25 marzo 2015

Nuovo accordo storico tra l’UE e la Svizzera


Le discussioni bilaterali tra la Svizzera e l’Unione europea (UE) in alcuni momenti danno l’impressione di un dialogo fra sordi, nel senso che ciascuna parte sembra voler mantenere ad ogni costo la propria posizione, come se fosse inamovibile. Altre volte, invece, sembra che il dialogo avanzi, magari a singhiozzo, segno che da entrambe le parti c’è la volontà di giungere il più presto possibile, ma senza fretta (anche se per la Svizzera il tempo stringe), se non ai risultati sperati da ciascuna parte almeno a un buon compromesso. E’ molto positivo che il dialogo continui, anche sui temi obiettivamente difficili come quello sulla libera circolazione dei cittadini dell’UE nel mercato del lavoro svizzero.

Il dialogo continua
Quest’anno il dialogo è ripreso ai massimi livelli con l’incontro a Bruxelles tra la presidente della Confederazione Simonetta Sommaruga e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker (v. L’ECO del 18.3.2015) e sembra proseguire in un clima favorevole su svariati temi. Alcuni segnali lasciano ben sperare.
Il 18 marzo 2015 sono iniziati a Bruxelles tra il segretario di Stato Jacques de Watteville e il direttore generale dell’UE Jonathan Faull i primi colloqui esplorativi sulla fattibilità e l’opportunità di un accordo bilaterale Svizzera-UE sui servizi finanziari. Sono pure in corso colloqui riguardanti un miglioramento dell’accesso della Svizzera ai mercati dell’UE.
Il 19 marzo 2015 la Svizzera e l’UE hanno raggiunto un accordo che prevede l’introduzione dello scambio automatico di informazioni in materia fiscale a partire dal 1° gennaio 2017 (anche se i primi scambi avverranno effettivamente solo l’anno seguente).

Scambio delle informazioni fiscali
Questo accordo, anche se dovrà essere ancora sottoposto alle Camere federali (ed eventualmente a referendum) per l’approvazione definitiva, segna a mio avviso un punto di non ritorno nei rapporti non solo in materia fiscale ma complessivi tra la Svizzera e l’Unione europea. Già, perché questo accordo è stato fortemente voluto dall’UE, al fine di introdurre definitivamente nei rapporti fiscali tra i cittadini dell’UE e la Svizzera la massima trasparenza possibile. Mentre segna davvero la fine definitiva del segreto bancario svizzero, non può non rappresentare il forte avvicinamento generale in tutti i campi tra la Svizzera e l’UE.
Su questo accordo non ho letto in Svizzera molti commenti, forse perché il tema è molto delicato e contrastato, ma non c’è dubbio che per le relazioni con l’Europa esso rappresenta la rimozione di uno dei più grossi ostacoli. Evidentemente gli svizzeri si aspettano ora qualcosa in cambio, soprattutto nella direzione di una totale apertura dei mercati europei per le imprese svizzere come pure per quel che riguarda la libera circolazione delle persone.

«Accordo storico»
A sottolineare l’importanza dell’intesa raggiunta ci hanno pensato i due negoziatori dell’accordo, il segretario di Stato Jacques de Watteville e il direttore generale dell’UE Heinz Zourek. Il primo, dopo aver siglato il documento sembra che abbia esclamato: «questo è un giorno importante» e il secondo, visibilmente soddisfatto: « sono molto grato che abbiamo trovato una risposta ad una questione politicamente e tecnicamente difficile». Ma è stato lo stesso commissario europeo per la fiscalità Pierre Moscovici, compiaciuto a sua volta del risultato raggiunto, a definirlo un «accordo storico».
L’accordo raggiunto sullo scambio automatico di informazioni in materia fiscale sostituisce il precedente accordo sulla fiscalità del risparmio con l’UE in vigore dal 2005 e riguarderà, una volta entrato in vigore, tutti i 28 Stati dell’UE e la Svizzera. L’accordo, si legge in un comunicato stampa dell’Amministrazione federale, «è reciproco, vale a dire che in caso di scambio di informazioni concernenti i conti gli Stati membri dell’UE sottostanno agli stessi obblighi della Svizzera e viceversa».
In questo accordo è stato ripreso integralmente lo standard globale dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) sullo scambio automatico di informazioni, che è già stato alla base dell’intesa raggiunta tra la Svizzera e l’Italia e che è ormai condiviso da un centinaio di Paesi e da tutte le principali piazze finanziarie del mondo. La caduta del segreto bancario svizzero non è pertanto opera di questo o quel ministro delle finanze o primo ministro, ma il risultato di un processo a cui anche la Svizzera si è sottoposta da tempo.

Ripercussioni per gli immigrati
Poiché il recente accordo siglato a Bruxelles riguarderà tutte le relazioni finanziarie dei cittadini dell’UE e della Svizzera residenti rispettivamente in Svizzera o in uno Stato dell’UE, è importante segnalare sin d’ora ch’esso avrà ripercussioni anche sugli immigrati italiani in Svizzera. Dal 1° gennaio 2017 (concretamente dal 1° gennaio 2018), infatti, tutti i dati fiscali riguardanti i beni immobili e mobili (conti correnti, partecipazioni, titoli azionari, ecc.) detenuti da essi in Italia saranno comunicati automaticamente dall'
autorità fiscale italiana a quella svizzera. Viceversa, l’autorità fiscale svizzera comunicherà a quella italiana tutti i dati fiscali riguardanti i beni immobili e mobili detenuti in Svizzera appartenenti a residenti in Italia.
Lo scambio automatico dei dati fiscali consentirà a ciascun Paese quanto meno di ridurre l’evasione fiscale, ma non sarà certo questo accordo a farla scomparire. Incentivare forme di autodenuncia, come stanno facendo ora l’Italia e da tempo la Svizzera, dovrebbe favorire l’emersione dei capitali nascosti al fisco e una maggiore equità fiscale fra i cittadini. E’ però auspicabile che gli Stati distribuiscano agli stessi cittadini le maggiori entrate attraverso un riduzione mirata delle imposte.
Giovanni Longu
Berna, 25.03.2015


Svizzera: ripresa con moderato ottimismo


A pochi mesi dalla decisione della Banca nazionale svizzera (BNS) di non più difendere a oltranza il tasso di cambio di 1,20 franchi per 1 euro, politici, economisti e soprattutto industriali s’interrogano sul futuro dell’economia svizzera se il franco dovesse ulteriormente rafforzarsi sull'euro. Già la quasi parità attuale (1 euro vale 1,05 franchi) preoccupa non poche aziende. E cosa accadrebbe, si chiedono in tanti, se il franco dovesse superare la parità? Eppure numerosi segnali inducono a un moderato ottimismo.

Cresce la fiducia
Per molti imprenditori il cambio più facilmente sopportabile sarebbe di 1,10 franchi per 1 euro, ma nessuno si fa illusioni, soprattutto dopo la decisione della BNS, ribadita ancora nei giorni scorsi, di non più sostenere artificialmente la moneta svizzera.
Quando fu dato l’annuncio, il 15 gennaio scorso, che la BNS avrebbe posto fine alla difesa del franco con massicci acquisti di euro, molte imprese furono prese dal panico. Si evocò persino lo tsunami prospettando una catastrofe economica, l’aumento della disoccupazione, la recessione, la diminuzione del PIL, ecc.
Oggi, nonostante si abbiano ancora pochi dati a disposizione, si comincia a ragionare con più serenità e sono molti gli analisti fiduciosi sulla capacità dell’economia svizzera di superare le difficoltà che indubbiamente il superfranco pone, ma anche sul miglioramento della situazione internazionale e specialmente dei grandi partner commerciali della Svizzera come la Germania e gli Stati Uniti.
Secondo la BNS e la Segreteria di Stato dell’economia (SECO) nel 2015 non dovrebbe esserci recessione e il prodotto interno lordo (PIL) continuerà a crescere, anche se a un ritmo nettamente inferiore rispetto alle stime precedenti. La BNS prevede una crescita dell’1%, la SECO dello 0,9%. Essa dovrebbe essere garantita sia dalla ripresa del consumo interno (ancora sottotono nel quarto trimestre 2014) e sia dalle esportazioni.

Motivi di ottimismo
Questo ottimismo, per quanto prudente, lascia ben sperare in un miglioramento del mercato del lavoro , che dovrebbe essere in grado nel corso dell’anno di riassorbire una parte dei disoccupati degli anni passati. Si spera che la tendenza alla crescita dell’occupazione, già osservata nel quarto trimestre del 2014 prosegua o quantomeno non rallenti nel corso di quest’anno.
Quanto alla disoccupazione, che non ha mai raggiunto punti critici nemmeno nel periodo più acuto della crisi tra il 2008 e il 2010, alcuni segnali la danno in diminuzione. Nel febbraio di quest’anno è leggermente diminuita sia la disoccupazione generale (attestandosi attorno al 3,5%, con 136.764 disoccupati) che quella giovanile con poco più di 19.000 disoccupati (7,7%, ben al di sotto della media europea e persino al di sotto di quella della Germania).
Si spera evidentemente che anche le esportazioni, fondamentali per l’economia svizzera, tengano, pur senza illudersi che possano raggiungere il record del 2014, quando il loro valore superò 208,3 miliardi di franchi e che la bilancia commerciale (differenza tra esportazioni e importazioni) possa registrare nuovamente un surplus di oltre 30 miliardi di franchi. Al riguardo non va nemmeno dimenticato che da tempo l’industria svizzera punta sempre più sull’esportazione di prodotti ad alto valore aggiunto e questi, si sa, risentono generalmente meno delle fluttuazioni dei cambi valutari.
Tra le principali ragioni del moderato ottimismo c’è anche una fiducia diffusa sulla solidità dell’economia svizzera e delle sue imprese. Negli anni scorsi, infatti, approfittando delle agevolazioni del cambio euro-franco bloccato, sapendo che il sostegno della BNS sarebbe stato limitato al massimo a tre anni, ossia fino all’inizio di quest’anno, molte imprese hanno approfittato dei tassi d’interesse straordinariamente bassi per ristrutturarsi e consolidarsi, in attesa di tempi migliori.
Alcuni osservatori fanno notare che l’ottimismo è più evidente nelle imprese che nel frattempo si sono ristrutturate e preparate al dopo crisi rispetto a quelle che non ne hanno approfittato per migliorare la propria struttura interna (riorganizzazione e riduzione dei costi aziendali, aggiornamento professionale del personale), adeguare l’offerta, rinnovare i prodotti. Queste ultime, evidentemente, saranno le imprese maggiormente a rischio.

