01 maggio 2025

Primo Maggio: donne sempre in prima fila

Credo che tutti sappiano che la festa del Primo Maggio è nata in America, a Chicago (Illinois), nel 1867, quando fu data applicazione a una legge approvata l’anno precedente con cui si limitava il tempo di lavoro a otto ore giornaliere. La legge concerneva tutti, lavoratori e lavoratrici, ma a farla propria furono soprattutto i primi perché era l’epoca della rivoluzione industriale e nelle fabbriche e nei cantieri c’erano soprattutto lavoratori. Quando la notizia arrivò in Europa i socialisti tentarono di impadronirsene, suscitando però non poche opposizioni negli ambienti del nascente movimento femminista.

Femminismo sì, ma non «rivoluzionario

L’aspirazione a una società in cui le donne non fossero in alcun modo discriminate era molto sentita in tutti i Paesi europei e in ognuno di essi dalla secondo metà del XIX secolo cominciarono a nascere associazioni di donne per rivendicare i loro diritti. Per esempio, all’interno della Lega per la pace e la libertà, che era stata creata a Ginevra nel 1867 ed era dominata dall’Associazione internazionale dei lavoratori, le donne pretesero una sezione femminile: l’Associazione internazionale delle donne, proposta, realizzata e guidata per diversi anni da Marie Goegg Pouchoulini, allora redattrice del periodico della Lega intitolato Les Etats-Unis d'Europe, Stati Uniti d’Europa.

Non è il caso di ripercorrere anche solo sommariamente le tappe del movimento femminista, ma non si può ignorare che fin dai suoi inizi le donne hanno voluto essere in prima fila nelle lotte per il rispetto della loro dignità e l’affermazione dei loro diritti, anche in Svizzera. Basti pensare che già l’Associazione internazionale delle donne, mirava al raggiungimento della parità fra i sessi nella formazione, nella vita professionale e sul piano del diritto civile e del diritto del lavoro. Un’altra associazione, l'Unione delle donne svizzere per la promozione della moralità (e specialmente per combattere la prostituzione), sorta nel 1877 per iniziativa di svizzere riformate, rivendicava oltre a una riforma morale anche maggiori diritti per le donne. La Società femminile svizzera di utilità pubblica, sorta nel 1888, si batté per la formazione professionale delle donne e aprì a Zurigo una scuola per infermiere e a Niederlenz una scuola femminile di giardinaggio.

A imprimere in Europa un’accelerazione alle lotte femministe sono state soprattutto alcune donne rivoluzionarie russe come Anna Kuliscioff, Angelica Balabanoff, Alexandra Kollontai e altre, ma non a tutte le donne, in Occidente, piaceva il femminismo russo, perché rivoluzionario e spesso intriso di marxismo e anticlericalismo. In Svizzera, per esempio, non piaceva all'Unione popolare cattolica svizzera, che nel 1912 fondò l'Unione svizzera delle donne cattoliche per proseguire le rivendicazioni sulla morale e l'utilità pubbliche. Il femminismo rivoluzionario non piaceva neanche alle associazioni di operaie cristiano-sociali, fondate nel 1899, che alla lotta di classe preferivano le riforme condivise.

Femminismo riformista

Il femminismo rivoluzionario non piaceva però neppure alla Federazione svizzera delle lavoratrici, che nel 1911 festeggiò per la prima volta la giornata internazionale socialista della donna (precorritrice dell'8 marzo) per rivendicare pacificamente il suffragio femminile. Prima di ottenerlo passeranno ancora parecchi decenni, ma nel frattempo andavano migliorando costantemente anche per le donne la sicurezza sul lavoro, il trattamento salariale, la formazione professionale, ecc.

A giusta ragione oggi si può dunque festeggiare, in Svizzera come altrove, anche se la strada per la piena uguaglianza non solo sul lavoro ma anche nella società sembra ancora lunga. Si deve però essere certi che le donne saranno ancora e sempre in prima linea per rivendicare una società più giusta, più libera e più umana, ma soprattutto per attuare le riforme che a gran voce le donne, ma anche molti uomini, reclamano per sé e per tutti. E' il caso di dire, parafrasando quanto andava dicendo papa Francesco, che ci si salva solo insieme, non gli uni contro gli altri.

Giovanni Longu
1° maggio 2025

25 aprile 2025

LIBERAZIONE da che cosa? Per fare che cosa?

Nella celebrazione del 25 aprile, in cui si celebra l’80° della Liberazione si corre facilmente il rischio di «ricordare», non senza un pizzico di orgoglio, quel che è avvenuto in Italia 80 anni fa, raccontando atti di eroismo dei partigiani e di chi ha contribuito, insieme agli Alleati, alla liberazione dell’Italia dalla sopraffazione nazifascista. Si ricorda anche, giustamente, il forte desiderio del popolo italiano di riavere le libertà democratiche che il regime aveva soppresso.

In questa parte rievocativa la retorica gioca sempre un ruolo importante, perché ai lettori o ascoltatori piacciono i racconti delle lotte per la libertà, degli atti eroici di partigiani mal equipaggiati contro eserciti ben armati, della sollevazione corale delle città come dei piccoli centri, del mito della Resistenza. Poche rievocazioni, invece, raccontano come la Liberazione sia avvenuta, quanto odio e desiderio di vendetta l’abbia accompagnata, la guerra civile, quanto sangue sia stato versato, quanto sia stato difficile ritornare alla (quasi) normalità.

Ciò che solitamente si dimentica di più è tuttavia di rispondere in maniera se non esaustiva almeno sufficientemente completa alla domanda fondamentale: «per fare che cosa?”: perché si è combattuto con armi impari? perché si è versato tanto sangue? perché si sono sollevate in forma corale tutte le popolazioni dell’Italia occupata? Eppure una risposta c’è, anche se non è semplice: certamente per ridare agli italiani la libertà, per far rivivere in Italia la democrazia, per dare al popolo italiano una Costituzione antifascista, ma anche per garantire a tutti il diritto al lavoro, il diritto fondamentale alla salute, l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, la pari dignità senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

In molte rievocazioni pubbliche della Liberazione si dimentica o si accenna appena alle domande precedenti perché alcune risposte risulterebbero insoddisfacenti. Basti pensare, per fare un esempio, al diritto al lavoro e all'incapacità di tutti i governi che si sono succeduti di garantirlo. Si dovrebbe spiegare perché milioni di italiani sono dovuti emigrare per avere un lavoro e una dignità. Oggi, è vero, molte disparità si sono attenuate o sono addirittura scomparse, ma altre sono riemerse forse accentuandosi. La povertà in Italia oggi è forse più stridente di 80 anni fa. Il diritto allo studio non è affatto garantito per tutti in ugual misura. La stessa democrazia, invece di garantire una reale partecipazione del popolo a stabilire le sorti del Paese (sovranità popolare), è diventata vittima di schieramenti illiberali contrapposti. La libertà del dissenso è fortemente limitata. Gli esempi potrebbero essere molti di più.

