Di fronte alla costatazione che il flusso migratorio
dall’Italia verso la Svizzera non accennava a diminuire e che la collettività
italiana diventava sempre più numerosa e stabile, ma in condizioni ritenute da
molti immigrati precarie e persino discriminatorie, il governo italiano
all’inizio del 1961 chiese formalmente alla controparte svizzera di rinegoziare
l’Accordo di emigrazione del 1948.
La Svizzera, pur preferendo risolvere i singoli problemi senza modificare la sostanza degli accordi già conclusi (nel 1948, 1949, 1951), acconsentì alla richiesta italiana, probabilmente per non turbare le buone relazioni bilaterali tra i due Paesi, ma anche nella consapevolezza che la regolamentazione dell’immigrazione a carattere stagionale o temporaneo oggetto dell’Accordo del 1948 poteva subire modifiche e miglioramenti. La politica d’immigrazione della Svizzera non sarebbe stata messa in discussione.
Rivendicazioni italiane
In realtà nella prospettiva italiana si trattava di ottenere
sostanziali miglioramenti per l’intera collettività italiana immigrata in
diversi settori e risolvere alcuni problemi che, dato il numero crescente di
immigrati, rischiavano col tempo d’ingigantirsi. Concretamente, le
rivendicazioni italiane riguardavano le assicurazioni sociali (in particolare
la concessione degli assegni familiari anche ai figli rimasti in Italia,
l’assistenza malattia anche per i familiari rimasti in Italia, l’assicurazione
contro la disoccupazione), le procedure di reclutamento (da riformare), alcune
questioni riguardanti gli stagionali (soprattutto l’acquisizione del permesso
di soggiorno annuale), l’ottenimento del permesso di domicilio dopo soli cinque
anni di attesa (invece di dieci), i ricongiungimenti familiari, la
scolarizzazione degli figli degli italiani, ecc.
Negli anni '50 e '60 , decine di migliaia di lavoratori stranieri (specialmente italiani) erano addetti alla costruzione di grandi dighe (foto: Grande Dixence) |
Com'è facile intuire, questi obiettivi andavano ben oltre
l’adeguamento delle disposizioni sul reclutamento dell’immigrazione italiana a
carattere stagionale o temporaneo, oggetto dell’Accordo del 1948, che già all'articolo
1, primo capoverso, precisava: «Il presente accordo si applica all'immigrazione
in Svizzera di mano d'opera stagionale o ammessa a titolo temporaneo».
Difficoltà iniziali
Già per questa ragione e per la novità, la complessità e
l’importanza delle rivendicazioni italiane, come pure per i problemi di natura
giuridico-istituzionale della controparte svizzera a dare risposte adeguate si
può intuire la difficoltà del negoziato e comprenderne l’insolita durata:
dall'inizio del 1961 al 10 agosto 1964. Al confronto, nel giro di un paio
d’anni erano stati discussi e approvati l’Accordo di emigrazione del 1948 e la
Convenzione sulle assicurazioni sociali del 1949.
I negoziati veri e propri iniziarono nel giugno 1961, ma
vennero sospesi quasi subito per dare modo alle parti di studiare la materia e
le differenti questioni. Si comprese tuttavia da subito che alla parte svizzera
sarebbe stato ben difficile accogliere gran parte delle rivendicazioni
italiane, soprattutto per ragioni di competenza (una parte delle rivendicazioni, ad es. assegni familiari, concernevano la competenza dei Cantoni, che non potevano essere scavalcati
dalla Confederazione) e per ragioni politiche (politica federale in materia di
immigrazione). D’altra parte, anche per la delegazione italiana appariva
difficile stabilire fino a che punto poteva spingere le rivendicazioni senza
compromettere la disponibilità svizzera a venire incontro il più possibile alle
richieste italiane.
Nello sfondo era presente per entrambe le parti la
situazione reale dell’immigrazione italiana in Svizzera, una necessità per
l’economia svizzera, ma una necessità anche per l’economia italiana che, nonostante il boom di quegli anni, non
era ancora in grado di assorbire la manodopera in esubero soprattutto del
Mezzogiorno.
Pericoli da evitare
La delegazione svizzera sapeva bene che la manodopera
italiana non avrebbe potuto essere rimpiazzata, soprattutto in tempi brevi, anche
se dalla fine degli anni Cinquanta sempre più Stati si dichiaravano disposti ad
inviare propri migranti. Sapeva anche che occorreva evitare la diffusione dello scontento tra gli immigrati italiani per scongiurare conflitti sociali e
non dare adito al diffondersi della propaganda comunista, ritenuta
pericolosissima per la pace sociale. Del resto, anche autorevoli personalità
della politica andavano dicendo che occorresse maggiore apertura e
flessibilità, ad esempio in tema di ricongiungimenti familiari.