Il ruolo dello Stato
L’ottimismo, che si nota con sempre maggiore frequenza nei media e nei comunicati ufficiali, dipende anche da un alto grado di fiducia degli imprenditori svizzeri nell'efficienza di uno Stato liberale che si preoccupa dei bisogni sia dei cittadini che dell’economia, che sa tenere i conti in ordine, che si adopera per valorizzare le potenzialità del paese attraverso un sistema di formazione (culturale e professionale) moderno, stimoli alla ricerca e all'innovazione, il rispetto della democrazia e dei diritti individuali. La fiducia nello Stato secondo molti imprenditori sarebbe ancora maggiore se gli adempimenti burocratici fossero meno gravosi.
Viene spontaneo chiedersi a questo punto se anche altri Paesi, magari confinanti con la Svizzera, con questi ingredienti potrebbero guardare già al futuro prossimo, non a quello lontano, con altrettanto ottimismo.
Giovanni Longu
Berna, 25.03.2015

18 marzo 2015

Svizzera – UE: come finirà?


Il 9 febbraio di un anno fa, gli svizzeri hanno deciso con un leggero scarto di voti (col contributo determinante dei ticinesi!) di introdurre entro tre anni limiti (contingenti) all’immigrazione di massa. Il Consiglio federale, in ossequio alla decisione popolare e al dettato costituzionale, ha deciso di preparare una sorta di avamprogetto di legge di attuazione, ma non è dato sapere con quanta convinzione.

Governo in difficoltà
Sull’avamprogetto del governo è ancora in corso la procedura di consultazione, ma le valutazioni apparse finora sulla stampa sono oltre che molteplici assai discordanti. Sarà estremamente difficile, per il governo, fare la sintesi e proporre al parlamento un disegno di legge in grado di superare le varie opposizioni. Nessuno si fa illusioni. Si dovrà comunque arrivare a una
legge che quasi certamente sarà sottoposta a referendum e dunque al vaglio definitivo del popolo sovrano.
Per anticipare i tempi del verdetto finale, in alcuni ambienti si sta pensando anche a una o più iniziative popolari per interpellare nuovamente gli elettori, entro il prossimo anno, in modo che confermino o smentiscano in maniera chiara e definitiva la decisione presa il 9 febbraio 2014.

Molti dubbi e forti contrasti
Il meno che si possa dire è che l’opinione pubblica è molto disorientata e riflette i forti contrasti che esistono a livello politico non solo sulla valutazione della decisione presa un anno fa (scientemente o inconsapevolmente) ma anche sull'opportunità di richiedere a distanza ravvicinata un nuovo pronunciamento del popolo sovrano.
Tutte le posizioni sembrano concordare sul fatto che un’applicazione «rigida» della limitazione dell’immigrazione con l’introduzione di contingenti potrebbe comportare un irrigidimento dell’Unione europea (UE) nei confronti della Svizzera e la decadenza di numerosi accordi bilaterali, a danno (per ora incalcolabile) soprattutto dei rapporti commerciali coi Paesi dell’UE. D’altra parte, un’applicazione «elastica», tale, per esempio, da salvare il principio della libera circolazione per i cittadini europei, non corrisponderebbe quanto meno alla lettera del nuovo articolo costituzionale 121a approvato nella votazione del 9 febbraio 2014. E allora? Nessuno sembra in grado di proporre una soluzione che salvi sia gli interessi dell’UE (e dell’economia svizzera) e sia il rispetto dovuto alle decisioni del popolo sovrano.
Il governo per primo, ma anche l’opinione pubblica, comincia a rendersi conto che con la decisione dell’anno scorso si è probabilmente imboccata una strada molto rischiosa e senza via d’uscita.

Tentativi infruttuosi
Fino a questo momento, almeno sotto il profilo dei risultati, sono stati infruttuosi tutti i tentativi dei vari consiglieri federali di fare breccia sull’atteggiamento intransigente della Commissione europea, refrattaria, anzi nettamente contraria a rinegoziare con la Svizzera l’accordo sulla libera circolazione. E’ da un anno ormai che la posizione dell’UE non si sposta di un millimetro da quella espressa all’indomani della votazione del 9 febbraio: sulla libera circolazione non si tratta.
Il famoso bacio di Jean-Claude Juncker a Simonetta Sommaruga
Nemmeno la presidente della Confederazione Simonetta Sommaruga è riuscita ad ammorbidire la posizione dell’UE, nonostante la calorosa accoglienza del presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, in occasione di un incontro ufficiale a Bruxelles nel febbraio scorso. E non poteva certo essere interpretato come un segnale di avvicinamento delle posizioni il celebre bacio dell’espansivo Juncker alla presidente Sommaruga. Infatti, proprio in quell’incontro apparve chiaro quanto le posizioni fossero distanti e, a detta di Juncker, praticamente senza margini di manovra, anche se fino all’ultimo la via del dialogo doveva restare aperta. Ma con quale prospettiva concreta?
La Commissione europea sa bene, infatti, che concedere una eccezione alla Svizzera significherebbe minare un principio che non è pacificamente accettato nemmeno da tutti gli Stati dell’UE. Il Regno Unito, ad esempio, potrebbe approfittarne per rimetterlo in discussione. E quanti altri Paesi sarebbero tentati di fare altrettanto?

Opinione pubblica disorientata
Anche nell’opinione pubblica svizzera, già divisa al momento del voto del 9 febbraio 2014, comincia a farsi strada il dubbio che quella scelta non sia stata saggia. Man mano che il tempo passa, anche se restano ancora due anni per l’attuazione della norma costituzionale adottata, ci si interroga se non sia opportuno riconsiderare quanto deciso un anno fa probabilmente senza valutare i rischi connessi.
Chi s’immaginava al momento del voto l’intransigenza dell’Unione europea, le difficoltà sorte ad ogni trattativa concernente aspetti particolari dei rapporti tra l’UE e la Svizzera (in materia di energia, banche, partecipazione a progetti di ricerca, ecc.) e soprattutto il rischio di far decadere automaticamente («clausola ghigliottina») un buon numero di accordi bilaterali se venisse negato il principio della libera circolazione? E chi s’immaginava tra i ticinesi (molto preoccupati dell’avanzata del numero dei frontalieri) che un anno dopo quella decisione avrebbe pesato e non poco sull’accordo fiscale con l’Italia, soprattutto in relazione proprio ai frontalieri?
A ben vedere la prospettiva di un nuovo ricorso alle urne mi sembra ragionevole e inevitabile. Non vedo alcuna ignominia chiedere ai cittadini di pronunciarsi nuovamente su un tema noto, alla luce di nuove informazioni e preoccupazioni fondate. Anzi trovo molto giudizioso che il popolo abbia la possibilità di rivedere una precedente decisione ritenuta sbagliata oppure la riconfermi perché ritenuta giusta, anche alla luce di prospettive per nulla tranquillizzanti.

Verso un voto più consapevole: la Svizzera è in Europa
La prospettiva di un nuovo ricorso al voto, oggi combattuta dai fautori del sì di un anno fa e auspicata dagli oppositori di allora, dovrebbe essere sostenuta dagli uni e dagli altri, visto che entrambi i fronti si ritengono sostenitori e difensori della democrazia diretta. Infatti, che democrazia sarebbe se al popolo non venisse data l’opportunità di correggere un precedente errore o confermare a giusta ragione una precedente decisione?
Tra le conoscenze che il popolo svizzero avrebbe ora o prossimamente a disposizione, se chiamato nuovamente al voto, figurerebbe senz’altro la considerazione che finora gli accordi bilaterali con l’UE hanno portato alla Svizzera solo o soprattutto vantaggi, anche grazie alla libera circolazione delle persone. L’economia ne ha beneficiato potendo sempre prendersi il meglio e tutto quanto le serviva. Senza la libera circolazione e con i contingenti, gli imprenditori svizzeri potrebbero reclutare manodopera solo entro un numero ristretto o comunque limitato di persone.
Il popolo svizzero, inoltre, voterebbe con maggiore consapevolezza del «peso» della Svizzera in Europa. Infatti è cresciuta e cresce sempre di più, su scala nazionale la coscienza di appartenere a un Paese, naturalmente, storicamente e culturalmente in Europa, da cui non può in alcun modo separarsi. Sa bene quanto poco peserebbe, non solo in termini economici, se la Svizzera venisse marginalizzata e addirittura esclusa da numerose libertà e agevolazioni di cui gode proprio grazie agli accordi bilaterali UE-CH.
Se la presidente della Confederazione può continuare a sostenere che le relazioni tra la Svizzera e l’UE sono «molto buone», non può trattarsi di una bella affermazione senza fondamento. E il fondamento è quell’intreccio complesso e intenso di scambi, d’interessi e di valori che lega inscindibilmente i destini sia della Svizzera in Europa che dell’Europa con la Svizzera. Sono nella realtà delle cose, oggi, la libera circolazione delle persone, gli scambi commerciali, finanziari, culturali, il turismo di massa, le reti di trasporto transnazionali, la partecipazione della Svizzera ai principali progetti di ricerca europei.
La Svizzera partecipa finanziariamente all’allargamento dell’UE e a vari programmi europei. Condivide l’Accordo di Schengen (qualche giorno fa Simonetta Sommaruga ha partecipato a Bruxelles alla riunione del Comitato misto Schengen) e intende partecipare alla cooperazione nell’ambito del trattato di Prüm sul contrasto alla criminalità transfrontaliera, collabora attivamente alla lotta contro il riciclaggio e all’evasione fiscale, ecc.