In conclusione, forse bisognerebbe trasformare la celebrazione della Liberazione almeno con l’aggiunta di un attento esame di coscienza, delle istituzioni e dei cittadini, perché gli obiettivi non sono stati affatto raggiunti se non in misura minimale.

Giovanni Longu

23 aprile 2025

1915: Conferenza di Zimmerwald (5-8.9.1915)

Prima di trattare di una delle più gravi conseguenze indirette della prima guerra mondiale, l’avvento del Fascismo in Italia, mi sembra opportuno ricordare un evento poco noto organizzato 110 anni fa in Svizzera, a cui parteciparono numerosi socialisti europei: la Conferenza di Zimmerwald o Prima conferenza internazionale socialista. Essa viene qui rievocata non tanto per evidenziare un incontro che pur avendo avuto un certo seguito non raggiunse gli obiettivi che si proponeva, soprattutto quello di fermare la guerra, quanto piuttosto per ricordare che all'inizio del secolo scorso il socialismo riusciva ad aggregare in Svizzera molti immigrati (spesso in competizione con le Missioni cattoliche bonomelliane) e servì a gettare ponti con la sinistra organizzata svizzera, che sosteneva fra l’altro politiche immigratorie progressiste.

Perché in Svizzera?

Perché la Svizzera, nonostante fosse fin dal 1815 neutrale e attenta a mostrarsi come tale, era anche un Paese molto accogliente nei confronti di stranieri rivoluzionari, anarchici, perseguitati, rifugiati politici. Si sa che furono molti ad approfittarne a cominciare da Giuseppe Mazzini, Michail Bakunin, tedeschi, italiani, polacchi, russi, ecc. Alla vigilia della prima guerra mondiale erano migliaia gli esuli che avevano trovato rifugio nella Confederazione. Alcuni sono ancora oggi famosi come Wladimir Uljanow Lenin o Lev Trotskij, altri sono meno noti come Luigi Bertoni, Anna Kuliscioff, Angelica Balabanoff, ecc.

In Svizzera tenevano incontri, conferenze, congressi, stampavano libri e riviste, anche se la Confederazione esercitava su di essi una discreta sorveglianza. Gli interessati a questi personaggi e agli eventi che li hanno visti come protagonisti in Svizzera, osserveranno facilmente che i nomi più ricorrenti riguardano uomini. Sarebbe tuttavia sbagliato concludere che la scarsa frequenza di nomi dell’altro sesso corrisponda a una scarsa influenza delle donne su quegli eventi. Esse furono infatti non meno protagoniste degli uomini, come risulterà da un prossimo articolo, benché le cronache e le successive rievocazioni storiche abbiano riservato loro meno spazio e meno importanza, anche nella storia dell’immigrazione.

Per rispondere alla domanda «perché in Svizzera?» bisogna anche ricordare che la classe colta russa conosceva bene la Svizzera e i rapporti bilaterali erano consolidati ormai da secoli. Del resto era una consuetudine frequente che molte ragazze russe, che non potevano proseguire gli studi universitari nella Russia autocratica zarista, s’immatricolassero nelle università svizzere. Per esempio, nel semestre invernale 1906-1907 negli atenei svizzeri risultavano immatricolati, accanto a 2660 studenti svizzeri (maschi e femmine), 2322 russi (maschi e femmine), ma mentre le studentesse svizzere erano appena 172, quelle russe erano ben 1507.

Va anche ricordato che gli eventi russi successivi al 1917 furono in gran parte preparati all'estero, come dimostra facilmente la biografia di Lenin, che trascorse in Svizzera circa sei anni e mezzo, prima di rientrare nel 1917 a San Pietroburgo per prendere la guida delle Rivoluzione (cfr. articolo del 19 marzo 2025).

Perché Zimmerwald?

Anche a questa domanda la risposta è semplice. Siccome la Svizzera neutrale non voleva che sul suo territorio si organizzassero eventi che avrebbero potuto creare difficoltà diplomatiche, gli organizzatori svizzeri guidati da Robert Grimm cercarono un luogo piuttosto appartato e di non facile accesso, soprattutto allora. Zimmerwald dev'essere apparso un luogo ideale (come lo sarà l’anno seguente per il seguito della conferenza Kiental, pure nel Cantone di Berna). 

Angelica Balabanoff (1878-1965)
Per precauzione, tuttavia, la piccola carovana di rappresentanti di diversi partiti socialisti europei, prima di partire da Berna dove si erano dati appuntamento sparsero la voce di voler partecipare a un incontro di ornitologia in quanto rappresentanti di un’associazione ornitologica. Trotsky ricorderà quel breve viaggio in quattro carrozze con un po’ d’ironia, facendo notare che mezzo secolo dopo la fondazione della Prima Internazionale «tutti gli internazionalisti potevano entrare in quattro carrozze».

Zimmerwald era ed è tuttora un piccolo villaggio del Cantone di Berna, che acquistò notorietà dopo la conferenza, che si tenne dal 5 all'8 settembre 1915, alla quale aveva partecipato una folta delegazione russa di cui facevano parte fra gli altri Lenin (1870-1924) e Lev Trotsky (1879-1940). Del Partito socialista italiano parteciparono solo esponenti contrari alla guerra come Angelica Balabanoff (1878-1965), Oddino Morgari Giuseppe Emanuele Modigliani,  Costantino Lazzari e Giacinto Menotti Serrati.

