all'Europa, allora divisa e ostacolata dalla logica dei blocchi contrapposti. In quanto polacco, Giovanni Paolo II percepiva anche il peso dello schiacciamento e del controllo sovietico, che impediva ai Paesi dell’Europa orientale di evolversi liberamente come quelli della parte occidentale.

Inoltre, osservava con forte preoccupazione, soprattutto all'est, la corsa agli armamenti. Infatti l’Unione Sovietica, sentendosi minacciata dal dinamismo dell’alleanza militare occidentale, la NATO (costituitasi nel 1949 per arginare l’espansionismo sovietico), nel 1955 aveva creato anch'essa un’alleanza militare, il «Patto di Varsavia», sottraendo risorse preziose allo sviluppo. E’ vero che il risultato fu un lungo periodo di distensione, ma contribuì anche ad accrescere lo squilibrio tra i Paesi dell’Est e i Paesi dell’Ovest e i rischi di un’altra guerra sconvolgente in Europa.

Per evitare che la profonda spaccatura tra Est e Ovest potesse degenerare e per gettare le basi di uno sviluppo a beneficio dell’intero continente, nel 1973 fu convocata a Helsinki una Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa a cui parteciparono 35 Stati. Forse nella speranza di una posizione equilibratrice moderata, fu invitata dal governo finlandese a parteciparvi (su richiesta dei Paesi del blocco orientale) anche la Santa Sede (Vaticano).

Il risultato, noto come Atto Finale di Helsinki (1975), non poteva essere che un compromesso a cui tutti gli Stati partecipanti aderirono, forse sapendo che gli impegni reali erano minimi e le possibilità di ovviarli tante. Giovanni Paolo II, che sarebbe stato eletto papa tre anni dopo, avrebbe probabilmente preferito maggiore chiarezza e impegno, ma riteneva che i pur vaghi impegni presi gli avrebbero comunque consentito di sviluppare la sua «politica» europea. Bastava trovare una relazione stringente tra i diritti degli Stati (benvisti da tutti i firmatari) e i diritti umani (inclusa la libertà di pensiero, coscienza, religione), auspicati soprattutto da alcuni e in particolare dalla Santa Sede.

Diritti degli Stati e «diritti umani»

Agli Stati firmatari dell’Atto Finale interessava soprattutto la «Dichiarazione sui principi che reggono le relazioni fra gli Stati partecipanti» (rispetto della sovranità, inviolabilità delle frontiere, non ricorso alla minaccia dell’uso della forza, composizione pacifica delle controversie, non ingerenza negli affari interni, rafforzamento della sicurezza promuovendo la distensione e il disarmo, cooperazione fra gli Stati nei campi dell’economia, della scienza, della tecnica e dell’ambiente, ecc.). Alla Santa Sede interessava soprattutto il «rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, inclusa la libertà di pensiero, coscienza, religione o credo», ma interessavano anche le questioni delle minoranze nazionali ritenute in grado di fornire un contributo alla cooperazione tra gli Stati sul cui territorio esse esistono.

Giovanni Paolo II, a cui stavano particolarmente a cuore i diritti umani e in particolare le libertà religiose, cercò in diverse occasioni di legare strettamente insieme i diritti degli Stati (esclusi quelli totalitari!) e i diritti umani della tradizione cristiana, stabilendo tra loro una relazione inscindibile. Del resto, per lui (e obiettivamente), la Chiesa non è mai stata estranea a questi rapporti, perché «il Cristianesimo è stato nel nostro Continente un fattore primario di unità tra i popoli e le culture e di promozione integrale dell'uomo e dei suoi diritti», «la storia del Continente europeo è contraddistinta dall'influsso vivificante del Vangelo» e «la modernità europea stessa che ha dato al mondo l'ideale democratico e i diritti umani attinge i propri valori dalla sua eredità cristiana».