A sua volta, la delegazione italiana, pur sapendo che la
Svizzera non avrebbe potuto fare a meno degli emigrati italiani, aveva ben
presente che in quel momento l’emigrazione verso la Confederazione
rappresentava un’indispensabile valvola di salvezza per molti italiani.
Oltretutto, per l’economia italiana l’alleggerimento del mercato interno del
lavoro di alcune centinaia di migliaia di unità lavorative contribuiva a
contenere il disagio sociale, soprattutto nel Mezzogiorno. Non si poteva
nemmeno escludere il rischio che la Svizzera, di fronte alle richieste
esagerate dell’Italia, rinunciasse alle prestazioni degli italiani e si
rivolgesse a lavoratori di altre nazionalità, per esempio agli spagnoli già
pronti a sostituirli.
Infine, ma non si trattava di una considerazione marginale,
si sapeva che l’afflusso di valuta estera dalla Svizzera rappresentava un forte
contributo alla bilancia dei pagamenti italiana. L’Unità, organo del
partito comunista italiano, stimava in 70 miliardi di lire in valuta pregiata
le rimesse degli italiani emigrati in Svizzera nel 1960.
Interferenza del ministro Sullo
On. Fiorentino Sullo |
ministro del lavoro italiano
Cercando di fare pressioni sul governo svizzero, Sullo
rilasciò numerose interviste denunciando le difficoltà dei lavoratori italiani
e giungendo a minacciare addirittura di bloccare l’immigrazione dall'Italia se
non si fossero ottenuti miglioramenti della situazione.
Nell'ottica di Sullo, anche la Svizzera avrebbe dovuto
aprirsi, come stava facendo la CEE (Comunità Economica Europa), oggi Unione
Europea, in materia di libera circolazione dei lavoratori e soprattutto di
ricongiungimenti familiari. Il ministro Sullo, tuttavia, ignorava o faceva
finta di ignorare anzitutto che la Svizzera non faceva parte della CEE (e non
era intenzionata ad aderirvi) e, in secondo luogo, che gli italiani
continuavano a preferire di emigrare in Svizzera piuttosto che in altri Paesi
europei, pur sapendo che nei Paesi della CEE avrebbero beneficiato di
condizioni migliori, ad esempio in materia di ricongiungimenti familiari.
Oltre alla mancanza di riguardo, le esternazioni del
ministro Sullo provocarono l’irritazione del Consiglio federale e una nota di
protesta ufficiale, la critica quasi unanime della stampa svizzera e anche di molti ambienti dell’immigrazione italiana, per esempio, della Federazione delle
Colonie Libere Italiane in Svizzera (FCLIS).
Sull'onda della polemica sorta attorno al caso Sullo, il 23
novembre 1961 le due delegazioni tornarono a riunirsi per la ripresa delle
trattative. Dovettero tuttavia costatare subito che nel frattempo le rispettive
posizioni non erano per nulla cambiate, per cui le trattative vennero
nuovamente sospese.
Interpretando il desiderio della collettività italiana, la FCLIS chiese invano ai
due governi la ripresa del negoziato «con uno spirito costruttivo» per non
ritardare ulteriormente la soluzione dei più importanti problemi riguardanti i
lavoratori italiani in Svizzera quali l’assicurazione malattia, gli assegni
familiari, il ricongiungimento familiare, ecc. La FCLIS chiedeva anche la
partecipazione alle trattative di rappresentanti delle organizzazioni degli
emigrati italiani in Svizzera come pure dei sindacati dei due Paesi.
L’Unità, che condivideva le rivendicazioni del
ministro Sullo, sottotitolava un articolo sul fallimento delle trattative per
gli emigrati in Svizzera: «Le autorità elvetiche rifiutano di corrispondere
agli emigrati italiani gli assegni familiari e di assicurare l’assistenza ai
congiunti dei lavoratori».
Le trattative non potevano fallire
C’era il rischio che le trattative non riprendessero?
Teoricamente sì, perché la situazione politica svizzera, con una destra nettamente
ostile a qualsiasi concessione e un ambiente sindacale fortemente preoccupato
non avrebbe consentito di accondiscendere in pieno alle richieste italiane.
Realisticamente il negoziato non poteva fallire per la semplice costatazione,
come rilevava un inviato in Svizzera del Resto del Carlino di Bologna
nel 1962, che gli svizzeri hanno «terribilmente bisogno» degli italiani, almeno
in questo momento insostituibili, diversamente «ne farebbero volentieri a
meno». Di fatto il negoziato continuò, sia pure a rilento e con molte
difficoltà. (Continua).
Giovanni Longu
Berna 1.10.2014
Berna 1.10.2014
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