Di Angelica Balabanoff, personaggio chiave del socialismo italiano e delle conferenze internazionali di Zimmerwald e Kienthal (1916) si parlerà ancora in altro articolo. Qui basti ricordare che per alcuni anni fu anche di grande sostegno all’immigrazione italiana in Svizzera operando da quella centrale zurighese che fu il Ristorante «Cooperativo». Era però anche una rivoluzionaria che non esitava a criticare le condizioni di lavoro e di vita soprattutto dei lavoratori immigrati. Ritenuta una «pericolosa bolscevica» e una minaccia alla pace sociale, nel 1918 fu espulsa dalla Svizzera applicando l’articolo 70 della Costituzione federale allora vigente, che prevedeva l’espulsione dal territorio svizzero di quelle persone «che mettono a pericolo la sicurezza interna od esterna della Confederazione».

Bisogna anche aggiungere che la Balabanoff, marxista e anticlericale, criticava aspramente non solo le istituzioni svizzere, ma anche alcune organizzazioni che operavano in ambito sociale e religioso in favore degli immigrati, specialmente le Missioni cattoliche avviate da Monsignor Geremia Bonomelli (1831-1914), contrapponendo di fatto il Socialismo («la nostra grande utopia») marxista al Cattolicesimo e inimicandosi una parte consistente degli immigrati italiani.

La centrale di Zurigo

Per comprendere meglio l’ambiente degli immigrati italiani fino alla prima guerra mondiale è opportuno ricordare che negli ultimi decenni dell’Ottocento e nel primo decennio del Novecento gli immigrati italiani in Svizzera erano in forte crescita (nel decennio 1900-1910 gli italiani passarono da 116.693 e 202.809) e si concentravano soprattutto nelle grandi agglomerazioni. La maggiore concentrazione, escluso il Ticino, era quella del Cantone di Zurigo con rispettivamente 12.205 e 22.240 italiani.

Interno del mitico ristorante Cooperativo, abbellito da quadri di Comensoli
Bisogna aggiungere che a Zurigo i molti italiani sentivano fortemente l’esigenza di ritrovi, di ristoranti e centri di italianità, dove incontrarsi e stare insieme. Fu così che un gruppo di immigrati fondarono nel 1905 la Società Cooperativa Italiana di Zurigo con annesso un ristorante. Lo scopo della Cooperativa era di "rafforzare la Cooperazione Socialista", quello del ristorante di offrire pasti salutari e a buon mercato agli operai italiani.

Il Coopi o Copi, come veniva chiamato abitualmente, divenne un importante punto d’incontro non solo di italiani perché lo frequentarono socialisti, anarchici, politici e intellettuali di sinistra, provenienti da diversi Paesi europei. Tra i frequentatori più famosi ci sono stati Benito Mussolini, quando era ancora militante socialista, Giacomo Matteotti, Wladimir Uljanow Lenin Angelica Balabanoff, Antonio Gramsci, Filippo Turati, Pietro Nenni, Giuseppe Saragat, Ignazio Silone, Bertolt Brecht, Max Frisch. In tempi più recenti erano di casa anche il grande sindacalista svizzero Ezio Canonica, il pittore italo-svizzero Mario Comensoli, politici come Dario Robbiani, l’ex Consigliere federale Moritz Leuenberger e molti altri personaggi della sinistra.

Il «Cooperativo» si dotò presto anche di una libreria e di un organo di stampa, L'Avvenire dei Lavoratori, molto diffuso (e ancora pubblicato, purtroppo solo sotto forma di newsletter) e, durante il regime fascista, fu l'unico foglio socialista italiano edito fuori dalla clandestinità. Oggi, purtroppo, anche la sede storica del Cooperativo ha chiuso i battenti.

Giovanni Longu
Berna 23.04.2025

 




22 aprile 2025

Papa Francesco: un pastore coraggioso

Papa Francesco (1936-2025) ci ha lasciato il 21 aprile 2025, all'età di 88 anni, dopo averci dato la benedizione Urbi et Orbi e consegnato un ultimo messaggio pasquale, il giorno prima, Domenica di Pasqua. Non so con quali sostantivi e aggettivi sarà ricordato di preferenza, ma se dovessi sceglierne uno tra quelli che gli sono stati attribuiti finora la mia preferenza andrebbe a «pastore» e «coraggioso».

E’ stato infatti un pastore di anime che ha sempre cercato di custodire con coraggio il gregge che il Padre, tramite il Collegio cardinalizio, gli aveva affidato il 13 marzo 2013, dai molti lupi che hanno tentato in vari modi di dividerlo e trasformarlo in fazioni contrapposte, attribuendogli atteggiamenti mutuati dal linguaggio politico, senza rendersi conto che la Chiesa non è identificabile con alcun regime politico. Papa Francesco ha sempre difeso con convinzione il Popolo di Dio, non le sue prerogative di capo della Chiesa, addirittura rinunciando all'appartamento papale al terzo piano del Palazzo apostolico in Vaticano, preferendo la più modesta sistemazione nella Casa Santa Marta.

Egli è stato un pastore coraggioso perché ha ricordato ai fedeli e alla Chiesa non solo il cammino (come ricerca del senso della vita), talvolta difficile, doloroso, esigente (e su cui la pastorale tende a soffermarsi a lungo), ma anche la meta: la Salvezza, la Resurrezione, il Regno di Dio, «l’incontro con il Signore Gesù» (di cui si parla poco). In questa ottica papa Francesco ha voluto dedicare l’Anno Santo 2025 al tema «Pellegrini di speranza» perché «la speranza cristiana non illude e non delude, essendo fondata sulla certezza che niente e nessuno potrà mai separarci dall'amore divino».


Papa Francesco è stato un pastore coraggioso perché ha cercato di far capire al Popolo di Dio, che ci si salva camminando insieme, pregando insieme, sperando insieme, in comunione anche con gli altri cristiani non cattolici e persino con i non cristiani. Ha sottolineato in più occasioni che la solidarietà cristiana è un'espressione fondamentale dell'amore e della comunione, come conseguenza dell'essere membra del corpo di Cristo e tutti figli dello stesso Padre («Fratelli tutti»!): «ci si salva soltanto insieme, incontrandosi, negoziando, smettendo di combattersi, riconciliandosi, moderando il linguaggio della politica e della propaganda, sviluppando percorsi concreti per la pace».