In conclusione
Il governo svizzero si sta dimostrando un esecutivo diligente nella ricerca di una legge di attuazione probabilmente inapplicabile, ma forse dovrebbe mostrare maggiore iniziativa e inventiva nella formazione dell’opinione pubblica, soprattutto in un tema vitale per l’integrazione della Svizzera in Europa. Se è giusto limitare e regolamentare l’immigrazione di massa, nel contesto europeo attuale e futuro non ha certamente senso ostacolare velleitariamente la libera circolazione delle persone e, conseguentemente, la partecipazione della Svizzera al grande progetto degli Stati uniti d’Europa, di cui proprio la Svizzera è stata ispiratrice e modello. Per questo l’accordo con l’UE è necessario e vitale.
Giovanni Longu
Berna, 18.3.2015

11 marzo 2015

Difesa dell’italiano: come cogliere la sfida


Periodicamente la discussione sull'italiano in Svizzera dapprima si anima, poi si assopisce e per mesi è come se andasse in letargo. Adesso, come se sentisse l’avvicinarsi della primavera, comincia a rianimarsi. In queste ultime settimane (e non certo solo a causa della votazione dell’8 marzo scorso nel semicantone di Nidvaldo) diversi organi di stampa, la radio e la televisione hanno ripreso a fornire notizie sullo stato di salute del plurilinguismo e specialmente della lingua di Dante in questo Paese, dove da decenni ormai è data per gravemente malata, almeno nella Svizzera tedesca e francese.

Paesaggio linguistico svizzero (2000)
Finora le informazioni non facevano che attestare l’aggravarsi della malattia, ora invece segnalano anche qualche leggero miglioramento e soprattutto una maggiore consapevolezza da parte delle autorità federali sulla necessità e urgenza di rinforzare il plurilinguismo non solo nell'amministrazione federale ma anche nell'intero Paese. Nel complesso, tuttavia, le notizie non sono incoraggianti per il venir meno di alcune condizioni che avrebbero potuto rendere più efficaci i numerosi interventi oggi messi in atto da attori diversi in favore del plurilinguismo e dell’italiano. Anche la buona notizia sul miglioramento della situazione nell'amministrazione federale non basta, come si vedrà, a indurre all'ottimismo.

Miglioramenti nell'amministrazione federale
E’ comunque un fatto positivo che la Confederazione, di fronte al deterioramento del plurilinguismo costatato in questi ultimi decenni, abbia deciso d’intervenire cominciando col dare l’esempio al suo interno, nell'amministrazione federale. Resta naturalmente il rammarico che avrebbe dovuto intervenire prima e di propria iniziativa, mentre è stata praticamente costretta ad agire dopo le forti sollecitazioni soprattutto della Deputazione ticinese alle Camere federali, dell’intergruppo parlamentare «Italianità» e di associazioni a carattere nazionale come Helvetia Latina, Coscienza svizzera e il Forum per l’italiano.
Sta di fatto che oggi si assiste a una più equa rappresentanza delle comunità linguistiche tra il personale della Confederazione (con una buona progressione proprio degli italofoni), alla pubblicazione dei bandi di concorso anche in italiano, alla pubblicazione della maggior parte dei testi ufficiali e delle informazioni emananti dalle istituzioni federali anche in italiano, a una maggiore diffusione di un plurilinguismo attivo e passivo tra il personale della Confederazione a tutti i livelli.
Credo tuttavia che nemmeno nell’amministrazione federale si riuscirà mai a garantire un perfetto trilinguismo: l’italiano sarà sempre marginale. Anche se venisse raggiunto l’obiettivo indicato nell’Ordinanza sulle lingue (2010) del 7% (aggiornato in seguito al 6,5%-8,5%) della componente italofona, questa non costituirebbe in alcun modo una massa critica sufficiente per garantire un trilinguismo perfetto o anche solo per rendere effettivo il diritto degli italofoni all’uso dell’italiano come lingua di lavoro (come previsto dalla stessa ordinanza).

I tre pilastri vacillano
Ma fuori dell’amministrazione federale, in che stato si trova l’italiano? Non mi sembra purtroppo rassicurante. Fino a qualche decennio fa i tre pilastri su cui l’italiano poteva contare per la sua sopravvivenza era l’associazionismo degli immigrati italiani, i corsi di lingua e cultura che venivano organizzati per i loro figli e l’insegnamento dell’italiano nella scuola pubblica e all’università di molti Cantoni. Oggi questi tre pilastri sembrano vacillare.
L’associazionismo tradizionale sta scomparendo perché con l’esaurirsi dell’immigrazione del dopoguerra fino agli anni Settanta non è più in grado di rinnovarsi per poter interpretare i cambi di mentalità e di bisogni tipici delle nuove generazioni. I giovani di seconda e terza generazione non parlano più anche tra di loro l’italiano, figurarsi se hanno bisogno delle vecchie associazioni troppo legate al passato dei ricordi (spesso dei tempi peggiori) e al godimento della pensione. All’ordine del giorno dei loro incontri non vengono quasi mai tematizzati la nuova immigrazione, l’integrazione professionale, sociale e politica, i rapporti intergenerazionali, la valorizzazione della lingua italiana, ecc.
I corsi di lingua e cultura, il secondo pilastro, sembrano incontrare molti problemi, soprattutto finanziari (perché la revisione della spesa pubblica italiana, la cosiddetta spending review, non ha risparmiato nemmeno i corsi all’estero), ma anche e forse soprattutto, di carattere identitario (cosa sono, che funzione svolgono) e di prospettiva (ha ancora senso il loro carattere strettamente «italiano», nella gestione, nel finanziamento, nel controllo, nell’ottica di una sempre maggiore integrazione? Che prospettiva di sopravvivenza hanno?).
Il terzo pilastro, quello dell’insegnamento dell’italiano nella scuola pubblica e all’università, è da alcuni anni messo in grosse difficoltà dall’incertezza di numerosi Cantoni (competenti in materia d’insegnamento) su quale lingua «straniera» insegnare soprattutto nella scuola dell’obbligo. La concorrenza dell’inglese diviene sempre più insuperabile. Anche a livello universitario l’incoraggiamento all’uso dell’italiano (e più in generale delle lingue nazionali) è sempre più scarso, mentre trova influenti sostenitori (penso ai rettori dei due politecnici federali di Zurigo e di Losanna, al rettore dell’Università di Basilea e ad altri ancora) l’uso dell’inglese, soprattutto negli insegnamenti scientifici.

E’ possibile migliorare la situazione?
A ben vedere, realisticamente, questi tre pilastri su cui l’italianità al di fuori dell’amministrazione federale poteva contare solidamente si stanno rivelando fragili e insicuri. Le possibilità di un’inversione di tendenza sono scarse. Alcune associazioni, radicate da decenni nel tessuto migratorio italiano, potrebbero ancora rinnovarsi se oltre al gioco delle carte, alla festa annuale e a passatempi vari ampliassero la loro offerta all’organizzazione di conferenze, dibattiti, proiezioni, rappresentazioni teatrali, esposizioni, letture, visite guidate, escursioni, corsi ecc. Ma saranno davvero capaci di rinnovarsi?
Sui corsi ho già espresso in più occasioni la mia opinione: possono avere ancora senso e un futuro solo se integrati nell’offerta ordinaria delle istituzioni scolastiche svizzere e da queste gestite, eventualmente concordando una qualche forma di partenariato con le rappresentanze consolari italiane. Credo che l’Ambasciata dovrebbe farsi carico di un’aperta discussione in merito, nel contesto di un processo ormai irreversibile d’integrazione, in cui anche l’Italia avrebbe il suo tornaconto se venissero garantite all’italiano e all’italianità buone prospettive di sopravvivenza e perfino di sviluppo.
Circa l’insegnamento delle lingue nazionali nei Cantoni le difficoltà sono tante e complesse. Solo un accordo politico intercantonale potrebbe evitare che ciascun Cantone decida autonomamente senza tener conto del dettato costituzionale che impone di realizzare un’armonizzazione degli obiettivi nell'insegnamento delle lingue. E’ tuttavia possibile che la Confederazione finisca per esercitare la sua influenza garantita dalla Costituzione federale all’articolo sulle lingue (art. 70), ove si precisa che «la Confederazione e i Cantoni promuovono la comprensione e gli scambi tra le comunità linguistiche». Ma lo farà? E come reagiranno i Cantoni sovrani? Difficilmente invece interverrà nell'autonomia del sistema universitario per frenare l’utilizzazione crescente dell’inglese, anche perché si tratta ormai di una tendenza quasi planetaria.

