Periodicamente la discussione sull'italiano in Svizzera dapprima si anima, poi si assopisce e per mesi è come se andasse in letargo. Adesso, come se sentisse l’avvicinarsi della primavera, comincia a rianimarsi. In queste ultime settimane (e non certo solo a causa della votazione dell’8 marzo scorso nel semicantone di Nidvaldo) diversi organi di stampa, la radio e la televisione hanno ripreso a fornire notizie sullo stato di salute del plurilinguismo e specialmente della lingua di Dante in questo Paese, dove da decenni ormai è data per gravemente malata, almeno nella Svizzera tedesca e francese.
Paesaggio linguistico svizzero (2000) |
Finora le informazioni non facevano che attestare
l’aggravarsi della malattia, ora invece segnalano anche qualche leggero
miglioramento e soprattutto una maggiore consapevolezza da parte delle autorità
federali sulla necessità e urgenza di rinforzare il plurilinguismo non solo
nell'amministrazione federale ma anche nell'intero Paese. Nel complesso,
tuttavia, le notizie non sono incoraggianti per il venir meno di alcune
condizioni che avrebbero potuto rendere più efficaci i numerosi interventi oggi
messi in atto da attori diversi in favore del plurilinguismo e dell’italiano.
Anche la buona notizia sul miglioramento della situazione nell'amministrazione
federale non basta, come si vedrà, a indurre all'ottimismo.
Miglioramenti nell'amministrazione federale
E’ comunque un fatto positivo che la Confederazione, di
fronte al deterioramento del plurilinguismo costatato in questi ultimi decenni,
abbia deciso d’intervenire cominciando col dare l’esempio al suo interno,
nell'amministrazione federale. Resta naturalmente il rammarico che avrebbe
dovuto intervenire prima e di propria iniziativa, mentre è stata praticamente
costretta ad agire dopo le forti sollecitazioni soprattutto della Deputazione
ticinese alle Camere federali, dell’intergruppo parlamentare «Italianità»
e di associazioni a carattere nazionale come Helvetia Latina, Coscienza
svizzera e il Forum per l’italiano.
Sta di fatto che oggi si assiste a una più equa rappresentanza
delle comunità linguistiche tra il personale della Confederazione (con una
buona progressione proprio degli italofoni), alla pubblicazione dei bandi di
concorso anche in italiano, alla pubblicazione della maggior parte dei testi
ufficiali e delle informazioni emananti dalle istituzioni federali anche in
italiano, a una maggiore diffusione di un plurilinguismo attivo e passivo tra
il personale della Confederazione a tutti i livelli.
Credo tuttavia che nemmeno nell’amministrazione federale si
riuscirà mai a garantire un perfetto trilinguismo: l’italiano sarà sempre
marginale. Anche se venisse raggiunto l’obiettivo indicato nell’Ordinanza sulle
lingue (2010) del 7% (aggiornato in seguito al 6,5%-8,5%) della componente
italofona, questa non costituirebbe in alcun modo una massa critica sufficiente
per garantire un trilinguismo perfetto o anche solo per rendere effettivo il diritto
degli italofoni all’uso dell’italiano come lingua di lavoro (come previsto
dalla stessa ordinanza).
I tre pilastri vacillano
Ma fuori dell’amministrazione federale, in che stato si
trova l’italiano? Non mi sembra purtroppo rassicurante. Fino a qualche decennio
fa i tre pilastri su cui l’italiano poteva contare per la sua sopravvivenza era
l’associazionismo degli immigrati italiani, i corsi di lingua e cultura che
venivano organizzati per i loro figli e l’insegnamento dell’italiano nella
scuola pubblica e all’università di molti Cantoni. Oggi questi tre pilastri
sembrano vacillare.