Papa Francesco è stato un pastore coraggioso perché non ha cercato solo di mettere in sicurezza la comunità delle persone che lo seguivano fedelmente, geograficamente vicine e lontane, ma ha cercato anche le persone smarrite, quelle allontanate da prospettive illusorie, ma soprattutto quelle discriminate per tanti pregiudizi, soprattutto i poveri, i malati, gli anziani, gli emarginati, i migranti, le persone trans e omosessuali, perché anch’essi figli di Dio e nel Popolo di Dio non ci sono figli di serie A e di serie B, non esistono persone da discriminare e da scartare. La Chiesa non discrimina nessuno. 

Papa Francesco ha dimostrato tutta la vita di essere rispettoso, accogliente, aperto al dialogo con tutti, nella Chiesa e fuori, perché andava ripetendo, specialmente negli ultimi tempi, ci si salva camminando insieme e solidarizzando con tutti, perché «Dio salva tutti». Nella Chiesa non ci sono «scarti». Non lo ammette la solidarietà cristiana e umana, non lo ammette il Vangelo. Semmai, ripeteva papa Francesco, siamo tutti peccatori, tutti abbiamo conti in rosso, siamo tutti debitori di Dio. La sua vita è stata una testimonianza coraggiosa del Vangelo. Specialmente negli ultimi giorni di vita non ha nascosto la sua malattia e le sue difficoltà a muoversi e a parlare.

Papa Francesco è stato un pastore coraggioso perché ha detto senza esitazione ai potenti della terra che «la pace è un bene prezioso, oggetto della nostra speranza, al quale aspira tutta l'umanità», che nessuna pace è possibile senza un vero disarmo, che la giustizia non risponde alla legge del più forte (secondo cui «il potente mangia il più debole»), che il negoziato è un atto di coraggio. Al contrario, riteneva la guerra ignobile, un trionfo della menzogna e dell'interesse, una sconfitta per tutti e che la corsa al riarmo è ingiustificata e dannosa. Sapeva che i suoi auspici non avrebbero avuto seguito, ma non si stancava di continuare a sperare.

Infine, papa Francesco è stato un pastore così coraggioso che anche durante la malattia ha pregato e lavorato per la Chiesa. Il giorno di Pasqua, vigilia del decesso, non ha voluto rinunciare alla benedizione Urbi et Orbi e al suo ultimo giro in papamobile tra i fedeli presenti in piazza San Pietro, come se, prima della sua definitiva partenza, volesse salutarli e abbracciarli tutti, uno per uno, anche quelli che non potevano essere presenti fisicamente. Credo che in questo abbraccio si siano riconosciuti in molti, anche non cattolici e non cristiani.

Grazie, papa Francesco. R.I.P.


16 aprile 2025

1915: L’Italia in guerra (seconda parte)

L’Italia uscì vincitrice dallo scontro con l’Austria, la Germania e la Russia, ma la «vittoria» non corrispose alle attese dei nazionalisti e ai sacrifici compiuti dagli italiani. Quella vittoria fu pagata infatti a un prezzo troppo alto: quasi 1.300.000 morti tra militari (oltre 650.000) e civili (quasi 600.000), circa 450.000 mutilati permanenti (cfr. articolo precedente). La guerra fu un disastro nazionale non solo per le innumerevoli vite umane sacrificate sull'altare di un nazionalismo insensato, ma anche per lo scontento che generò tra chi aveva combattuto, chi aveva sperato in una vittoria dopo una guerra breve e con poche vittime, chi aveva fatto tanti sacrifici e si ritrovava disoccupato, più povero di prima (non solo nel Mezzogiorno, ma anche al Nord) e senza prospettive. Anche molti politici rimasero disorientati, perché il trattato di pace non aveva assegnato all'Italia tutti i territori rivendicati. Si sa, inoltre, che il malcontento degli italiani fu il «pretesto» per la presa del potere dei fascisti nel 1922.

Italiani vittoriosi, ma presto vittime del Fascismo

Durante la prima guerra mondiale furono introdotte nuove armi per maggiori massacri

Sono attribuite al generale Luigi Cadorna le parole: «già, se avessimo marciato con la Germania, nell'agosto del 1914, avremmo avuto grandissimi vantaggi…». Con una buona trattativa, Trento e Trieste avrebbero potuto essere cedute dall'Austria senza la guerra. Inoltre, la disfatta di Caporetto (24 ottobre 1917) aveva dimostrato l’imperizia dei Comandi e contribuito a diffondersi in molte regioni italiane una preoccupante voglia di cambiamento. Nessuno sembrava credere più al futuro radioso dell’Italia che avevano preconizzato gli interventisti.

Gabriele D’Annunzio parlò di una «vittoria mutilata», perché all'Italia, che aveva sperato di ottenere Trento, Trieste e la Dalmazia, gli alleati negarono la Dalmazia. Francia e Inghilterra temevano l’espansionismo italiano nell'Adriatico. Anche la distruzione dell’Impero austro-ungarico, inizialmente non voluto, divenne fonte di preoccupazione per le inevitabili lotte nazionalistiche in Europa.

Inoltre, la vittoria non contribuì a migliorare l’immagine dell’Italia nel mondo, perché fu considerata da molti inaffidabile, anzi «traditrice», perché aveva abbandonato la Triplice Alleanza (con l’Austria e la Germania) e si era schierata con gli avversari.

Infine, anche le condizioni di pace subite dalla Germania non promettevano niente di buono. Come avrebbero reagito i tedeschi alla riduzione massiccia dell’esercito (che non doveva superare le 100.000 unità) e della marina militare, alla rinuncia all'aviazione militare, all'imposizione di ingenti debiti di guerra (circa 132 miliardi di marchi oro), alla cessione di tutte le colonie e alla cessione di  alcuni territori a favore di altri Stati, tra cui Belgio, Francia, Danimarca e Polonia?

Povertà dilagante e tragedia dell’emigrazione

Sergio Romano
A questi segnali se ne aggiungeva un altro che interessava molte più persone: la crescente povertà. La guerra aveva impoverito l’Italia (soprattutto il Mezzogiorno), il costo della vita era aumentato del 40-50%, il potere d’acquisto di una famiglia operaia era diminuito di più del 30%, era aumentata la dipendenza dagli alleati (specialmente dall'Inghilterra e, dalla loro entrata in guerra nel 1917, dagli Stati Uniti) per gli approvvigionamenti alimentari, industriali e finanziari. La prospettiva dell’emigrazione era presa in seria considerazione, soprattutto da chi era dovuto rientrare in Italia per il servizio militare.