Intervento politico, necessario ma insufficiente
Resta il fatto che se la politica svizzera non interverrà decisamente per riaffermare il principio del plurilinguismo (per esempio, privilegiando l’insegnamento delle lingue nazionali nelle scuole pubbliche) e non incoraggerà convintamente l’offerta di corsi d’italiano soprattutto nelle scuole dell’obbligo e nei licei, la coesione e l’identità nazionale rischieranno di indebolirsi ulteriormente.
Eveline Widmer-Schlumpf
E’ pertanto auspicabile che il plurilinguismo, uno degli emblemi più prestigiosi della Svizzera, e la salvaguardia dell’italiano e dell’italianità siano garantiti a livello politico, anche nell'ottica di un Paese che deve continuamente lottare per la sua compattezza e identità nazionale.
L’italiano in particolare si è dimostrato fin dal 1848 un fortissimo collante. Non per nulla l’italiano è ancorato saldamente nella Costituzione federale come lingua nazionale e lingua ufficiale. Ma non basta, dev'essere anche vissuto nella società e praticato a tutti i livelli. Una sfida difficile, ma che non andrebbe lasciata cadere. Oltretutto, come ha osservato recentemente la consigliera federale Eveline Widmer-Schlumpf, chi conosce almeno due lingue, segnatamente all'interno di una impresa, ha un grande vantaggio anche economico.

Il contributo di tutti
Alla domanda se sia ancora possibile migliorare la situazione, la risposta non può essere che affermativa, ma a una condizione, che ciascuno faccia la sua parte: la politica, la Confederazione, le associazioni, gli italofoni. Senza il contributo di tutti l’impresa appare disperata. In questo momento vorrei sottolineare in particolare il necessario contributo delle istituzioni italiane, in primis dell’Ambasciata e dei consolati italiani.
E’ triste, per me, costatare che quasi sempre nei resoconti dei media e nelle discussioni su questa problematica è quasi sempre assente il punto di vista «italiano». Eppure proprio l’Italia dovrebbe avere tutto l’interesse a salvaguardare l’italianità della Svizzera, per i fortissimi legami storici, linguistici, culturali, turistici, commerciali tra i due Paesi confinanti. Basterebbe qui ricordare che l’Italia è per la Svizzera il secondo partner commerciale dopo la Germania e uno dei principali partner in molti altri campi.
Oltretutto l’italianità è un patrimonio costruito con la partecipazione tutt’altro che irrilevante di milioni di immigrati italiani, che andrebbe preservato e valorizzato. Come può l’Italia, a caccia di miliardi provenienti dalla Svizzera, dimenticarsi di questo ben più importante capitale storico e culturale? E come può la rappresentanza diplomatica italiana in Berna non farsi promotrice di interventi coordinati e duraturi per la valorizzazione di questo patrimonio di cui andar legittimamente fieri?

Giovanni Longu
Berna, 11.03.2015

08 marzo 2015

Festa della donna 2015


Non solo mimose, chiedono oggi le donne. Giustissimo. E nemmeno che si ripeta come un ritornello che le donne lavorano come gli uomini ma sono sottopagate e che nella carriera sono spesso discriminate. Hanno ragione. Bisogna superare la dimensione economico-sindacale. Esse chiedono soprattutto di essere riconosciute e rispettate come donne. Infatti, le donne sono donne anche quando non lavorano, non siedono nei consigli di amministrazione, non stanno tutto il giorno fuori casa per contribuire al reddito familiare.
Non va inoltre dimenticato che le donne «lavorano» anche quando non portano a casa un salario e anche se la nostra società tecnologicamente avanzata non è ancora riuscita a contabilizzare correttamente il volontariato, la cura della casa, l’educazione dei figli, l’assistenza ai malati. Spesso si tratta anche di un lavoro faticoso, delicato, complesso. Inoltre, amministrare una casa è talvolta più difficile della gestione di un’azienda e far quadrare i conti quando le risorse sono poche richiede spesso molta più abilità di quanta ne è richiesta a un contabile aziendale.
Potrei continuare, ma sarebbero forse proprio le donne a bloccarmi chiedendomi: e allora perché ci sono ancora tante differenze nella società, tante discriminazioni, tante ingiustizie…? E non saprei rispondere. Forse sta anche alle donne far capire agli uomini che molte differenze e discriminazioni sociali e professionali sono ingiustificate perché solo frutto di sovrastrutture mentali arbitrarie, comodi pregiudizi, complessi di superiorità inconfessabili, un’ancestrale volontà di dominio.
Solo quando saranno abbattute tutte queste barriere mentali e sociali si capirà che uomini e donne sono complementari nelle funzioni, ma sostanzialmente uguali, cioè di pari valore, persone e basta. E «persona» non ha genere, è maschio e femmina. Allora, forse, non ci sarà più bisogno di dedicare una giornata speciale alle donne, ma si potrà celebrare tutti insieme il valore assoluto della «persona umana», creata, per chi ci crede, nientemeno che a immagine di Dio. Speriamo. Intanto, BUONA FESTA
DELLA DONNA!

Giovanni Longu
Berna, 8 marzo 2015

25 febbraio 2015

Dove combattere corruzione ed evasione


Dal lunedì alla domenica imperversano nelle televisioni italiane i cosiddetti programmi d’informazione e di approfondimento. In realtà molto spesso non informano né approfondiscono, al contrario disinformano e rischiano di distogliere l’attenzione dai veri problemi del Paese. Un esempio per tutti: in Italia si parla e si scrive tanto della «Lista Falciani» di presunti evasori fiscali di mezzo mondo che avrebbero depositato (molti) soldi di provenienza illecita (riciclaggio, ricettazione, evasione e reati simili) nella succursale ginevrina della banca inglese HBSC, senza nemmeno chiedersi che cosa contenga esattamente quella lista, chi ne è l’autore e come sia riuscito ad ottenere nominativi e dati bancari sensibili di oltre centomila clienti.

Obiettività, prima di tutto
Parlo volutamente di «presunti» evasori finché non sarà accertato in forma definitiva dalla magistratura (e non dai giornalisti) che lo siano effettivamente e uso il condizionale perché a mia conoscenza molti elementi di questa intricata faccenda sono ancora oscuri (ad es. la provenienza e la destinazione del denaro). Non esito invece a considerare sgradevole il vizio alquanto diffuso nei media italiani (e raro ad esempio in Svizzera) di additare al pubblico ludibrio personalità molto in vista (perché altrimenti la notizia passerebbe inosservata e i giornali non venderebbero) sospettate di qualche delitto, ma senza alcun approfondimento, senza alcuna prova e senza alcun avviso di reato.
Per chiarire meglio quanto sto dicendo desidero ricordare che l’autore di quella ormai famosa o famigerata lista, a seconda dei punti di vista, è un cittadino italo francese, Hervé Falciani, ricercato in Svizzera con l’accusa di spionaggio economico, acquisizione illecita di dati e violazione dei segreti commerciale e bancario. Recentemente è stato rinviato a giudizio dalla procura di Ginevra e ora anche dalla Procura federale. Se non si presenterà spontaneamente sarà prevedibilmente giudicato in contumacia. Già arrestato su mandato di cattura internazionale sia in Francia che in Spagna e prontamente liberato, non è stata concessa la sua estradizione in Svizzera, per ragioni giuridiche ma soprattutto, forse, perché l’interessato si è mostrato collaborativo nella ricerca dei presunti evasori francesi e spagnoli, facendo recuperare a Francia e Spagna alcune centinaia di milioni di euro evasi.

Stato di diritto
Non entro nel merito della mancata estradizione, che è di per sé un tema piuttosto complicato, ma non posso non chiedermi se uno Stato di diritto può usare in giudizio come elemento di prova un documento rubato, ossia frutto di un reato, perché tale è considerata in Svizzera la lista Falciani. A differenza della Francia e della Spagna che l’hanno già usata senza scrupolo alcuno, in Italia, patria del diritto, si era aperto un dibattito nei tribunali con opinioni contrastanti. Ora però anche in Italia è divenuta utilizzabile perché la settimana scorsa la Corte di Cassazione ha stabilito che la lista Falciani può essere usata dal fisco come prova di un’evasione miliardaria in quanto il dovere di pagare le tasse è superiore al diritto alla privacy dei presunti evasori e il segreto bancario svizzero non ha valore in Italia.
Francamente ho qualche perplessità a seguire la motivazione della Corte. Anzitutto perché per me un reato resta tale (a prescindere dalla sua punibilità) anche nel caso che porti qualche beneficio allo Stato. Ma soprattutto perché in questo modo c’è il rischio che s’introduca in uno Stato di diritto il concetto fuorviante che la legge o anche solo qualche legge valga per i cittadini ma non per lo Stato. Come se la legge che punisce il furto non meriti di essere osservata se il furto comporta un beneficio allo Stato. E poi ci si meraviglia se la fiducia del cittadino nello Stato scema in continuazione, proprio nei Paesi in cui andrebbe rafforzata, soprattutto in materia fiscale!
Tornando al giudizio della Corte di Cassazione italiana, vorrei tuttavia sottolineare ch'essa ha dichiarato la legittimità dell’utilizzo della lista Falciani nei processi e negli accertamenti fiscali, ma non ha dichiarato legittimo l’uso spregiudicato che ne stanno facendo i media. Vorrei sinceramente che qualcuno mi spiegasse perché in Italia sul diritto alla privacy prevalga, nei fatti, anche il diritto alla pseudo informazione, alla calunnia, all'uso incivile della macchina del fango, alla gogna mediatica senza processi e senza contraddittorio. Non mi pare affatto corretto e legittimo che si indichino nomi e cognomi di clienti di una banca, come se fosse provato trattarsi di evasori fiscali conclamati. E’ possibile, forse probabile che ce ne siano, ma prima di condannarli mediaticamente si aspetti l’esito degli accertamenti fiscali (non giornalistici) e solo se risulteranno colpevoli li si metta pure nelle liste di proscrizione. Ma non prima.