Per questo Giovanni Paolo II, durante il suo pontificato, ha insistito tanto sul riconoscimento delle radici cristiane dell’Europa, non solo come rimedio a un diffuso «smarrimento della memoria» di una verità storica, ma anche come una speranza rigeneratrice. (Segue)

Giovanni Longu

Berna, 09.10.2024 

02 ottobre 2024

32. L’Europa dei Papi: Giovanni Paolo II (2a parte)

Sulla conoscenza delle problematiche europee Giovanni Paolo II ha avuto, rispetto ai predecessori, un vantaggio enorme. Infatti, provenendo da un Paese del blocco orientale, la Polonia, che ha sempre avuto forti legami con l’Occidente e in particolare con la Chiesa cattolica (i polacchi sono tradizionalmente cattolici romani), poteva dire di conoscere bene l’intera Europa. Ne conosceva certamente le forti disparità economiche, sociali e culturali, ma anche le aspirazioni della parte orientale. A differenza dei predecessori, interessati soprattutto al rispetto delle libertà religiose dei cattolici spesso pregiudicate dai regimi comunisti, Giovanni Paolo II era interessato anche allo sviluppo pacifico e solidale di tutti gli europei non solo in campo religioso ma anche politico, sociale, economico, sindacale e culturale.

Nel solco della tradizione…

Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, due grandi papi per la pace.
Del papa Karol Wojtyła (1920-2005) si è parlato, in varie narrazioni riguardanti il crollo dell’Unione Sovietica e i cambiamenti epocali avvenuti in Polonia e in Europa nel corso del XX secolo, come di un taumaturgo in grado di compiere miracoli, dimenticando la lunga preparazione compiuta dai predecessori. E’ vero che, grazie alla sua sensibilità, formazione ed esperienza personale di polacco e poi di vescovo di Cracovia e di uomo di cultura ha sempre avuto una visione molto ampia dell’Europa (e del mondo) e una fede inscalfibile che l’intero continente potesse evolvere secondo principi libertari e solidaristici, ma è stato anche un protagonista del suo tempo inserito nel solco della tradizione consolidata della Chiesa costantemente aperta al dialogo con le altre religioni e specialmente con l’ortodossia orientale.

Giovanni Paolo II, ha certamente seminato molto, come si vedrà meglio nel prossimo articolo, ma ha raccolto anche molti frutti del lavoro dei predecessori, che non si erano rassegnati a vedere un’Europa divisa e incapace di svilupparsi con le proprie forze. Non va dimenticato che anche i papi che lo precedettero hanno avuto una visione unitaria dell’Europa e si adoperarono in vari modi per favorire ogni possibile forma di dialogo con i Paesi dell’est e sostenere le giuste aspirazioni dei popoli verso una maggiore libertà e prosperità.

… seguendo i grandi seminatori

Per comprendere meglio l’azione di Giovanni Paolo II in favore di un’Europa libera e cristiana, mi sembra giusto ricordare sia pure sommariamente il contesto in cui si è svolta e alcuni interventi significativi degli ultimi papi che lo precedettero stabilendo una continuità sostanziale dell’interesse della Chiesa agli sviluppi globali dell’Europa.

Già Benedetto XV, considerando la prima guerra mondiale una «inutile strage», auspicava per l’Europa trattative di pace rispettose delle aspirazioni dei popoli a una convivenza pacifica. Fu anche uno dei primi pontefici a sollevare seri dubbi sul concetto di «guerra giusta», ritenendo la guerra non conforme al Vangelo e inadeguata a stabilire il giusto e cristiano ordine della vita collettiva.

Pio XI credeva e sperava nella «conversione della Russia», soprattutto dopo aver raggiunto un accordo che consentiva a inviati della Santa Sede di dedicarsi «al miglioramento delle condizioni del popolo attraverso la distribuzione di viveri agli affamati». Grazie al suo interessamento si era potuto organizzare una Conferenza economica internazionale a Genova (maggio 1922) con la partecipazione dell’Unione Sovietica. La sua aspirazione era però di poter intrattenere con la Russia sovietica «relazioni normali nell'interesse di tutta l’Europa».

Nel 1962, l'intervento di Giovanni XXIII su Kennedy
Krusciov fermò la minaccia di un conflitto nucleare.
Pio XII, nonostante la sua pregiudiziale anticomunista, cercò in molti modi di tenere aperti i contatti con i sovietici, anche perché era convinto che le radici cristiane dell’Unione Sovietica prima o poi avrebbero rivitalizzato il tessuto sociale di quel Paese. Nel 1952, consacrò la Russia al cuore immacolato di Maria «nella sicura fiducia che col potentissimo patrocinio di Maria vergine quanto prima si avverino felicemente i voti […] per una vera pace, per una fraterna concordia e per la dovuta libertà a tutti e in primo luogo alla chiesa».