Ricordando questo anniversario, non si può evitare di ricordare anche un aspetto perverso della prima guerra mondiale di cui si parla poco, che ha coinvolto centinaia di migliaia di emigrati in Europa. Secondo Sergio Romano, «la guerra, per l’Italia, fu anzitutto la tragedia dell’emigrazione». Infatti, quando l’Italia, allora ancora nella Triplice Alleanza, decise la non belligeranza, centinaia di migliaia di italiani emigrati in Francia, Belgio e Germania, per paura di rappresaglie fuggirono disordinatamente per rientrare in Italia passando spesso in treni molto affollati attraverso la Svizzera.

Anche dalla Svizzera molti immigrati italiani decisero di rientrare perché richiamati o volontariamente. La loro partenza creò non pochi disagi a molte imprese dov'erano impiegati, ma anche alle loro famiglie perché si ridussero drasticamente le rimesse (dai 24.803.363 franchi del 1913 agli 11.771.376 franchi del 1914 e ad appena 5.548.851 franchi nel 1915). Inoltre, i partenti non avevano alcuna garanzia di riavere lo stesso posto di lavoro al loro eventuale ritorno a guerra finita, anzi, coloro che riuscirono a ritornare dovettero affrontare nuove difficoltà perché nel frattempo era cresciuta la xenofobia e la Confederazione aveva adottato misure più restrittive per gli ingressi.

Giovanni Longu
Berna 16.04.2025

09 aprile 2025

1915: L’Italia in guerra (prima parte)

Come accennato nell'articolo precedente, i venti di guerra soffiavano da diversi anni in Europa. Il 28 luglio 1914 la guerra è scoppiata fragorosamente coinvolgendo nei quattro anni successivi gran parte degli Stati del mondo. Soprattutto le «Potenze» europee si preparavano da tempo allo scontro per la conquista o riconquista di territori e l’egemonia in Europa. Il nazionalismo di alcune di esse sembrava aspettare solo l’occasione o il «pretesto» (secondo Vilfredo Pareto) per scatenare la «grande guerra», divenuta presto «mondiale». L’Italia per dieci mesi non vi partecipò, ritenendosi impreparata, ma finì per cedere il 23 maggio 1915 alle sollecitazioni di una retorica interventista che stimolava il «sacro egoismo» (Antonio Salandra) degli italiani per garantire all'Italia lo status di «grande potenza». Non fu un «glorioso olocausto» (Benito Mussolini) né «un olocausto necessario» (gen. Vincenzo Garioni), ma un’«inutile strage» (Benedetto XV), un azzardo, che costò all'Italia quasi 1.300.000 morti tra militari (oltre 650.000) e civili (quasi 600.000) e circa 450.000 mutilati permanenti. Ricordando il 110° anniversario dell’Intervento, desidero evidenziarne alcuni aspetti spesso poco considerati.

Scontro tra nazionalismi

Premesso il giudizio complessivamente negativo riassunto nel paragrafo iniziale e condividendo la distinzione fatta da Vilfredo Pareto tra «causa» e «pretesto» (cfr. articolo precedente), considero anch'io l’assassinio dell'arciduca d’Austria ed erede al trono Francesco Ferdinando e di sua moglie Sofia a Sarajevo (28 giugno 1914) non la causa, ma il «pretesto» della prima guerra mondiale. La vera «causa» o almeno una delle principali fu l’esplosione a catena in tutta l’Europa dei nazionalismi, avvalendosi di alleanze opportunistiche costituitesi negli ultimi decenni del XIX secolo, sostanzialmente attorno a due grandi blocchi. Dell’uno facevano parte gli Imperi centrali austro-ungarico, tedesco e ottomano; dell’altro gli Alleati Francia, Gran Bretagna, Impero russo (fino al 1917), Impero giapponese e Regno d’Italia (dal 1915).

Sacrario militare di Redipuglia (Friuli), con le spoglie di oltre 
100.000 soldati italiani. Durante la  prima guerra mondiale
ne morirono più di 650.000.
Ogni Stato dell’uno e dell’altro gruppo aveva ambizioni nazionalistiche. L’Austria-Ungheria si riteneva indispensabile per mantenere al centro d’Europa, dove si agitavano vari nazionalismi, gli equilibri etnici raggiunti ma non consolidati e impedire ogni anelito irredentista, compreso quello italiano; l’Impero russo guardava con sospetto l’espansionismo tedesco e giapponese; il Reich tedesco considerava irrinunciabili le conquiste fatte a danno della Francia, intendeva estendersi ancora ad est e contendeva agli inglesi la supremazia sul mare; la Francia mirava alla riconquista dell’Alsazia-Lorena e al rafforzamento del dominio coloniale; la Gran Bretagna, sentendosi minacciata, intendeva mantenere intatto e possibilmente estendere il suo già vasto impero coloniale; l’Italia voleva Trento e Trieste e consolidare il suo potere coloniale nell'Africa settentrionale. Tutti i Paesi preparavano piani di guerra, ma sapevano che il loro successo sarebbe dipeso soprattutto dall'alleanza scelta.

Popolazioni ignorate e ingannate

Poiché qualsiasi guerra ha bisogno del sostegno popolare, ogni Stato belligerante cercò di carpire tale sostegno sollecitando l’«amor patrio» dei propri cittadini, inculcando rosee aspettative, mistificando la realtà, spargendo a piene mani cumuli di menzogne. Si sa che in Italia la maggioranza della popolazione, soprattutto quella rurale, ma anche la maggioranza del Parlamento erano contrarie all'intervento militare. Il sostegno popolare alla guerra non c’era, ma ciononostante, la minoranza interventista e violenta, con la complicità del governo e del re, decise per tutti.

La Svizzera, nella sua condizione particolare di Stato neutrale senza alcuna appartenenza ad alleanze militari, rappresentò in questo un’eccezione. Il Consiglio federale non dovette ricorrere a sotterfugi per far comprendere ai propri cittadini il pericolo che correvano trovandosi circondati da Paesi in guerra, dai quali la Svizzera in parte dipendeva per gli approvvigionamenti di materie prime, viveri e manodopera.