Sistema bancario svizzero fondamentalmente sano
Ciò che però non mi è chiaro è il vero scopo di questo gran parlare della Lista Falciani, anche se a parlarne sono noti giornalisti (o pseudo-giornalisti). Se lo scopo fosse quello di gettare discredito sull'intero sistema bancario svizzero dimostrerebbero di essere solo dei poveracci ignoranti e sprovveduti, perché questo sistema è talmente solido e fondamentalmente sano che tutte le loro chiacchiere non potrebbero nemmeno scalfirlo. Oltretutto sta dimostrando da tempo che è in grado di riconoscere i propri errori e di porvi rimedio.
Bisognerebbe sapere, ad esempio, che la Svizzera è stata una delle prime nazioni europee a dotarsi di una legge per la lotta contro il riciclaggio di denaro (entrata in vigore nel 1998) e di norme severe che obbligano le banche e altri istituti finanziari a identificare i clienti e l’origine lecita dei loro averi. Da tempo le banche accettano depositi di cittadini stranieri solo a condizione che essi siano dichiarati al fisco del loro Paese di residenza. Un apposito organismo di controllo della Confederazione vigila sulle attività delle banche. Un bell'esempio di collaborazione internazionale è dato proprio dal recente accordo italo-svizzero sull'emersione dei depositi collocati nelle banche svizzere e nascosti al fisco italiano.
Trovo pertanto infantile e di basso livello quel giornalismo (soprattutto italiano) che sembra descrivere il sistema bancario svizzero come una sorta di club del malaffare, pronto a nascondere e riciclare soldi, molti soldi, anche se di provenienza criminale. Dimostra di non conoscere i mutamenti avvenuti in questo campo negli ultimi anni. Molte accuse provenienti dall'estero (e dall'Italia in particolare) sono del tutto infondate. Non è vero, ad esempio, che il segreto bancario svizzero sia assoluto, intoccabile. In caso di fondati sospetti di attività criminali (riciclaggio, organizzazione criminale, finanziamento del terrorismo, ecc.) la magistratura svizzera può accedere a tutte le informazioni bancarie pertinenti. L’assistenza giudiziaria tra la Svizzera e l’Italia funziona normalmente in base agli accordi europei e bilaterali anche in materia di riciclaggio, ricerca, sequestro e confisca dei proventi di reato. Dal 2018 la Svizzera procederà allo scambio automatico di informazioni in materia fiscale.
Se invece i giornalisti italiani intendessero operare una sorta di «vendetta» solo nei confronti della cattiva succursale ginevrina di HBSC per aver accettato soldi di dubbia provenienza da oltre settemila evasori italiani, sarebbe un tentativo a vuoto, perché è già intervenuta la magistratura di Ginevra che ha avviato un procedimento penale per riciclaggio aggravato di denaro. Da parte sua, in un comunicato stampa, la banca ha assicurato alle autorità federali la massima collaborazione. Prima o poi la verità verrà alla luce, non certo per merito dei media italiani.

Qual è il vero scopo?
Ma allora, quale altro scopo potrebbero avere questi cosiddetti giornalisti d’assalto, visto che credono di avere in mano un’arma micidiale come la lista Falciani? Credo che il vero scopo vada ricercato in quella specie di tiro al bersaglio che è diventato uno sport molto diffuso soprattutto in questi ultimi anni nei media italiani, che mira a colpire personaggi molto in vista. Della lista Falciani infatti sono apparsi nelle prime pagine dei giornali solo i nomi dei soliti noti. Resteremmo come al solito nell’ambito del gossip tanto caro a chi vuole sollazzare il popolino con gli scandali più alla moda, intrighi, sesso, corruzione, evasione fiscale.
Vorrei sbagliarmi, perché il vero scopo potrebbe essere quello di fornire uno stimolo decisivo al governo Renzi affinché intervenga finalmente ed efficacemente nella lotta contro l’insopportabile e indecente corruzione ed evasione. Non va infatti dimenticato che la corruzione è praticata in Italia, non in Svizzera, che l’evasione fiscale italiana avviene in Italia, non in Svizzera, che reprimere la corruzione e l’evasione italiana è compito primario dell’Italia non della Svizzera. Me lo auguro.
E’ in questa direzione infatti che la ricerca sull’evasione fiscale e la denuncia potrebbero dare i maggiori frutti, lasciando perdere o quantomeno relativizzando la lista Falciani, che resta comunque un colossale furto e il suo autore non è probabilmente quella specie di Robin Hood che si crede di essere non essendo ancora ben chiaro quanto sia stato ripagato per ciascun nominativo consegnato (venduto?) agli inquirenti francesi, spagnoli e altri.
Chiunque intenda fare pulizia, sul serio, dovrebbe cominciare a farla in casa propria.
Giovanni Longu
Berna, 25.2.2015




18 febbraio 2015

Evasione fiscale italiana: colpa della Svizzera?


Sull'onda di una lista di presunti evasori fiscali con depositi in una banca svizzera, i media italiani non hanno perso l’occasione per additare ancora una volta la Svizzera come il paradiso degli evasori fiscali italiani. Secondo certi censori e moralisti la Svizzera avrebbe addirittura prosperato grazie ai capitali esteri sfuggiti alle autorità fiscali di mezzo mondo. Evidentemente la conoscono molto poco. Ignorano soprattutto che la ricchezza di questo Paese è frutto delle virtù della stragrande maggioranza degli svizzeri e non dei vizi di alcuni di essi.

Le responsabilità della Svizzera
Sia ben chiaro, nessuno può negare che dal dopoguerra fino ad oggi sia affluito nelle banche svizzere moltissimo denaro «sporco» (secondo le varie legislazioni straniere, ma non di quella svizzera). In certi periodi proveniva a fiumi, non solo dall'Italia ma anche e soprattutto dagli altri grandi Paesi industrializzati dell’occidente, Stati Uniti, Germania, Francia. Gli organi di vigilanza della Confederazione evidentemente non hanno vigilato a sufficienza, anche se in molti casi non sarebbe stato difficile appurare la provenienza illecita di certi depositi intestati a dittatori e trafficanti o loro prestanome. Dalla fine degli anni Novanta la diligenza delle banche è cresciuta, ma la recente inchiesta giornalistica «SwissLeaks» dimostra che almeno in una banca, nella filiale ginevrina del colosso bancario britannico HSBC, è stata perlomeno insufficiente. Un esempio che non può essere generalizzato all’intero sistema bancario svizzero, ma che getta un’ombra sulla proverbiale accuratezza delle procedure elvetiche, tanto più che dal 1998 le banche avevano l’obbligo di vigilare accuratamente sulla provenienza del denaro dei clienti.
Occorre però riconoscere che a favorire l’arrivo indiscriminato di capitali dall'estero non è stata soltanto la carenza dei controlli ma anche il segreto bancario, considerato fino a qualche anno fa una caratteristica fondamentale della piazza finanziaria elvetica. Allora erano pochi a mettere in dubbio l’intangibilità del segreto bancario. Per fortuna in questi ultimi anni, anche grazie alle pressioni americane ed europee, esso si è non solo allentato, ma è quasi scomparso e scomparirà comunque nei prossimi anni nelle relazioni internazionali e probabilmente anche per i residenti in Svizzera.
La scomparsa del segreto bancario sarà un bene anche per le casse federali, perché esiste pure in Svizzera l’evasione fiscale, sebbene in misura meno accentuata che nei Paesi vicini. Con maggiori controlli gli attuali evasori saranno forse incentivati ad approfittare dei benefici concessi già da alcuni anni a chi si autodenuncia.

Le responsabilità dell’Italia
Pur ammettendo un deficit di diligenza da parte degli organi di controllo svizzeri, sarebbe tuttavia paradossale ritenere che la causa principale dell’evasione fiscale in Italia, dal dopoguerra ad oggi, sia dovuta alla facilità di depositare i soldi in Svizzera. Eppure sono ancora in molti a pensarlo, dimenticando che all'origine dell’evasione c’è non solo un malcostume diffuso di molti italiani ma anche un’esagerata pressione fiscale da parte di uno Stato ritenuto sprecone e inefficiente.
Ormai gli italiani, grazie a innumerevoli denunce ampiamente mediatizzate, sono sufficientemente edotti sui costi esagerati della politica, sui privilegi ingiustificati della casta, sulla corruzione miliardaria (l’Italia è superata in Europa solo dalla Bulgaria e dalla Grecia), sulla lontananza della politica dai reali problemi della gente, ecc. Di fronte a tanti scandali, spesso sbattuti giustamente in prima pagina, come possono gli italiani pagare senza batter ciglio le imposte pretese da un fisco esoso che sta dissanguando il ceto medio, i lavoratori, la piccola e media impresa?
Forse il governo Renzi, invece di privilegiare le riforme costituzionali (a mio parere fatte male, senza una previo disegno di Stato moderno, democratico e ampiamente condiviso), avrebbe fatto meglio a cercare di rispondere seriamente alle attese della maggioranza degli italiani: il rilancio dell’economia, l’abbattimento della disoccupazione soprattutto dei giovani, la sicurezza contro i rischi della povertà vistosamente in aumento, la lotta agli sprechi nel settore pubblico, l’abolizione di tanti privilegi ingiustificati della classe politica (non risparmiando nemmeno il Quirinale), la riduzione generalizzata del livello di tassazione e contestualmente la lotta senza quartiere alla corruzione e all'evasione fiscale (che permetterebbe di recuperare decine e forse centinaia di miliardi di euro sottratti illegalmente alla disponibilità dello Stato). Non sarà un compito facile, ma il governo deve fare di più e meglio.