L’associazionismo tradizionale sta scomparendo perché
con l’esaurirsi dell’immigrazione del dopoguerra fino agli anni Settanta non è
più in grado di rinnovarsi per poter interpretare i cambi di mentalità e di
bisogni tipici delle nuove generazioni. I giovani di seconda e terza generazione
non parlano più anche tra di loro l’italiano, figurarsi se hanno bisogno delle
vecchie associazioni troppo legate al passato dei ricordi (spesso dei tempi
peggiori) e al godimento della pensione. All’ordine del giorno dei loro incontri
non vengono quasi mai tematizzati la nuova immigrazione, l’integrazione
professionale, sociale e politica, i rapporti intergenerazionali, la
valorizzazione della lingua italiana, ecc.
I corsi di lingua e cultura, il secondo pilastro,
sembrano incontrare molti problemi, soprattutto finanziari (perché la revisione
della spesa pubblica italiana, la cosiddetta spending review, non ha
risparmiato nemmeno i corsi all’estero), ma anche e forse soprattutto, di carattere
identitario (cosa sono, che funzione svolgono) e di prospettiva (ha ancora
senso il loro carattere strettamente «italiano», nella gestione, nel
finanziamento, nel controllo, nell’ottica di una sempre maggiore integrazione?
Che prospettiva di sopravvivenza hanno?).
Il terzo pilastro, quello dell’insegnamento dell’italiano
nella scuola pubblica e all’università, è da alcuni anni messo in grosse
difficoltà dall’incertezza di numerosi Cantoni (competenti in materia
d’insegnamento) su quale lingua «straniera» insegnare soprattutto nella scuola
dell’obbligo. La concorrenza dell’inglese diviene sempre più insuperabile. Anche
a livello universitario l’incoraggiamento all’uso dell’italiano (e più in
generale delle lingue nazionali) è sempre più scarso, mentre trova influenti
sostenitori (penso ai rettori dei due politecnici federali di Zurigo e di
Losanna, al rettore dell’Università di Basilea e ad altri ancora) l’uso
dell’inglese, soprattutto negli insegnamenti scientifici.
E’ possibile migliorare la situazione?
A ben vedere, realisticamente, questi tre pilastri su cui
l’italianità al di fuori dell’amministrazione federale poteva contare
solidamente si stanno rivelando fragili e insicuri. Le possibilità di
un’inversione di tendenza sono scarse. Alcune associazioni, radicate da decenni
nel tessuto migratorio italiano, potrebbero ancora rinnovarsi se oltre al gioco
delle carte, alla festa annuale e a passatempi vari ampliassero la loro offerta
all’organizzazione di conferenze, dibattiti, proiezioni, rappresentazioni
teatrali, esposizioni, letture, visite guidate, escursioni, corsi ecc. Ma
saranno davvero capaci di rinnovarsi?
Sui corsi ho già espresso in più occasioni la mia opinione:
possono avere ancora senso e un futuro solo se integrati nell’offerta ordinaria
delle istituzioni scolastiche svizzere e da queste gestite, eventualmente
concordando una qualche forma di partenariato con le rappresentanze consolari
italiane. Credo che l’Ambasciata dovrebbe farsi carico di un’aperta discussione
in merito, nel contesto di un processo ormai irreversibile d’integrazione, in
cui anche l’Italia avrebbe il suo tornaconto se venissero garantite
all’italiano e all’italianità buone prospettive di sopravvivenza e perfino di
sviluppo.
Circa l’insegnamento delle lingue nazionali nei Cantoni le
difficoltà sono tante e complesse. Solo un accordo politico intercantonale
potrebbe evitare che ciascun Cantone decida autonomamente senza tener conto del
dettato costituzionale che impone di realizzare un’armonizzazione degli
obiettivi nell'insegnamento delle lingue. E’ tuttavia possibile che la
Confederazione finisca per esercitare la sua influenza garantita dalla
Costituzione federale all’articolo sulle lingue (art. 70), ove si precisa che
«la Confederazione e i Cantoni promuovono la comprensione e gli scambi tra le
comunità linguistiche». Ma lo farà? E come reagiranno i Cantoni sovrani? Difficilmente
invece interverrà nell'autonomia del sistema universitario per frenare l’utilizzazione
crescente dell’inglese, anche perché si tratta ormai di una tendenza quasi
planetaria.