Per questo la risposta alla mobilitazione generale (1° agosto 1914) fu unanime, senza defezioni o esitanze: nell'arco di una settimana 220.000 soldati entrarono in servizio attivo, pronti a difendere la Patria, anche se all'inizio le uniche paure riguardavano la possibilità che truppe tedesche, francesi o italiane penetrassero in Svizzera per attraversarla. Di fatto non ci furono mai sconfinamenti seri, forse perché gli stati maggiori stranieri erano a conoscenza della buona preparazione e motivazione dell’esercito svizzero e delle ingenti misure di difesa (in parte ancora visibili) previste a protezione dei confini nazionali, delle principali arterie stradali e ferroviarie, dei ponti e delle gallerie.

Ciò nonostante, anche la Svizzera in quegli anni subì conseguenze pesanti, che coinvolse anche l’immigrazione italiana. Infatti, come si vedrà nel prossimo articolo, molti giovani italiani dovettero rientrare in Italia per servire la Patria, che prima li aveva per così dire espulsi, e coloro che dopo la guerra decideranno di ritornare in Svizzera, la troveranno cambiata e meno accogliente.

Giovanni Longu
Berna, 09.04.2025

26 marzo 2025

1905-14: venti di guerra in Europa

In questo articolo non viene ricordato un anniversario in particolare, per esempio l’intervento dell’Italia nella prima guerra mondiale (1915) - che verrà trattato in seguito - ma il periodo precedente, perché può aiutare a capire il senso, o meglio il non senso, anche della seconda guerra mondiale e persino dell’attuale guerra in corso in Europa. Uno storico, Eric Hobsbawm, ha chiamato il XX secolo «il secolo breve», perché il lasso di tempo tra il 1914 e il 1991, ossia fra la prima guerra mondiale e il crollo dell’Unione Sovietica, presenterebbe secondo lui, un carattere coerente, a differenza di quello «lungo», il XIX, iniziato con la Rivoluzione francese (1789) e terminato dalla «belle Époque». Questa opinione, certamente rispettabile, non mi pare condivisibile, soprattutto alla luce delle cause della prima come della seconda guerra mondiale e anche del crollo dell’impero sovietico. Si può infatti intravedere facilmente nel nazionalismo una delle cause principali e una sorta di fil rouge che lega i diversi eventi drammatici della prima metà del XX secolo e persino della guerra in corso tra Russia e Ucraina.

Consenso popolare estorto e ingannevole

Il nazionalismo più temuto nel 1905 era quello russo!
La pace di Francoforte (10.05.1871) seguita alla guerra franco-prussiana (1870-71) per il dominio dell’Alsazia e della Lorena non fu considerata decisiva e duratura né dai perdenti francesi né dai vincitori prussiani: la lotta per l’egemonia in Europa non era nemmeno cominciata, tenendo presenti le rivalità esistenti tra le varie Potenze europee per l’egemonia nelle colonie. Del resto, non va dimenticato che gli appetiti europei non li provavano solo la Germania e la Francia, ma anche la Gran Bretagna, l’Impero austro-ungarico e l’Impero russo. Persino l’Italia aspirava a una maggiore considerazione nella politica internazionale. (Il capo del governo Francesco Crispi sosteneva che «le colonie sono una necessità della vita moderna. Noi non possiamo rimanere inerti… altrimenti saremmo colpevoli di un gran delitto verso la patria nostra».

E’ vero che fino allo scoppio della prima guerra mondiale in Europa, esclusa la Russia (cfr. articolo precedente), regnava una relativa pace e i vari popoli si godevano, chi più chi meno, la belle Époque e il benessere che l’industrializzazione, i commerci e il turismo distribuivano in abbondanza, ma soprattutto le grandi Potenze pensavano seriamente anche alla guerra. La corsa al riamo coinvolse pressoché tutti gli Stati, i forti «per mantenere il proprio potere», i deboli «per correre alla riscossa», i neutrali, come la Svizzera,  «per mantenere la propria indipendenza». Tutti cercavano di potenziare gli eserciti di terra e di mare, predisponevano ogni sorta di difesa in prossimità dei confini, seguivano i rapidi sviluppi dell’aeronautica militare, si dotavano delle armi più sofisticate e potenti, studiavano con chi era più vantaggioso allearsi, elaboravano piani di guerra... perché le tensioni internazionali aumentavano.

Questo spiega anche perché i sentimenti popolari, il patriottismo, l’insistenza sul prestigio internazionale, la difesa della libertà, la prospettiva di migliori condizioni di vita e l’unità nazionale sul finire dell’Ottocento venissero molto sollecitati. Per partecipare a una guerra ritenuta sempre più inevitabile, i governi cercavano di carpire il consenso popolare anche facendo balenare la prospettiva di grandi ricadute positive nell'economia e nel sociale. A questi sentimenti si aggiungeva spesso, specialmente nelle grandi Potenze coloniali, un pregiudizio razziale (benché già contestato scientificamente da decenni) che faceva ritenere ad alcuni popoli europei militarmente forti e appartenenti a razze presunte «superiori», il «diritto» di sottometterne altri «inferiori» e meno forti.

Nazionalismi nella storia

Facendo tesoro della distinzione tra «causa» e «pretesto» di Vilfredo Pareto (1848-1923) proprio in riferimento alla prima guerra mondiale, ritengo che le vere cause della prima guerra mondiale vadano ricercate soprattutto nelle ambizioni delle grandi Potenze ad estendere la loro egemonia su spazi più grandi di quelli nazionali, incuranti dei loro abitanti e ricorrendo persino a giustificazioni moralistiche, come il diritto dei popoli più virtuosi ad opporsi a quelli dominati dalla «sete dell’oro» e dei popoli che si ritengono «unti dal Signore» a combattere quelli «senza Dio», ecc.

Si dimenticava sistematicamente che il nazionalismo nella storia dell’umanità è all'origine di quasi tutte le guerre e di milioni di morti, che fa aumentare la già grande dose di odio presente nelle nostre società e che sfocia spesso nella guerra. Soprattutto i responsabili della politica e degli Stati dovrebbero fare maggiore attenzione alle parole che usano e alle decisioni che prendono a livello internazionale e comunque la loro maggiore preoccupazione non dovrebbe essere quella di prepararsi alla guerra, ma di preparare la pace, stimolando la comprensione reciproca, la tolleranza, la collaborazione, lo sfruttamento in comune delle risorse disponibili, la prosperità di tutti.