Il coinvolgimento dei cittadini
L’accordo recente con la Svizzera sulla doppia imposizione (vedi L’ECO n. 4 e 5 del 21 e 28 gennaio 2015) rappresenta indubbiamente un buon esempio di tentativo di favorire l’emersione dei capitali evasi con l’autodenuncia e il pagamento del dovuto allo Stato, ma guai illudersi che l’evasione fiscale si combatta solo con gli accordi internazionali. Essa va combattuta specialmente in casa, giustificando le spese dello Stato per la collettività, affrancate da ogni forma di corruzione e di spreco, e col coinvolgimento più ampio possibile dei cittadini.
La Svizzera, che da alcuni anni non può più essere considerata un paradiso fiscale perché le tasse qui si pagano e non solo sui redditi ma anche sui patrimoni (!), ha un basso tasso di evasione (su scala internazionale) perché anche il livello di tassazione è relativamente basso e il grado di consapevolezza dei cittadini è abbastanza alto. Nella maggior parte dei Cantoni (perché la tassazione in Svizzera è soprattutto a base cantonale) il livello della tassazione è determinato col contributo del popolo, che può intervenire con un referendum sulle decisioni del parlamento cantonale. Sono convinto che nemmeno i cittadini svizzeri paghino volentieri le imposte, ma sono certo che la maggior parte di essi è consapevole non solo delle finalità per cui vengono raccolte ma anche del loro livello. E in Italia?
In Italia il cittadino è ancora visto dallo Stato come un potenziale evasore, per cui l’evasione va combattuta soprattutto con la repressione, sebbene sia utopico pensare di estirpare in questo modo un vizio praticato su vasta scala da nord a sud. Gli evasori, infatti, non sono solo grandi imprenditori, commercianti, liberi professionisti, facoltosi proprietari, ma anche artigiani, lavoratori autonomi in generale, lavoratori in nero, ecc. Già a metà degli anni ’70 si parlava di «evasione di massa».

Cambiare è possibile e… conveniente
Credo di sì, ma occorre tempo e molto impegno. Mi piace concludere queste considerazioni attingendo da un articolo dell’avvocato Edy Salmina sul quotidiano socialista ticinese Libera Stampa del 1980. Come si vedrà, esso conserva ancora gran parte della sua attualità. E poiché non si riferiva a un pubblico determinato, molte osservazioni si addicono bene anche al pubblico italiano.
Scriveva l’autore: «L’atteggiamento del cittadino nei confronti del creditore-Stato è poco condiscendente. Chi può inganna, chi non lo può fare se ne rammarica, chi paga per convincimento si guarda dal farlo risapere. La subdola nube di consenso o di complice benevolenza che avvolge il cittadino-evasore rende la situazione davvero seria. Perché, bisogna ammetterlo, chi non froda il fisco raramente lo fa per singolare virtù e spesso per paura o per mancanza di alternative. Ed è questo che preoccupa e avvilisce, al di là del più o meno spregevole comportamento degli evasori fiscali classici e abituali…».
L’autore si sofferma poi su alcuni atteggiamenti tipici di cittadini e politici per lo più di destra che periodicamente contestano l’aggravio fiscale, lanciano più o meno velati inviti all'obiezione di coscienza fiscale e sono pronti a legittimare anche l'evasione. E sono sempre molti coloro che volentieri applicano la teoria del meno-Stato anche nella denuncia dei redditi. Ma allora, si chiede Salmina, «perché lo Stato è creditore tanto detestato?». La risposta è immediata: «Proprio perché in esso la gente ha visto spesso e soltanto il potere nemico, il poliziotto, l'esattore, ma mai un'entità democratica, riassuntiva, pur nella conflittualità, della società civile. Capace quindi di operare anche a favore dei più poveri e degli esclusi, garantendo loro un pur piccolo e precario spazio di dignità e di libertà».
Avviandosi alla conclusione, l’autore sembra non aver dubbi: per battere l'evasione fiscale occorre anzitutto sconfiggere questi pregiudizi, «a tutto vantaggio della possibilità di una maggior partecipazione alla vita democratica». E poi: «trasparenza nell'amministrazione, controllo democratico, politicizzazione diffusa: ecco i deterrenti di lungo respiro alla frode fiscale».

L’autoriciclaggio è un azzardo
A distanza di trentacinque anni lo stesso Salmina, in un recente articolo intitolato «autoriciclaggio: non è mai troppo presto», sul Corriere del Ticino, commentando l’introduzione nella legislazione italiana della nuova norma penale sull’autoriciclaggio, scrive: «lo scopo della nuova norma penale italiana, per quanto attiene ai capitali depositati in Svizzera, è fin troppo evidente: spingere verso il rientro delle disponibilità non dichiarate rendendo ogni altra scelta un azzardo. Bastone e carota, insomma». In altre parole, evadere sta diventando finalmente un rischio che per nessuna ragione conviene più correre.

Giovanni Longu
Berna, 18.2.2015

04 febbraio 2015

La Svizzera s’interroga sul suo futuro


Il franco forte e le difficoltà ch'esso comporta a numerose imprese svizzere, soprattutto quelle turistiche e quelle orientate all'esportazione, pone a molti svizzeri l’interrogativo – in realtà non nuovo – sul futuro dell’economia svizzera e, più in generale, sul futuro della Svizzera.

Preoccupazioni per il franco forte
Finora il cambio franco-euro, che negli ultimi anni la Banca nazionale svizzera aveva mantenuto artificialmente sotto il livello di 1,20 franchi per un euro, garantiva soprattutto alle aziende esportatrici indubbi benefici. Ora che il franco si è apprezzato sull’euro e rischia di rimanere a lungo sopra la parità, molti economisti e imprenditori temono un indebolimento delle esportazioni nella zona euro (la più importante per la Svizzera) e un rallentamento della crescita del prodotto interno lordo (PIL).
Una delle peggiori conseguenze potrebbe essere l’aumento della disoccupazione, anche perché qualche segnale c’è già. Alla fine di dicembre 2014 il tasso di disoccupazione risultava salito al 3,4%, mentre a novembre era del 3,2% (anche se il numero dei disoccupati era leggermente inferiore a quello dello stesso mese del 2013). Mentre in qualunque altro Paese un livello così basso sia pure in leggera salita sarebbe motivo di grande soddisfazione, soprattutto in un periodo di crisi, in Svizzera comincia a preoccupare. Occorre infatti tener presente che gli svizzeri considerano la disoccupazione la maggiore preoccupazione e questo sentimento sembra condiviso anche dal governo federale.

Situazione preoccupante ma non drammatica
Per tranquillizzare i cittadini e gli ambienti economici, imprenditori e sindacati, ma soprattutto per dare un segnale della volontà del governo di monitorare la situazione e di intervenire se dovesse peggiorare, la settimana scorsa il consigliere federale Johann Schneider-Ammann, ministro dell’economia, ha incontrato i rappresentanti delle principali organizzazioni padronali e sindacali per una prima valutazione.
Johann Schneider-Ammann
Quando ha saputo che ci sono già stati licenziamenti e altri sono previsti a causa del franco forte, il ministro si è detto rammaricato «per ogni impiego che deve essere sacrificato a causa di questa situazione», ma ha aggiunto anche che è intenzione del governo, insieme alle parti sociali, «difendere i posti di lavoro in Svizzera». Ha anche ricordato che è già stata presa la decisione di introdurre la possibilità per le aziende in difficoltà di richiedere indennità per lavoro ridotto «da subito». Finora, ha aggiunto, la situazione è preoccupante ma non drammatica, non ci sono segnali che farebbero pensare di andare «in direzione di una forte recessione»; l'importante è che le parti sociali si avvicinino l'un l'altro, e ciò sta avvenendo.
Il governo federale non sta comunque ad aspettare inattivo l’evolvere della situazione. Già qualche settimana fa ha provveduto a una prima analisi, approvando un rapporto della Segreteria di Stato dell’economia (SECO), elaborato già prima dell’abolizione del tasso di cambio minimo, che pone le basi della nuova politica di crescita economica. «L’Esecutivo, si legge in un comunicato stampa, conferma gli orientamenti generali della propria strategia e intende promuovere ulteriormente la crescita economica, tutelare a lungo termine i posti di lavoro e la ricchezza nel nostro Paese».

Tutela dei posti di lavoro e formazione
Nell’ottica del governo svizzero, come si vede, la tutela dei posti di lavoro non è solo una componente di una politica sociale saggia specialmente in tempi di crisi, ma un fattore di crescita essenziale. In un Paese come la Svizzera senza materie prime e una situazione geopolitica non particolarmente favorevole, puntare soprattutto sulla qualificazione e la tutela del lavoro è fondamentale.
Il Consiglio federale ne è talmente convinto che considera la crescita economica come una delle condizioni essenziali proprio per tutelare i posti di lavoro e la ricchezza in Svizzera. Senza crescita sono a rischio i posti di lavoro. Pertanto il governo considera indispensabile continuare a creare «i presupposti migliori per un’economia prospera».
Uno di questi presupposti, che nella storia di questo Paese ha sempre goduto di un’attenzione particolare, è la formazione dei giovani. L’economia svizzera si regge principalmente sulla qualità della sua manodopera. Per questo in Svizzera è molto sviluppata la formazione, sia quella generale (dagli asili alle università), sia quella professionale (dalle varie forme di apprendistato alle scuole universitarie professionali e ai politecnici).
Il sistema di formazione professionale di base (caratterizzato da un apprendimento di tipo duale, teorico e pratico, a scuola e in azienda) è ben affermato da oltre un secolo, ma richiede continui adattamenti. Anche il sistema di formazione professionale superiore è ormai ben collaudato e diffuso in tutte le regioni della Svizzera. Il governo intende svilupparlo ulteriormente perché sa bene che l’economia svizzera potrà crescere solo investendo maggiormente nell’innovazione e nella ricerca e che solo un’economia florida e competitiva potrà garantire a lungo termine i posti di lavoro.