Giovanni XXIII, intervenendo nella delicata questione dei missili sovietici a Cuba, si era meritato la riconoscenza sia di Kennedy che di Krusciov. Anch'egli auspicava la completa riconciliazione dei popoli europei e la conservazione dei valori cristiani.

Paolo VI si era spinto oltre, praticando (specialmente attraverso monsignor Casaroli della Segreteria di Stato vaticana) una sorta di Ostpolitik, che mirava a stabilire buone relazioni con tutti i Paesi orientali (in particolare Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, Jugoslavia e Russia), quale condizione per uno sviluppo comune dell’Europa, rispettoso delle libertà fondamentali.

Nel frattempo anche la Germania di Willy Brandt aveva adottato una politica di distensione e di collaborazione con la Polonia e l’Unione Sovietica, favorendo la Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (1973-1975) e gli Accordi di Helsinki. Il Vaticano vi svolse un ruolo importante che Giovanni Paolo II ha proseguito. (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 02.10.2024

18 settembre 2024

31. L’Europa dei Papi: Giovanni Paolo II (1a parte)

«Nei suoi 26 anni e mezzo di pontificato, Giovanni Paolo II si è manifestato profondamente europeo, non soltanto perché, tra i Papi del Novecento, è quello che ha il più vasto insegnamento sul Continente europeo, ma anche per il suo interesse specifico per l’Europa; un interesse che era già presente in lui come sacerdote, uomo di cultura e arcivescovo di Cracovia e che con l’ascesa al Soglio Pontificio raggiunse il suo vertice». Lo affermava il cardinale Giovanni Battista Re nel 2011. Potrebbe sembrare un giudizio di parte, ma è condivisibile da chiunque conosca anche solo sommariamente la vita e i discorsi del Papa Wojtyła. Non è tuttavia pensabile di tracciare in poche righe il suo orizzonte europeo umano, culturale e religioso, per cui se ne parlerà anche nei prossimi articoli.

Wojtyła, papa «europeo»

Papa Giovanni Paolo II
Tutti i papi hanno avuto una visione universalistica del cristianesimo e della Chiesa, ma nessuno, tra quelli del Novecento, ha avuto una visione altrettanto chiara dell’Europa come Giovanni Paolo II (1920-2005). Già la sua origine polacca (la Polonia è stata per secoli un Paese conteso da tutte le grandi potenze europee), il suo cognome slavo (Wojtyła), il suo nome (Karol, che richiama facilmente i numerosi Carlo della storia europea), la sua famiglia (suo padre era stato ufficiale dell'esercito asburgico), la sua formazione durante l’occupazione nazista e comunista, ecc. non lasciano dubbi sulla sua collocazione etnico-culturale europea.

Divenuto papa nel 1978 volle assumere lo stesso nome del predecessore come se volesse continuarne il magistero dottrinale e spirituale, già tracciato dai due grandi papi del Concilio Vaticano II Giovanni XXIII e Paolo VI. Forse più di questi si è sentito investito della missione di trasferire nel mondo moderno lo spirito del Concilio. E poiché il mondo per un papa polacco, che aveva conosciuto le tragedie della seconda guerra mondiale e gli obbrobri del nazismo e del comunismo, era soprattutto l’Europa, purtroppo ancora fragile e divisa, ad essa in particolare ha dedicato attenzione, richiami e consigli.

L’Europa auspicata da Giovanni Paolo II non era tuttavia quella che si stava affermando in piena «guerra fredda», divisa in due aree contrapposte, ma l’Europa unita dall'Atlantico agli Urali, che aveva come santi patroni Cirillo, Metodio e Benedetto, i quali avevano contribuito in modo determinante a far sì che «l’Europa potesse respirare con due polmoni: quello dell’Occidente e quello dell’Oriente». Pertanto, sosteneva il papa nel 2004, «come è impossibile pensare alla civiltà europea senza l’opera e l’eredità benedettina, così non si può prescindere dall'azione evangelizzatrice e sociale dei due santi Fratelli di Salonicco». Per questa Europa cristiana e per questa civiltà europea Giovanni Paolo II si è prodigato durante tutta la sua vita.