Giovanni Longu
Berna 26.03.2025

19 marzo 2025

1905: la rivoluzione russa e l’immigrazione italiana

Si è soliti considerare la Rivoluzione russa del 1917 come se si fosse compiuta interamente in quell’anno. In realtà il vero inizio va anticipato di dodici anni, perché nel gennaio 1905 una massa di oltre centomila persone marciò pacificamente a Pietroburgo verso il Palazzo d’Inverno per chiedere allo zar Nicola II «giustizia e protezione» contro la miseria, l’ignoranza e la prepotenza delle autorità. Non giunsero a destinazione perché l’esercito ebbe ordine di sparare contro la massa inerme. Persero la vita mille persone e duemila furono ferite. Fu quell’eccidio a dare inizio alla rivoluzione, che si diffuse poi in tutta la Russia. Non decretò subito la fine dell’impero russo, ma l’accelerò. Il colpo mortale gli fu assestato nel 1917, quando Lenin prese la guida dei rivoltosi, travolse il regime zarista e impose un governo bolscevico guidato dai Soviet (consigli rivoluzionari composti da operai, contadini e soldati). L’Occidente, Svizzera compresa, cominciò a tremare, temendo che la furia rivoluzionaria travalicasse i confini russi, e cercò di stroncare sul nascere qualsiasi principio di disordine, ribellione o manifestazione non autorizzata. Per evitare infiltrazioni bolsceviche molti Stati e anche la Svizzera introdussero severi controlli alle frontiere, una misura che penalizzò anche l’immigrazione dall'Italia.

Inizio Novecento in fermento

Le rivendicazioni del 1905 avviarono la rivoluzione russa del 1917.

Per comprendere il difficile momento storico, nonostante la belle époque che si stava vivendo in Europa, bisogna ricordare che all'inizio del Novecento non solo la Russia era in fermento (contro il regime zarista, la servitù della gleba, l’oppressione degli operai nelle fabbriche, le prevaricazioni dei nobili), ma anche in altri Paesi, Svizzera compresa, erano diffusi malcontento e violenze (nelle campagne come nei centri urbani, nei rapporti di lavoro e nella società) e la richiesta di riforme.

La Svizzera non faceva eccezione, anche se i contrasti raramente sfociavano in scontri e tumulti. La costituzione liberale, la cura dei buoni rapporti di vicinato con gli Stati confinanti e una politica industriale e commerciale forte, la rendevano un Paese piuttosto tranquillo, quasi un’isola di pace in un mare in tempesta. Una delle poche preoccupazioni delle autorità federali e cantonali era la dipendenza, in alcuni settori, dalla numerosa popolazione straniera (specialmente tedesca e italiana) che sembrava creare un pericolo di Überfremdung, di «inforestierimento» (cfr. articolo del 19 febbraio 2025) non solo demografico ma anche economico e culturale.

Poiché la convivenza non era senza problemi, le autorità federali e cantonali divennero sempre più attente agli ingressi (ma senza poterli impedire o limitare a causa dei numerosi accordi bilaterali con molti Stati europei) e soprattutto ai fenomeni che avrebbero potuto provocare disordini, subbugli, scioperi. Erano osservati speciali soprattutto i rifugiati provenienti da Paesi in cui erano in atto rivoluzioni e forti repressioni perché spesso trovavano facile accoglienza nei partiti di sinistra. Ciò nonostante, si sa, poterono entrare ed essere (bene) accolti in Svizzera, rifugiati politici come Lenin, Trotskij, Angelica Balabanoff e altri. Riuscirono persino ad organizzare conferenze internazionali (Zimmerwald, Kiental, ecc.) e a pubblicare materiale di propaganda proibito.

Conseguenze per l’immigrazione dall'Italia

Nel timore che a causa della guerra e approfittando della politica liberale della Confederazione entrassero in Svizzera, oltre agli immigrati per motivi di lavoro, disertori, anarchici, bolscevichi, attivisti politici, sovversivi e persino delinquenti comuni provenienti da tutta l’Europa dopo il crollo degli imperi russo, austro-ungarico e tedesco, le autorità federali decisero di chiudere (quasi) ermeticamente le frontiere. Finita la guerra avrebbero dovuto essere riaperte, ma la Svizzera non le riaprì ufficialmente per lo stesso motivo, ma soprattutto per poter giustificare misure di controllo sulla popolazione straniera che stava per adottare.

Nel 1917, infatti, la Confederazione istituì l’Ufficio centrale di polizia degli stranieri, più noto come Polizia degli stranieri (1909-1998), col compito di esercitare un sistematico controllo (anche con schedature!) degli stranieri, ufficialmente per lottare contro l'inforestierimento, in realtà per il controllo politico e amministrativo della popolazione straniera. Il suo atteggiamento nei confronti degli immigrati per motivi di lavoro divenne sempre più restrittivo e da allora si cercò di limitare sistematicamente per via legislativa e amministrativa la libertà d’insediamento degli stranieri e la mobilità lavorativa.

Da allora cominciò a diffondersi in tutti gli strati della popolazione svizzera anche la paura della «peste rossa», ossia un anticomunismo che indurrà la polizia federale degli stranieri a seguire con particolare attenzione le principali attività della sinistra anarchica, comunista e socialista. A numerosi italiani costerà nei decenni successivi l’espulsione.

L’effetto di tutto ciò sulla popolazione italiana residente in Svizzera fu notevole: dalle oltre 200 mila unità del 1910 si toccherà nel 1941 il minimo storico di nemmeno 100 mila italiani residenti.

Giovanni Longu
Berna 19.03.2025

 

Contro l’inforestierimento e il pericolo “rosso”, un manifesto del 1919 proclamava: «Giù le grinfie! La Svizzera agli svizzeri».