Aumentare la produttività del lavoro
Un altro presupposto per la crescita è la produttività del lavoro. Questa è infatti non solo un fattore importante per stabilire il reddito pro capite (maggiore produttività = più reddito), ma anche un elemento determinante per la competitività delle imprese. Per questo motivo il Consiglio federale, si legge nello stesso comunicato, «attribuisce la massima priorità all’aumento della produttività», non solo perché «ritiene che una politica economica sostenibile e lungimirante deve mirare all'aumento costante del reddito pro capite», ma evidentemente anche per rafforzare la competitività dell’economia svizzera.
Il Consiglio federale non fa riferimento esplicito alle difficoltà che le imprese svizzere incontrano già oggi e che potrebbero incontrare maggiormente domani in Europa (se non verrà trovata una soluzione al problema della limitazione della libera circolazione posto dalla votazione del 9 febbraio 2014 sull’immigrazione di massa) ma evidentemente si tratta di una preoccupazione a cui non può sottrarsi.
In effetti l’attenzione del governo sembra alta e i rimedi che intende adottare efficaci. Dopo aver individuato che tra gli ostacoli che frenano gli sviluppi della produttività e dunque la crescita ci sono, ad esempio, come si legge nello stesso comunicato, «la prassi amministrativa e gli elevati costi di regolazione a carico delle imprese», ossia i costi della burocrazia, ma anche «la scarsa disponibilità di personale qualificato», il governo sembra intenzionato a intervenire su più fronti. Su uno sicuramente, quello dello sviluppo del personale qualificato, formato all’interno o reclutato all’estero. Ma è probabile che prossimamente interverrà anche sullo snellimento delle pratiche burocratiche come pure sugli stimoli alle imprese che intendono approfittare degli spiragli che i mercati esteri continuano ad offrire.

Difficoltà con l’Unione europea
Doris Leuthard
Le maggiori preoccupazioni del Consiglio federale, non sempre pubblicamente manifestate, sembrano tuttavia riguardare i difficili rapporti con l’Unione europea (UE). Il mercato di gran lunga più importante per le imprese svizzere è infatti quello europeo, che però sembra porre non poche difficoltà. La settimana scorsa i media hanno dato rilievo, ad esempio, al «piccolo spiraglio» per l’accesso della Svizzera al mercato europeo dell’elettricità, ma la consigliera federale Doris Leuthard ha riferito che «Bruxelles mette enorme pressione sui tempi». Da mesi i media non fanno che sottolineare le condizioni molto severe che l’UE impone a tutte le trattative bilaterali con la Svizzera a causa della votazione del 9 febbraio 2014.
Nessuno osa predire come finirà questa specie di braccio di ferro. Eppure basterebbe invertire l’ordine delle considerazioni. Perché invece di partire dai punti che separano le posizioni dell’una e dell’altra non si comincia a ragionale dai punti che per entrambe sono fondamentali e irrinunciabili, in una prospettiva veramente europea? Risulterebbe ad esempio evidente che come la Svizzera non potrebbe sopravvivere se non miseramente isolata dall'Europa, così l’Unione europea diventerebbe un controsenso senza la Svizzera.
Basterebbe anche solo pensare che tutto il processo di «Unione europea» mirante a una sorta di Stati Uniti d’Europa è stato ispirato dal modello della Confederazione Svizzera. Quando nel dopoguerra il progetto Europa era molto dibattuto, alla domanda pregiudiziale «Che cos’è l’Europa», Karl Jaspers, il filosofo tedesco, fuggito dalla Germania nazista per rifugiarsi in Svizzera, aveva detto nel corso di una risposta molto articolata anche questo: «Europa è la democrazia d’Atene, della Roma repubblicana, degli Svizzeri, degli Olandesi, degli Anglosassoni. Non giungeremmo mai alla fine se volessimo elencare tutto ciò che è caro al nostro cuore: una ricchezza immensa dello spirito, della morale, della fede…». Era convinto che l’Europa era anche la Svizzera e la Svizzera era inconcepibile senza l’Europa.
Per avviare finalmente un dialogo proficuo e liberatorio da tanti pregiudizi, forse basterebbe ricuperare da entrambe le parti la coscienza storica europea e il senso di appartenenza a un sistema comune di valori essenziali e intramontabili, che può garantire il futuro non solo alla Svizzera ma anche all’Europa.
Giovanni Longu
Berna 4.2.2015

28 gennaio 2015

Italia: Presidente della Repubblica tra visioni e speranze


In Italia, l’attuale dibattuto sul Presidente della Repubblica non è limitato alla ricerca del prossimo inquilino del Quirinale, ma sta innescando una riflessione politica sul tipo di Stato che maggiormente converrebbe al Paese. Evidentemente per essere eletto Presidente non basta essere un cittadino di oltre cinquant’anni in possesso dei diritti civili e politici (così prescrive la Costituzione all’articolo 84). Le sue funzioni sono infatti molto impegnative e richiedono in chi sarà chiamato o chiamata ad esercitarle qualità umane e competenze di altissimo livello. Sarebbe perciò comprensibile e giustificata un’attenta valutazione da parte dei grandi elettori (deputati, senatori e rappresentanti regionali) per individuare la persona giusta al posto giusto ed eleggerla a maggioranza qualificata dei due terzi in uno dei primi tre scrutini.

Criteri di scelta: perché non l’elezione diretta?
Stando a quanto si legge e si sente nei media, sembrerebbe invece che la preoccupazione maggiore dei politici non sia tanto concentrata sulle qualità delle personalità che potrebbero entrare in linea di conto, quanto sulla loro appartenenza partitica o quantomeno sul loro orientamento politico e sul possibile ruolo che potrebbero assumere nella gestione dello Stato nell'attuale regime incentrato sulla partitocrazia.
C’è dunque da aspettarsi che la scelta avvenga non in base a criteri obiettivi di qualità, capacità, competenza, rappresentatività del Capo dello Stato, ma in base agli equilibri politici attuali e futuri (sperati) del Parlamento, ossia dei maggiori partiti. E siccome le forze politiche sono sempre schierate su fronti opposti, maggioranza e opposizione, nella scelta del nuovo Presidente sarà determinante il consenso della maggioranza (anzi del partito di maggioranza). Le opposizioni e le stesse forze minori della maggioranza, anche se nel Paese rappresentano insieme la maggioranza dei cittadini, finiranno per essere ininfluenti, a meno che non aggiungano voti a quelli del partito di maggioranza, magari in vista di qualche tornaconto.
Per evitare questi giochi di palazzo e, soprattutto, che il nuovo Capo dello Stato diventi una sorta di emanazione di una parte minoritaria del Paese, dal mio punto di vista sarebbe enormemente preferibile che l’elezione del Presidente della Repubblica avvenisse a suffragio universale. Si sarebbe così sicuri che essendo espressione della maggioranza degli italiani rappresenterebbe democraticamente «l’unità nazionale» (art. 87, primo comma della Costituzione) e potrebbe esercitare con maggiore autorevolezza dei suoi predecessori tutte le sue funzioni, quelle codificate e quelle di fatto esercitate finora dagli ultimi presidenti.
Perché allora non si interpellano direttamente i cittadini nella scelta del Capo dello Stato, visto anche che in tutti i sondaggi la maggioranza dei partecipanti preferirebbe la sua elezione diretta? E ancora, perché nell'ampio programma di riforme costituzionali dell’attuale governo non si accenna nemmeno alla riforma del Titolo II della Parte seconda riguardante il Presidente della Repubblica? Nessuno è forse in grado di dare una risposta soddisfacente, ma le ipotesi non sono tante. O non si ritiene tale riforma prioritaria o non la si ritiene opportuna e utile, almeno per ora.

Che tipo di Presidente intende Renzi?
Secondo me la riforma della Presidenza della Repubblica è solo rinviata perché si vuole dapprima portare in porto la riforma del Senato e del Titolo V sempre della Parte seconda (Regioni, Province, Comuni) e la legge elettorale, ma soprattutto perché s’intende nel frattempo rafforzare il ruolo del Presidente del Consiglio, come sta già avvenendo. Che questa sia una delle principali ambizioni di Matteo Renzi mi sembra evidenziato anche dall'alleanza di ferro (almeno finché non si rompe) per le riforme con Silvio Berlusconi, che è stato da sempre sostenitore di una semplificazione della struttura dello Stato, della priorità della governabilità sulla rappresentanza, del rafforzamento del ruolo del Presidente del Consiglio a scapito di quello del Presidente della Repubblica e altre riforme.
Coerentemente con questa impostazione sembra perciò preferibile a Matteo Renzi e ai suoi sostenitori non solo non alimentare l’idea di un presidenzialismo utile all’Italia, ma anche eleggere ora un Presidente della Repubblica di basso profilo, che non segua insomma le orme di Giorgio Napolitano (soprannominato spesso Re Giorgio per l’uso talvolta al limite della costituzionalità dei suoi poteri), ma rientri per così dire nei ranghi e al massimo faccia da garante della Costituzione, ma non da arbitro della vita politica. Questa dovrà essere determinata, se andrà in porto la legge elettorale in discussione, dalle espressioni del partito che vincerà le elezioni. E’ dunque preferibile, nella prospettiva suesposta, che al nuovo Presidente della Repubblica non sia lasciato troppo spazio nel processo delle riforme, nell'attività del governo, nella politica estera, ecc.
In questa prospettiva si vorrebbe, insomma, una figura di garanzia, ma depotenziata rispetto agli ultimi inquilini del Quirinale. Il grande manovratore dovrebbe continuare ad essere l’attuale Presidente del Consiglio Matteo Renzi, che pur avendo ricevuto da Napolitano ampio sostegno alle sue idee di riforma dello Stato ne ha dovuto subire anche il controllo. Tanto vale non rischiare col prossimo Presidente.

