Quando il 10 agosto 1964 Max Holzer (direttore dell’Ufficio
federale dell’industria, delle arti e mestieri e del lavoro) per la Svizzera e Ferdinando
Storchi (sottosegretario per gli Affari esteri) per l’Italia firmarono
l’Accordo finalmente raggiunto devono aver tirato un sospiro di sollievo. Fino
a pochi mesi prima il negoziato era ancora in alto mare, totalmente bloccato.
Erano invece bastati pochi incontri nella prima metà dell’anno per raggiungere
quel compromesso che per anni sembrava impossibile.
Prima di entrare nel merito dell’accordo raggiunto giova
forse soffermarsi sui motivi che hanno contribuito all’accelerazione finale. E’
probabile che le due delegazioni e i rispettivi governi si siano resi conto,
sul finire del 1963, che per non far naufragare il negoziato sarebbe bastato ridimensionare
le pretese e le attese puntando a un accordo, magari al ribasso, che garantisse
comunque agli italiani immigrati in Svizzera miglioramenti immediati e futuri e
contribuisse a stemperare il clima conflittuale che stava montando tra
popolazione indigena e popolazione straniera.
Centrosinistra italiano favorevole ad un accordo
Per comprendere la maggiore disponibilità della delegazione
italiana a ridurre le pretese iniziali occorre ricordare alcune circostanze intervenute
nella politica italiana nel corso del 1963.
Aldo Moro (1916-1978) |
Il nuovo governo, che non voleva essere da meno dei comunisti
nella difesa degli interessi dei concittadini emigrati, diede sicuramente una
forte spinta alla ripresa del negoziato con la Svizzera. Già prima del suo
insediamento, un alto funzionario del Ministero affari esteri italiano, Eugenio
Plaja, era intervenuto a Berna per «perorare con insistenza» (secondo fonti
diplomatiche svizzere) una rapida ratifica della Convenzione sulle
assicurazioni sociali (già firmata alla fine del 1962). Con l’«apertura a
sinistra», avrebbe detto, «i problemi sociali hanno acquistato maggiore
importanza per il governo», lasciando intendere che Roma avrebbe apprezzato
«infinitamente» la ratifica della Svizzera e ne avrebbe tenuto ampiamente conto
in seguito.
Esclusione dei comunisti dalle trattative
Per comprendere meglio il nuovo clima che si stava
affermando in Italia dopo le elezioni di aprile, andrebbe anche aggiunto che il
governo aveva cercato di minimizzare la portata «politica» delle espulsioni di
lavoratori italiani nella primavera-estate 1963 come pure l’interdizione ad entrare
in Svizzera ad alcuni parlamentari comunisti che in vista delle elezioni
avevano svolto sul territorio svizzero propaganda politica «illecita».
In breve, il nuovo governo italiano intendeva occuparsi
direttamente della questione migratoria e anche per questo non era favorevole
alla partecipazione al negoziato di sindacalisti italiani (presumibilmente
comunisti) o rappresentanti dell’associazionismo italiano in Svizzera
(presumibilmente appartenenti alle Colonie libere italiane, ritenute
filocomuniste). Anche per questo intendeva concludere al più presto il
negoziato con la Svizzera.
Interesse della Svizzera a concludere il negoziato
Bisogna dire a questo punto che anche la Svizzera intendeva
concludere quanto prima l’accordo d’emigrazione con l’Italia ed era pronta a
riprendere le trattative da tempo a un punto morto. Un segnale che il momento
propizio si stava avvicinando fu dato proprio dalla richiesta del ministro
Plaja di ratificare rapidamente la Convenzione sulla sicurezza sociale. In
quell’occasione infatti Berna aveva ribadito quel che aveva sostenuto fin
dall’inizio e cioè che la ratifica della Convenzione sarebbe avvenuta solo
contestualmente alla conclusione dell’accordo generale d’emigrazione. In
effetti, poco più di un mese dopo quella visita, le trattative ripresero su
nuove basi, meno rigide e meno esigenti.
La Svizzera aveva tuttavia ben più importanti motivi per
concludere l’accordo con l’Italia. La forte presenza di lavoratori stranieri
stava mettendo in agitazione non solo l’opinione pubblica, ma anche ambienti
economici, sindacali e politici. Molta irrequietezza si osservava da tempo
anche all’interno della comunità italiana, dove presunti agitatori e attivisti
comunisti sembravano mettere in pericolo addirittura la pace sociale (di qui le
espulsioni del 1963 e le innumerevoli schedature di attivisti politici e
sindacali proseguite fino agli anni ’80 quando lo scandalo venne alla luce).