Non è dato sapere quanto il papa polacco abbia contribuito ad avviare il processo di riunificazione e di rivitalizzazione dell’Europa, ma è stato certamente importante. Basti pensare al suo impegno per la pace e contro la guerra, ai richiami frequenti alla solidarietà, alle condanne del totalitarismo e del capitalismo sfrenato, al suo sostegno al sindacato polacco «Solidarność», alla sua apertura al Cremlino e al suo contributo, indiretto ma reale, alla caduta del muro di Berlino e alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Già queste indicazioni sono sufficienti a fare di Giovanni Paolo II un gigante della recente storia europea.

«Principi non negoziabili»

Il papa Giovanni Paolo II non ha fatto un elenco di «principi non negoziabili», ma li ha evidenziati in numerosi discorsi. Per comprendere meglio il suo atteggiamento verso l’Europa di cui si tratterà nei prossimi articoli, tra questi principi si possono qui ricordare: la sacralità della vita, il rispetto della dignità della persona umana, le libertà e i diritti fondamentali degli individui e dei popoli, la solidarietà sociale e internazionale per garantire la pace, superare la supremazia dell’avere sull'essere e il contrasto drammatico tra opulenza (di gruppi sociali eccessivamente ricchi) e le masse dei poveri, privi del necessario nutrimento, di possibilità di lavoro, di istruzione e di cure adeguate, l’incompatibilità tra la produzione delle armi e la lotta alla fame, alle malattie, al sottosviluppo e all'analfabetismo.

Alla luce di questi principi sarà più facile comprendere l’impegno di Giovanni Paolo II per l’unità dell’Europa, il suo invito a non aver paura («Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, non abbiate paura!»), i suoi richiami a un «umanesimo vero», l’invito a ricercare le «radici cristiane delle nazioni europee» (non per vantare nobili origini ma «per offrire una indicazione alla vita di ogni singolo cittadino, e dare un significato complessivo e direzionale alla storia che stiamo vivendo, talvolta con allarmante angoscia»). (Segue)

Giovanni Longu
Berna 18.09.2024

11 settembre 2024

30. L’Europa dei Papi: Giovanni Paolo I

Per segnalare che intendeva continuare il cammino di rinnovamento della Chiesa tracciato da Giovanni XXIII e proseguito da Paolo VI, il successore di quest’ultimo, il cardinale Albino Luciani, prese il nome di entrambi: Giovanni Paolo I. Morto dopo soli 33 giorni di pontificato, non ebbe il tempo di incidere profondamente sul cambiamento che il Concilio aveva prescritto alla Chiesa. Ciononostante è ancora presente nella memoria di molti cristiani come il «Papa del sorriso» e, dal 2022, come «Beato Giovanni Paolo I». Il suo pensiero sull'Europa resta incompiuto, ma chiaro e merita di essere richiamato in questa serie di articoli volta a evidenziare le radici cristiane del continente.

Per un’Europa «cristiana»

Giovanni Paolo I, «papa del sorriso»
Albino Luciani (1912-1978) divenne papa nel 1978 quando era patriarca di Venezia da otto anni, un periodo abbastanza lungo per consentirgli di capire quello spirito aperto al mondo che si può respirare in una città simbolo di mediazione tra Occidente e Oriente. L’Europa auspicata da papa Giovanni Paolo I era un continente che prescindeva dai blocchi creatisi nel dopoguerra e che andava dall'Atlantico agli Urali. Era anche l’Europa dei suoi predecessori di cui aveva ripreso il nome e che volevano l’apertura della Chiesa al mondo e il dialogo tra tutte le comunità cristiane e soprattutto con le Chiese orientali. «Vogliamo continuare l’impegno ecumenico... con attenzione a tutto ciò che può favorire l’unione» aveva dichiarato nel suo primo messaggio Urbi et orbi del 27 agosto 1978.

