13 giugno 2016

Immigrazione, accoglienza e formazione



Secondo i dati dell'ONU, oltre 10'000 migranti e rifugiati sono morti nel Mediterraneo dall'inizio del 2014 nel tentativo di raggiungere l'Europa. Un quotidiano ticinese la settimana scorsa ha ripubblicato su quattro diverse pagine alcune foto di quel bambino siriano, Aylan, trovato morto l’estate scorsa su una spiaggia mentre insieme alla sua famiglia e ad altri profughi cercava la sopravvivenza in Europa. Accanto all’ultima foto, in cui il soccorritore indica il punto della spiaggia dove fu trovato, è riportato il commento di Mario Calabresi della Stampa del 3 settembre 2015 col titolo: «La spiaggia su cui muore l’Europa».

L'Europa deve agire
Aylan e la spiaggia su cui anche l'Europa rischia di morire!
 Spero che l’Europa abbia ancora risorse sufficienti per salvarsi, ma condivido l’opinione di Calabresi quando dice che questa «è l’ultima occasione per vedere se i governanti europei saranno all’altezza della Storia». L’Europa cristiana non può rimanere indifferenze di fronte ai continui naufragi e ai rischi che corrono in mare (ma anche in terraferma) le migliaia di persone in fuga da guerre e da ogni sorta di pericolo dall’Asia e dall’Africa.
La confusione tra profughi, richiedenti l’asilo e migranti (nel senso tradizionale del termine in occidente) non ha certo aiutato ad elaborare una strategia comune di soccorso e di accoglienza, ma non può essere addotta a giustificazione dell’inefficienza dell’Unione europea nel cercare soluzioni possibili.
Non credo che la soluzione migliore contro l’«invasione» (il termine continua ad essere usato anche se brutto) di stranieri sia la chiusura delle frontiere interne (per altro contraria ai Trattati) e nemmeno lo spostamento della difesa del fortino Europa ai suoi confini esterni (che vanno certamente controllati, sapendo tuttavia che sarà ben difficile controllarli interamente, soprattutto lungo il fronte marittimo del Mediterraneo). Meno ancora mi convince la soluzione (oltretutto molto costosa) di delegare il (brutto) compito di arginare la marea dei profughi a Stati che non hanno l’imbarazzo di una tradizione umanitaria e della presenza al suo interno di un Papa che non passa giorno in cui non richiami i doveri dell’accoglienza e dell’umanità.

Occorre una chiara strategia del «dopo»
A mio parere, nei momenti di emergenza, la domanda non dovrebbe essere quanti profughi possiamo accogliere, ma come dobbiamo accoglierli. Il dovere della prima accoglienza dovrebbe essere sacrosanto per tutti, anche senza richiamarsi alle opere della misericordia cristiana. Evidentemente la prima accoglienza ha un tempo limitato, per cui è imperativo che l’Unione europea elabori con determinazione una chiara strategia del «dopo», vincolante per tutti gli Stati membri. Non è ammissibile che in un sistema che aspira all’Unione dei suoi membri, alcuni siano più caricati di altri.
Mi rendo conto che tra il dire e il fare la distanza è piuttosto lunga, ma rappresenterebbe una resa e la disfatta del progetto europeo se non si riuscisse in tempi ragionevoli a calcolare la capacità di ospitare per un tempo medio-lungo un certo numero di stranieri, a valutarne i benefici sia in termini economici che demografici (possibile che l’invecchiamento della popolazione europea non sollevi qualche interrogativo?), a organizzare una strategia comune per offrire ai nuovi arrivati desiderosi di restare forme di apprendimento accelerato della lingua del posto e corsi di formazione professionale adeguati alle capacità degli individue e alle esigenze dell’economia.
Osservando la storia, si nota che alla vigilia di una guerra ogni popolo è capace di adeguarsi in brevissimo tempo all’economia di guerra. Perché i nostri popoli non dovrebbero essere capaci di adeguare il proprio tenore di vita, le strutture di accoglienza e i servizi primari alle nuove esigenze dovute all’ingresso di un numero grande (ma non grandissimo) di nostri simili, persone innocenti, sfortunate, in grave pericolo, dipendenti dalla nostra apertura nei loro confronti?
Anche da un punto di vista interessato bisognerebbe riflettere che il flusso di chi aspira, legittimamente, alla libertà e a vivere meglio, non è destinato ad arrestarsi nel breve periodo; tanto varrebbe sforzarsi (ma non ci vuole tanto) di vedere nel fenomeno inatteso e incontrastabile qualche aspetto positivo di non poca importanza. La storia insegna.

Il caso della Svizzera
Il caso della Svizzera (ma non solo) è particolarmente emblematico. E’ risaputo che senza l’immigrazione questo Paese non sarebbe quello che è, soprattutto nei suoi aspetti più positivi. Gli immigrati, infatti, non sono «serviti» solo all’economia (che si sviluppò grazie a loro fino a raggiungere livelli incredibili per un piccolo Paese senza risorse naturali), ma anche, almeno fino al 1960, alla ricostruzione di una struttura demografica normale, compensando il forte deficit di nascite degli anni Venti e Trenta.  
L’Europa di oggi non è molto diversa! Ovviamente non vanno trascurate nemmeno le misure previste dal cosiddetto «Migration Compact» o patto sulla migrazione, tra cui investimenti finanziari consistenti nei Paesi di provenienza dei profughi; ma non c’è dubbio, a mio parere, che si debba cominciare senza ulteriori indugi dalle azioni sopra accennate: accoglienza, insegnamento linguistico, formazione professionale.
Giovanni Longu
Berna, 13.6.2016

Nessun commento:

Posta un commento