Gli ambienti economici cominciavano a preoccuparsi delle
difficoltà crescenti che incontravano con la burocrazia italiana nel
reclutamento della manodopera di cui avevano bisogno, ma anche delle difficoltà
che avrebbero potuto incontrare se le concessioni svizzere nelle trattative
fossero risultate per loro sfavorevoli.
Da quasi un decennio, inoltre, ambienti della sinistra
politica e sindacale (v. articolo precedente su L’ECO n. 41
dell’8.10.2014) andavano segnalando all’attenzione del governo che la crescita
inarrestabile dei lavoratori stranieri poteva rappresentare un pericolo per
l’economia svizzera (soprattutto per la sua autonomia) e per la società (a
causa dei crescenti conflitti sociali per questioni salariali, abitative,
comportamentali, ecc.).
Pericolosità della xenofobia crescente
Dall’inizio degli anni ’60, proprio in seguito all’arrivo
massiccio di italiani ormai provenienti prevalentemente dal sud e alla
crescente conflittualità con la popolazione indigena (e in parte persino con la
collettività dei primi emigrati dal nord), si stavano sviluppando, soprattutto
nella Svizzera tedesca, movimenti dichiaratamente antistranieri. Oltre ad
agitare l’opinione pubblica in senso xenofobo, esercitavano ogni sorta di
pressione sul governo per interventi forti contro l’«inforestierimento».
Il Consiglio federale, che non sottovalutava la pericolosità
di quei movimenti e specialmente di quello che sarebbe divenuto l’Azione
Nazionale di Schwarzenbach, il 1° marzo 1963 era intervenuto con un
decreto, valido un anno, per limitare l’ammissione di lavoratori stranieri
entro il livello della manodopera estera raggiunto nel dicembre 1962. Poiché
l’effetto fu assai modesto, l’anno seguente, il 21 febbraio 1964, il Consiglio
federale intervenne con un nuovo decreto, adottando misure ancor più restrittive. Anche questo decreto,
però, non diede i risultati sperati, contribuendo a rafforzare ulteriormente la
destra xenofoba.
Già da questi accenni è facile comprendere come anche la
Svizzera sentisse l’urgente bisogno di concludere quanto prima l’accordo con
l’Italia. Da un dibattito interno in seno al Consiglio federale e una parte
dell’amministrazione federale era anche emerso che sarebbe stato giusto fare
concessioni significative in materia di ricongiungimenti familiari. Di qui
l’accelerazione impressa alla trattativa e alla firma dell’Accordo fra la
Svizzera e l'Italia relativo all'emigrazione dei lavoratori italiani in
Svizzera il 10 agosto 1964
a Roma.
Punti principali dell’Accordo
L’Accordo si compone essenzialmente di due parti, l’Accordo
vero e proprio (costituito da un preambolo e 23 articoli) e il Protocollo
finale. Entrambi i testi possono essere consultati in Internet alla pagina: http://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19640159/index.html,
oppure: http://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19640159/196504220000/0.142.114.548.pdf.
Oltre al preambolo, che dà il senso generale dell’Accordo, altri
punti qualificanti sono le condizioni di lavoro e di soggiorno, soprattutto il
diritto al ricongiungimento familiare, la parità di trattamento con i
lavoratori indigeni rispetto al salario, alla sicurezza sociale, alle
condizioni d’abitazione e l’istituzione di una «Commissione mista» per l’esame
e la risoluzione delle difficoltà che potessero sorgere nell'interpretazione e
nell'applicazione dell’Accordo.
Nel preambolo viene anzitutto sottolineato da parte sia
della Svizzera che dell’Italia il desiderio di «adeguare alla situazione
attuale le disposizioni che regolano il tradizionale movimento migratorio
dall'Italia alla Svizzera, considerando la necessità di rendere più semplici e
più rapide le modalità del reclutamento dei lavoratori italiani e la procedura
relativa all'emigrazione dei lavoratori stessi in Svizzera», ma forse
soprattutto il desiderio di «migliorare le condizioni di soggiorno dei
lavoratori italiani in Svizzera e di assicurare loro lo stesso trattamento dei
nazionali per quanto concerne le condizioni di lavoro».
In realtà l’ambizione generale dei negoziatori e dei
rispettivi governi non è solo quella di regolare su basi più attuali tutte le
procedure relative ai flussi migratori, ma soprattutto quella di garantire
condizioni di convivenza e di sviluppo della collettività italiana tali da
limitare al minimo i conflitti sociali e consentire al massimo le possibilità d’integrazione
(anche se il termine non figura mai nell’Accordo) nella società di
accoglienza.
Alcuni dei punti qualificanti dell’Accordo furono oggetto di
aspre discussioni prima della ratifica finale e meritano pertanto una
considerazione particolare nel prossimo articolo. (Continua)
Giovanni Longu
Berna 15.10.2014
Berna 15.10.2014
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