Giovanni Paolo I, come i predecessori, non aveva dubbi che la nuova Europa avesse un’«anima cristiana» perché «cristiane» erano le sue radici e «cristiani» erano i suoi fondatori. Ispirandosi a Pio XII sosteneva che per svilupparsi non dovesse basarsi su una qualche idea romantica di super-nazione, ma sul «dialogo sereno e costruttivo», sullo sviluppo comune, in un clima di giustizia, solidarietà, fratellanza. Costatava comunque con amarezza che in Europa si stavano perdendo i valori del Vangelo e auspicava che la Chiesa contribuisse con tutte le sue forze a creare quel «clima di giustizia, fratellanza, solidarietà e speranza, senza la quale il mondo non può vivere».

Condividendo il pensiero sull'Europa dei predecessori, anche Giovanni Paolo I era convinto che dopo la morte del famoso trio Schuman-De Gasperi-Adenauer il loro esempio rischiava una pericolosa soluzione di continuità per il diffondersi del materialismo, del marxismo, del comunismo, del laicismo e, a livello politico, per il riemergere in molte parti di interessi nazionalistici. Trovava nefasto che ci fossero in Europa uomini politici che «continuano a opporre veti nazionali alle proposte di respiro europeo, dimenticando che solo unita l’Europa potrà giocare il ruolo di protagonista nei problemi internazionali».

Sulla CEE (Comunità Economica Europea) Giovanni Paolo I condivideva le buone intenzioni iniziali perché si prefiggeva «l’eliminazione tra gli associati degli ostacoli alla libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali, una comune politica dell’agricoltura e dei trasporti, garanzie per tutelare la concorrenza, un fondo sociale europeo per migliorare l’occupazione e altro ancora», ma ne vedeva anche le criticità: era qualcosa di più che un’unione doganale, ma molto carente politicamente e socialmente.

Pericolosità dei nazionalismi

Papa Luciani si rendeva conto che almeno per il momento l’esistenza dei due blocchi era insuperabile, ma ne auspicava la fine e riteneva insufficiente la distensione che si registrava negli anni Settanta tra le due superpotenze. Trovava invece pericolosi e perciò da arginare i nazionalismi, perché non favorivano la pace. Riteneva anche che i governi nazionali, «depositari di ogni volontà decisionaria», non favorissero l’Unione Europea, per la quale auspicava «uno dei tanti sistemi federali». Il federalismo, se bene applicato, avrebbe limitato il potere dei singoli Stati avvantaggiando l’Europa nel suo complesso grazie al «principio di sussidiarietà», secondo cui ciò che il singolo Stato non può fare con le proprie forze «può essere demandato alla comunità europea».

Giovanni Paolo I non ebbe il tempo di esprimersi ulteriormente sull'Europa, ma i principi che avrebbe potuto sviluppare erano noti, tanto è vero che nel 1977 tutti gli episcopati europei erano concordi sull'esigenza che la Chiesa non dovesse restare indifferente di fronte al processo di una sempre più stretta integrazione europea, per evidenziare le radici cristiane della nuova Europa. L’episcopato belga ricordava anche che lo stesso umanesimo, la tolleranza, la democrazia, il pluralismo, ecc. provenivano dal Vangelo e concludeva un suo intervento affermando che i popoli europei «continueranno a dare solo se aumenteranno il loro peso morale con un’unione più stretta e omogenea». Era anche l’auspicio di Giovanni Paolo I.

Giovanni Longu
Berna, 11.9.2024

28 agosto 2024

29. L’Europa dei Papi: Paolo VI

Nel 1963, per i cardinali riuniti in conclave non fu semplice trovare il successore di Giovanni XXIII, che aveva impresso una svolta importante al Papato e alla Chiesa con due incisive encicliche sociali e, soprattutto, con l’indizione del Concilio Vaticano II. Non tutti i cardinali condividevano infatti l’apertura voluta dall'anziano papa Roncalli, perché comportava mutamenti profondi nella Chiesa e nei rapporti col mondo. Per l’elezione del nuovo papa ci vollero ben cinque scrutini. Eleggendo il cardinale Giovanni Battista Montini, la maggioranza dei cardinali optò per il cambiamento nella continuità e individuò nel cardinale lombardo la persona giusta nel momento giusto perché la sua preparazione e la sua esperienza davano garanzie sufficienti per la continuità della Chiesa, ma anche per il suo rinnovamento.