Verso un Cancellierato e una Presidenza della Repubblica alla tedesca?
Nell'ambito di queste speculazioni (perché certezze ovviamente non ce ne sono) si è visto la settimana scorsa un Renzi particolarmente a suo agio, nella sua Firenze, a fianco della cancelliera tedesca Angela Merkel in occasione dell’incontro bilaterale Italia-Germania. Era come se Renzi volesse mostrare all'illustre ospite non solo che l’Italia, Firenze in particolare, è bella e «sta facendo le riforme», ma anche che nel processo d’integrazione europea vuol contare di più, a fianco della Germania. La Merkel ha mostrato di gradire, anche perché ha trovato in Renzi non solo un interlocutore che ha smesso finalmente di parlar male del suo Paese, ma anche un convinto sostenitore dell’alleanza rinsaldata tra l’Italia e la Germania. TGCOM24 del 23 gennaio sintetizzava l’incontro con questo titolo: «Renzi, Merkel e l'inevitabile love story tra Italia e Germania».
Angela Merkel e Matteo Renzi
Renzi è riuscito a far incantare la sua omologa Merkel facendole visitare le bellezze straordinarie del capoluogo toscano e tenendo la conferenza stampa finale nientemeno che sotto lo sguardo, si fa per dire, dell’imponente David di Michelangelo nella Galleria dell’Accademia, ma soprattutto, forse, elencando la lunga serie di riforme già attuate o in via di attuazione, quelle ancora in discussione o appena abbozzate e persino quelle solo immaginate o sognate. Angela dev'essere stata colpita dalle visioni e dall'oratoria di Renzi, soprattutto quando ha detto che in Europa «insieme vogliamo difendere valori e ideali… Su questo mi impegno insieme ad Angela Merkel».
Non so se in quei momenti Matteo Renzi si sia sentito anche lui una specie di Cancelliere, ma deve aver goduto sicuramente quando la Cancelliera ha espresso tutta la sua fiducia nelle riforme dell’Italia. E chi può escludere che in qualche retropensiero Matteo abbia pensato che anche in Italia ci sarebbe solo da guadagnare se ci fosse una specie di Cancellierato e un Presidente della Repubblica alla tedesca.
Basterà comunque ancora qualche giorno di pazienza e l’arcano sarà chiarito. Non basteranno sicuramente giorni e mesi a portare l’Italia ai livelli della Germania in fatto di occupazione (specialmente quella giovanile), innovazione, competitività, moralità pubblica. E non dipenderà certamente dal Presidente della Repubblica!

Un buon presidente… come un direttore d’orchestra
Tanto varrebbe eleggere semplicemente un buon Presidente, che sappia svolgere i suoi compiti con spirito di servizio nell'interesse di tutti, ma soprattutto della democrazia e di quelli che hanno meno rappresentanza nei palazzi della politica. La Costituzione italiana non prevede un «primus inter pares», ma un «Primus super partes», anche se non vi figura questa espressione, perché come «Capo dello Stato» «rappresenta l’unità nazionale». Non ha propriamente «poteri», ma «funzioni». Queste dovrebbe svolgerle sempre nell'interesse generale. Tutti i suoi interventi non dovrebbero mai perder di vista questo obiettivo. Non solo, dovrebbe anche vigilare affinché tutte le istituzioni dello Stato operino con lo stesso spirito di servizio e nell'interesse comune.
Ho trovato molto pertinente l’immagine utilizzata dalla neopresidente della Confederazione svizzera per il 2015 Simonetta Sommaruga per caratterizzare il suo anno presidenziale (v. L’ECO del 21.1.2015), ma penso che possa esprimere bene anche le funzioni del Presidente della Repubblica Italiana.
Intanto la neopresidente Sommaruga, nel suo discorso d’insediamento, ha posto al centro delle sue attenzioni la democrazia diretta, non come omaggio formale al «sovrano», come qui si usa spesso chiamare il Popolo, ma come doveroso rispetto della volontà popolare, che si esprime sia attraverso le istituzioni e sia direttamente attraverso votazioni ed elezioni.
Rivolgendosi poi a tutti indistintamente, istituzioni e Popolo sovrano, ha visto il suo ruolo presidenziale come una specie di direttore d’orchestra che ha come unico obiettivo quello di far sì che i singoli componenti dell’orchestra si esprimano in armonia e contribuiscano a creare l’armonia, il benessere generale.
Vedrei bene anch'io il prossimo Presidente della Repubblica come un grande direttore d’orchestra, autorevole ma non autoritario, ascoltato e rispettato, capace di interagire, senza nulla imporre, col governo, col Parlamento, ma anche col coro dei cittadini, sottostimato e trascurato. Anzi, tutto dovrebbe partire dal popolo, dall'ascolto delle sue richieste e dei suoi bisogni, per cercate soluzioni condivise, guardando non solo all'oggi ma anche al domani, in Italia, in Europa e nel Mondo. Se il prossimo Presidente saprà creare armonia nelle istituzioni stimolandole a far meglio i loro compiti per il benessere generale… sarà un grande Presidente.

Giovanni Longu
Berna, 28.01.2015 (In realtà questo articolo è stato scritto il 24.1.2015)

27 gennaio 2015

Giorno della memoria: perché ricordare?


Erano trascorsi 60 anni dalla liberazione del campo di sterminio nazista di Auschwitz (27 gennaio 1945 ad opera delle truppe sovietiche dell’Armata Rossa) quando l’Assemblea delle Nazioni Unite, nel 2005, decise di dedicare ogni anno la data del 27 gennaio al ricordo dello sterminio del popolo ebraico: Giorno della Memoria. Voleva che questo ricordo, che si andava affievolendo, restasse per sempre impresso nella memoria collettiva quale monito contro ogni tipo di genocidio. Dalla liberazione dei superstiti di Auschwitz sono ormai trascorsi 70 anni e quel ricordo, anche se indiretto, è sempre vivo nello spirito di chi ama la libertà e odia la barbarie.
L'ingresso del campo di sterminio di  Auschwitz con la
famigerata scritta: Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi

Ho avuto l’opportunità di visitare, parecchi anni fa, il campo di concentramento di Dachau, vicino a Monaco di Baviera, e il campo di sterminio di Auschwitz, vicino a Cracovia in Polonia (dal 1979 Patrimonio dell'Umanità protetto dall'UNESCO). Li ho visitati entrambi insieme a un grande studioso delle atrocità naziste, un polacco, Stanisłav Musiał, scomparso da qualche anno.
Di Dachau mi diceva che quel poco ch’era rimasto non dava l’idea di quel ch’era stato in realtà quel Lager, perché i tedeschi ormai schiacciati dagli eserciti alleati, erano riusciti a distruggere gran parte delle prove materiali delle loro atrocità prima che giungessero i soldati anglo-americani e russi. 
Di Auschwitz provava orrore, perché in quel campo di sterminio erano morti alcuni suoi parenti. Anche da quel campo i tedeschi ormai prossimi alla disfatta cercarono di far scomparire gran parte delle installazioni che erano servite per eliminare oltre un milione di esseri umani. Lo stesso fecero in tutti i Lager abbandonati.
Cortile del blocco 11 col «muro della morte»
Per chi vuole esiste comunque una documentazione enorme che non lascia spazi al dubbio sull’efferatezza del genocidio e della barbarie nazista. Sulla base delle informazioni degli archivi e dei racconti dei sopravvissuti sono stati realizzati anche film giustamente famosi come, uno per tutti, quello di Steven Spielberg Schindler’s list (La lista di Schindler). E molti sono anche i luoghi testimoni dell’olocausto, soprattutto in Polonia, ad esempio, oltre ad Auschwitz, Bełżec, Chełmno, Sobibór, Treblinka, ecc. Insomma, quanto basta perché una persona onesta si renda conto di ciò che è stato fatto e di ciò che mai più dovrebbe succedere, anche in scala ridotta.

Forni crematori distrutti dalle SS prima di
fuggire (1945) 
e ricostruiti nel dopoguerra

Ricordare non significa infatti solo lasciare che la memoria riconosca attraverso immagini e luoghi quanto è stato commesso più di 70 anni fa, ma anche le cause soprattutto ideologiche che l’hanno provocato. In particolare, la pretesa superiorità di una razza (quella ariana) e di un popolo (quello tedesco) sul resto dell’umanità, tanto da far scatenare una «guerra totale» e lo sterminio di intere popolazioni («soluzione finale»).

Perché sia efficace, tuttavia, questa riflessione va attualizzata e personalizzata, come suggerisce Vittorio Foa nell’introduzione al libro di Primo Levi (ex deportato e sopravvissuto) «Se questo è un uomo»: «Sorgono allora delle domande: perché dobbiamo ricordare? E che cosa bisogna ricordare? Bisogna ricordare il Male nelle sue estreme efferatezze e conoscerlo bene anche quando si presenta in forme apparentemente innocue: quando si pensa che uno straniero, o un diverso da noi, è un Nemico si pongono le premesse di una catena al cui culmine, scrive Levi, c’è il Lager, il campo di sterminio».
Berna 27 gennaio 2015

Giovanni Longu