A Berna, prima delle sessioni parlamentari, tradizionalmente i vertici dei partiti di governo incontrano nella residenza bernese Von Wattenwyl una delegazione del Consiglio federale. Nell’incontro di venerdì scorso, 16 maggio 2014, prima della sessione estiva delle Camere federali, i due principali temi affrontati sono stati la nuova politica migratoria svizzera e gli sviluppi della politica finanziaria internazionale.
Tema immigrazione ancora attuale
Non è pertanto sorprendente che tra gli oggetti all'ordine
del giorno nell'ultimo colloquio Von Wattenwyl figuri il tema dell’immigrazione,
tanto più che l’attuazione pratica della nuova norma costituzionale (art. 121a)
non è certo di facile applicazione. Infatti essa impone soprattutto la
limitazione del numero dei permessi di dimora rilasciati a stranieri mediante la
determinazione di «tetti massimi annuali e contingenti annuali», fissati
obbligatoriamente «in funzione degli interessi globali dell'economia svizzera e
nel rispetto del principio di preferenza agli Svizzeri».
Chi pensasse, tuttavia, che in Svizzera «la questione degli
stranieri» sia stata sollevata per primi dagli irriducibili nazionalisti
dell’UDC, da sempre contrari all'immigrazione di massa, sbaglia di grosso. Non
c’è dubbio che essi sono sempre in prima fila per ricordare agli svizzeri benpensanti
e distratti che, secondo loro, ci sono in giro troppi delinquenti stranieri, che
gli islamici crescono a dismisura, che la libera circolazione degli immigrati
europei danneggia il mercato del lavoro svizzero, limita la sovranità nazionale
e mina alla radice l’identità stessa della Svizzera; ma «la questione degli
stranieri» non è una loro invenzione.
Si dice spesso che l’UDC sia la continuazione storica o per
lo meno ideologica dell’«Azione Nazionale» (AN) di Schwarzenbach (anni
’60 e ’70), perché anch'essa mirava a ridurre drasticamente il numero degli
stranieri e stroncare definitivamente l’immigrazione di massa, per cui si
dovrebbe piuttosto ad essa l’invenzione della «questione degli stranieri». Ma
non è stata nemmeno l’AN a sollevare per prima il problema, anche se è dovuto soprattutto
ad essa e alle iniziative xenofobe da essa promosse che il popolo svizzero è
stato investito in toto della questione e anche di recente, come detto, è stato
chiamato a pronunciarsi grosso modo sullo stesso oggetto.
«Inforestierimento» da oltre 100 anni nell'agenda politica
svizzera
«La questione degli stranieri» è nell’agenda politica
svizzera da oltre un secolo, con toni differenti, ma con contenuti
essenzialmente identici. Se ne cominciò a
parlare già negli ultimi decenni dell’Ottocento, quando in Svizzera il numero
degli stranieri non faceva che aumentare, passando da 211.035 nel 1880 (7,5% della
popolazione residente totale) a 383.424 nel 1900 (11,6%). Ma già allora gli
stranieri erano indispensabili e si poteva fare ben poco anche solo per
ridurne il numero e la crescita.
Il tema fu ripreso e
approfondito a partire dal 1900, ma è solo dal 1914, esattamente cent’anni fa, che
rappresenta uno dei capitoli principali della politica federale interna ed
estera. Per dare l’idea del fenomeno migratorio all’inizio del secolo scorso
bastano poche cifre significative, oltre a quelle menzionate. La
maggioranza degli stranieri era costituita da tedeschi, seguiti dagli italiani.
Insieme, tedeschi e italiani rappresentavano un elemento determinante in diversi
rami economici.
Dai dati del censimento delle aziende del 1905 risulta, ad
esempio, che su 616.228 addetti all’industria gli stranieri erano 151.493 ossia
il 24,6% (mentre nel 1888 erano appena il 12%). Secondo i dati del censimento
della popolazione del 1910,
in alcuni rami economici la percentuale di stranieri era
altissima. Per esempio, su 1000 addetti, gli stranieri occupati nella
costruzione delle ferrovie erano 899, nelle attività teatrali e musicali 770,
nei lavori di muratura 582, nella lavorazione della pietra e del marmo 547,
nell’attività edilizia 519, nei servizi personali (parrucchieri) 482, ecc.