Continuità e rinnovamento della Chiesa

Il neoeletto papa, che prese il nome di Paolo VI, non solo conosceva bene la Chiesa per averla rappresentata come vescovo della grande diocesi di Milano e come fine diplomatico alle dipendenze di Pio XI e Pio XII, ma l’amava intensamente: ne amava le origini, la tradizione, ma anche il presente (per la sua capacità di rinnovarsi, di aprirsi al mondo, di dialogare con tutti, come voleva il Concilio) e il futuro (in cui vedeva anche un’Europa più unita e più attiva nella salvaguardia della pace nel mondo e dei grandi valori della civiltà).

In questa sua visione riformista e ottimistica, Paolo VI decise non solo di proseguire e portare a termine il Concilio Vaticano II che il suo predecessore aveva lasciato aperto, ma anche di applicarne gli insegnamenti. Anch'egli, infatti, considerava il Concilio una benedizione divina perché dava alla Chiesa l’opportunità di rinnovarsi internamente, ma anche una responsabilità.

Paolo VI ne diede un grande esempio, con tre splendide encicliche (Ecclesiam suam, Populorum progressio ed Evangelii nuntiandi), numerosi discorsi e incontri a tutti i livelli, per favorire il rinnovamento della Chiesa, la pace nel mondo, il dialogo con tutti e soprattutto con i fratelli orientali. Per essere efficace, però, la Chiesa doveva presentarsi unita, rispettando «quella mistica unità, che Cristo lasciò ai suoi Apostoli […] come suprema esortazione!».

Apertura al mondo

Paolo VI e Atenagora nel 1964
Paolo VI s’impegnò moltissimo per la pace e la concordia tra i popoli, esortando i grandi della terra rappresentati alle Nazioni Unite (4 ottobre 1965) a bandire dalle relazioni internazionali la guerra: «Mai più la guerra, mai più la guerra!». Non si accontentò tuttavia delle esortazioni, ma propose anche soluzioni, specialmente nell'enciclica Populorum progressio, dove affermò che «lo sviluppo è il nuovo nome della pace», da intendersi come «lo sviluppo integrale dell’uomo e lo sviluppo solidale dell’umanità».

La volontà di apertura al mondo non poteva escludere quella parte che non condivideva i valori e gli sviluppi dell’Occidente e la Chiesa doveva prestare ascolto e dialogare anche con i popoli dell’Est, provvisoriamente lontani. In molti modi Paolo VI favorì il disgelo e la distensione nelle relazioni tra URSS e Occidente, come richiedeva anche il Concilio. Non si trattava di venire a compromessi sulla dottrina, ma di essere pronti all'ascolto e aperti al dialogo.

Una grande dimostrazione delle reali possibilità di dialogo fu l’incontro a Gerusalemme nel 1964 tra il papa Paolo VI e il patriarca ecumenico di Costantinopoli Atenagora. Il loro «abbraccio di pace» fu il primo passo verso la riconciliazione ancora incompiuta tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa d’Oriente dopo lo scisma del 1054.

Richiami all'unità europea

In questo processo d’integrazione europea dall'Atlantico agli Urali, Paolo VI riteneva che l’Europa dovesse assumere responsabilmente un ruolo da protagonista, perché «l’Europa fonda nel patrimonio tradizionale della religione di Cristo la superiorità del suo sistema giuridico, la nobiltà delle grandi idee del suo umanesimo, così come la ricchezza e i principi che distinguono e vivificano la sua civiltà», i cui valori essenziali sono «la libertà; la giustizia, la dignità personale, la solidarietà, l’amore universale».

Inoltre, secondo Paolo VI, per essere efficace l’Europa occidentale doveva presentarsi unita anche perché, quando nel 1963 Montini divenne papa, i padri fondatori della Nuova Europa erano usciti di scena: De Gasperi e Robert Schuman erano morti (risp. nel 1954 e nel 1963) e Adenauer nel 1963 si era ritirato dalla vita politica. L’ideale dell’Europa unita non era stato abbandonato, ma allo slancio profetico degli iniziatori era subentrata la burocrazia di complessi accordi commerciali e una minore disponibilità degli Stati membri a sacrificare in nome dell’unità una parte dei rispettivi particolarismi.

Giovanni Longu
Berna, 04.09.2024