Intervento politico, necessario ma insufficiente
Resta il fatto che se la politica svizzera non interverrà decisamente
per riaffermare il principio del plurilinguismo (per esempio, privilegiando
l’insegnamento delle lingue nazionali nelle scuole pubbliche) e non incoraggerà
convintamente l’offerta di corsi d’italiano soprattutto nelle scuole
dell’obbligo e nei licei, la coesione e l’identità nazionale rischieranno di
indebolirsi ulteriormente.
Eveline Widmer-Schlumpf |
E’ pertanto auspicabile che il plurilinguismo, uno degli
emblemi più prestigiosi della Svizzera, e la salvaguardia dell’italiano e
dell’italianità siano garantiti a livello politico, anche nell'ottica di un
Paese che deve continuamente lottare per la sua compattezza e identità
nazionale.
L’italiano in particolare si è dimostrato fin dal 1848 un
fortissimo collante. Non per nulla l’italiano è ancorato saldamente nella
Costituzione federale come lingua nazionale e lingua ufficiale. Ma non basta,
dev'essere anche vissuto nella società e praticato a tutti i livelli. Una sfida
difficile, ma che non andrebbe lasciata cadere. Oltretutto, come ha osservato
recentemente la consigliera federale Eveline Widmer-Schlumpf, chi conosce
almeno due lingue, segnatamente all'interno di una impresa, ha un grande
vantaggio anche economico.
Il contributo di tutti
Alla domanda se sia ancora possibile migliorare la
situazione, la risposta non può essere che affermativa, ma a una condizione,
che ciascuno faccia la sua parte: la politica, la Confederazione, le
associazioni, gli italofoni. Senza il contributo di tutti l’impresa appare
disperata. In questo momento vorrei sottolineare in particolare il necessario
contributo delle istituzioni italiane, in primis dell’Ambasciata e dei consolati
italiani.
E’ triste, per me, costatare che quasi sempre nei resoconti dei
media e nelle discussioni su questa problematica è quasi sempre assente il
punto di vista «italiano». Eppure proprio l’Italia dovrebbe avere tutto
l’interesse a salvaguardare l’italianità della Svizzera, per i fortissimi
legami storici, linguistici, culturali, turistici, commerciali tra i due Paesi
confinanti. Basterebbe qui ricordare che l’Italia è per la Svizzera il secondo
partner commerciale dopo la Germania e uno dei principali partner in molti
altri campi.
Oltretutto l’italianità è un patrimonio costruito con la
partecipazione tutt’altro che irrilevante di milioni di immigrati italiani, che
andrebbe preservato e valorizzato. Come può l’Italia, a caccia di miliardi
provenienti dalla Svizzera, dimenticarsi di questo ben più importante capitale
storico e culturale? E come può la rappresentanza diplomatica italiana in Berna
non farsi promotrice di interventi coordinati e duraturi per la valorizzazione
di questo patrimonio di cui andar legittimamente fieri?
Giovanni Longu
Berna, 11.03.2015
Berna, 11.03.2015
Se Sparta piange Atene non ride.
RispondiEliminaLa lingua di Dante è in grave agonia anche nella penisola. I vocaboli diminuiscono di giorno in giorno lasciando il posto al prepotente verbo fare, di fatto e fra poco anche di diritto, terzo verbo ausiliare al pari con essere ed avere. Dizione, ortoepia, fonetica e proprietà del discorso sono ormai proprietà sconosciute, ultimi e strenui difensori gli attori di teatro ed i doppiatori dei documentari, non tutti. E non può essere altrimenti che così. Il linguaggio si tiene vivo e si migliora colloquiando e per colloquiare bisogna essere in due e se a uno dei due poco interessa la lingua trascina con sè anche l'altro. A dire il vero ci sono persone che parlano un italiano alquanto ricco: spessissimo con accento pesante ma ci sono. Sono forestieri.
Antonino Alizzi