Non solo manovali
Gli stranieri, anche allora, non erano solo manovali e operai
senza qualifica adoperati nelle imprese di produzione o nei servizi domestici,
ma anche imprenditori, artigiani, lavoratori qualificati e persino medici,
giornalisti, professori universitari. Erano stranieri il 27% dei professori
d’università (soprattutto a Friburgo, Basilea e Zurigo), il 20% dei medici, il
27% dei giornalisti, moltissimi capi d’azienda, direttori di banche, ingegneri,
tecnici, ecc.
Con questa parola sembrava riassumersi l’essenza del «problema
degli stranieri». Si riteneva infatti che la forte presenza straniera potesse
compromettere la stabilità e l’identità socioculturale del Paese, introducendo
nel contesto svizzero elementi estranei e inassimilabili. Già all'inizio del
secolo si cominciò a parlare della necessità di ridimensionare la percentuale
degli stranieri sulla popolazione residente, eventualmente naturalizzando
automaticamente i discendenti di immigrati nati in Svizzera.
Prima della guerra
Nel primo semestre del 1914 la «questione degli stranieri»
era ampiamente dibattuta su tutti i principali giornali nazionali. Era
ricorrente la considerazione che lasciar aumentare il numero degli stranieri avrebbe
rappresentato per la Svizzera un serio pericolo. C’era invece molta incertezza
sulle misure da prendere per limitarlo: controllare meglio gli ingressi,
espellere i più pericolosi, aumentare il numero delle naturalizzazioni. Di
fronte alla difficoltà di carattere giuridico e internazionale (a causa dei
numerosi accordi bilaterali) per adottare le prime, la propensione prevalente era
quella volta a intensificare maggiormente l’«assimilazione» e naturalizzare
d’autorità gli stranieri nati in Svizzera da genitori anch'essi nati in
Svizzera.
Dal 1913/14
il tema dell’«inforestierimento» (Überfremdung) entrò a far parte
del linguaggio politico anche nelle aule parlamentari. Furono soprattutto
deputati e senatori svizzero-tedeschi ad evocare pericoli derivanti dal «crescente
inforestierimento», mentre il governo almeno inizialmente tentava di
sdrammatizzare.
Nel gennaio
1914, durante una lunga discussione al Consiglio nazionale su una richiesta di
ampliamento della linea ferroviaria lungo il lago di Brienz, uno dei sostenitori
intervenne lamentando la grave situazione demografica della regione di montagna
a rischio di spopolamento perché i giovani preferiscono emigrare piuttosto che
restare senza lavoro, mentre si deve costatare «il fenomeno rattristante e
inquietante dell'inforestierimento della nostra Svizzera già più volte evocato
in questa sala».
Alla vigilia della prima guerra mondiale, nel 1914, quando
la situazione sembrava ulteriormente peggiorata (il numero degli stranieri era
salito a 600.000 e rappresentavano ormai il 15,5% della popolazione residente, addirittura il 17,3% considerando
anche i circa 90.000 stagionali), anche il governo cominciò a preoccuparsi.
Nella metà
del 1914 lo stesso presidente della Confederazione Hoffmann prese molto sul
serio la questione e cominciò a preparare un rapporto «poderoso, di
oltre 100 pagine a stampa, redatto con moltissima cura», come annotava un
cronista.
Dopo la guerra
Quando a guerra terminata, la discussione fu ripresa, il Consiglio
federale aveva cambiato opinione, come su molte altre cose nei riguardi
dell’immigrazione. Già le prime misure adottate subito dopo la guerra stavano a
denotare un cambiamento radicale nella politica degli stranieri. Con
l’istituzione della Polizia degli stranieri, l’introduzione di rigide misure di
controllo alle frontiere e altra burocrazia era chiaro che l’epoca della
politica migratoria liberale era definitivamente tramontata. A risentirne
furono soprattutto gli italiani.
Giovanni Longu
Berna, 21.05.2014
Berna, 21.05.2014
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