12 marzo 2025

1975-2025: cinquant’anni di avvicinamento alla parità uomo-donna

 Il 1975, definito dalle Nazioni Unite come l'Anno Internazionale delle Donne, non segnò la nascita dei movimenti femministi, perché questi erano sorti e ben sviluppati già nei primi decenni del Novecento, ma fu un importante momento di riflessione sul passato e un punto di partenza verso la piena uguaglianza dei diritti delle donne e l’abbattimento di molti stereotipi di genere. Nessuno è oggi in grado di misurare quanta strada sia stata percorsa in tale direzione, ma credo che nessuno degli ultracinquantenni possa negare che in questi ultimi decenni, almeno in Svizzera, l’avvicinamento alla parità sia notevolmente progredito non solo sul fronte salariale, ma anche in altri ambiti, sebbene sia innegabile che in alcuni campi la parità sia ancora lontana.

Dati significativi

Una delle principali lotte condotte in Svizzera dalle donne ha riguardato la parità salariale con gli uomini, beninteso a parità di lavoro compiuto. Il risultato raggiunto non è ancora soddisfacente in tutti i settori, ma ogni anno la distanza si riduce sempre più.

Un primo riscontro si ha nella stessa Festa della donna (l’8 marzo) che, voluta dalla Seconda conferenza internazionale delle donne comuniste del 1921 insieme all’istituzione della Giornata internazionale dell’operaia come momento di lotta e di rivendicazione di diritti fondamentali delle donne lavoratrici, è rimasta ancora un momento utile di riflessione sulla condizione femminile, specialmente dove le donne sono discriminate e subiscono molte violenze, ma è diventata nei nostri Paesi, e dunque anche in Svizzera, soprattutto la Festa delle donne e un’occasione gioiosa di omaggiare le donne in quanto tali.

A riguardo della parità salariale è vero che anche in Svizzera non è stata ancora raggiunta, specialmente nel privato, perché il salario delle donne è inferiore, a parità di competenze, a quello degli uomini con una variazione dall’11% al 18%, ma la distanza si accorcia sempre di più, soprattutto nel settore pubblico. In generale, a parità di posizione professionale, il salario delle donne è mediamente inferiore a quello degli uomini di almeno il 6% (quando non hanno funzioni di quadro) fino al 15% (quando appartengono ai quadri medi e superiori).

Le differenze sono più ingiustificate soprattutto nelle professioni che presuppongono formazioni specialistiche o accademiche, nelle quali le donne hanno praticamente raggiunto (e in molti casi superato) la parità con gli uomini. Se a parità di formazione (patente di insegnante) le donne guadagnano mediamente il 4% in meno degli uomini, riesce difficile accettare che la differenza si elevi al 17% nelle scuole universitarie.

Anche riguardo alla posizione professionale a livello dirigenziale il progresso delle donne è notevole e ogni anno aumenta: 2022: 31%, 2023: 32%, 2024: 35%. Nella fascia d’età dai 25 ai 39 anni le donne dirigenti costituivano nel 2024 ben il 41%. A titolo di paragone si può osservare che nella fascia d’età 40-54 anni la quota era solo del 30%.

La chiave di volta

In questa progressiva riduzione del divario uomo-donna la formazione svolge un ruolo determinante. Dal suo livello, infatti, dipendono molto spesso il tipo di occupazione, la posizione professionale, la retribuzione e talvolta persino la condizione sociale. Perciò, nelle analisi più approfondite, la formazione è sempre considerata uno strumento importante anche per raggiungere la parità tra uomo e donna. Infatti, chi dispone di una buona formazione normalmente ha anche un margine di manovra più ampio nelle scelte professionali e quando deve far fronte alle sfide che si presentano nell’ambito personale, famigliare, sociale e persino politico.

Un altro segnale della maggiore e migliore formazione delle donne è anche l’aumento del loro tasso di attività professionale, passato dal 44% del 1991 al 72% del 2024 (anche se non va dimenticato che in Svizzera è particolarmente elevato il lavoro a tempo parziale delle donne, 77%). Nella fascia d’età dai 25 ai 39 anni il tasso di attività è addirittura dell’88%. Per avere un’idea del progresso fatto registrare dalle donne in questi ultimi decenni basta ricordare che il tasso di attività degli uomini dai 25 ai 39 anni, che era del 97% nel 1991, è sceso nel 2024 al 94% e quello degli uomini dai 55 ai 64 anni è sceso addirittura dal 94% all'84%. A livello europeo, le donne svizzere (e quelle straniere residenti) sono tra le più «attive» (mentre quelle italiane, greche e rumene le meno attive).

A questo punto è facile osservare che tutto è legato, nella vita delle donne come nell’intera società: formazione, attività e posizione professionale, retribuzione, vita sociale; ma il primo e fondamentale anello della catena, la chiave di volta, è la formazione. Tutti dovrebbero rendersene conto, ma specialmente i politici europei e nazionali dovrebbero sentire il dovere morale e sociale di destinare sempre maggiori risorse alla formazione, con lungimiranza e senso di responsabilità, soprattutto nei confronti delle giovani generazioni.

Giovanni Longu
Berna 12.03.2025

05 marzo 2025

1900: Monsignor Bonomelli e gli immigrati in Svizzera

Nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera non dovrebbe sfuggire a nessuno l’importanza dell’assistenza religiosa, sociale e umana fornita in continuità agli immigrati dai missionari giunti soprattutto dall'Italia. Essa fu importante non solo perché riguardò la vita individuale e collettiva di molte migliaia di lavoratori e delle loro famiglie, ma anche perché cercò di dare dignità alla condizione migratoria e di elevare il livello di coscienza degli immigrati. Per rendersene conto basterebbe fare un semplice confronto tra la situazione negli ultimi decenni dell’Ottocento e quella attuale. Oggi non si parla quasi nemmeno più di immigrati (ma di italiani all'estero), allora erano operai in gran parte analfabeti, sfruttati, senza protezione e marginalizzati. Una delle prime persone che si sono particolarmente distinte nell'impegno a favore degli immigrati italiani in Svizzera è stato Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona e fondatore, nel 1900, dell’Opera di assistenza per gli italiani emigrati in Europa.

L’emigrazione dopo l’unità d’Italia

Geremia Bonomelli (1831-1914)

Col passare degli anni e col cambiamento radicale dell’immigrazione italiana in Svizzera si corre il rischio di dimenticare le condizioni lavorative, sociali e umane degli immigrati degli ultimi decenni dell’Ottocento. Ricordare le origini è invece utile e doveroso non solo per costatare i progressi realizzati in poco più di un secolo, ma anche per conoscere alcuni dei protagonisti che maggiormente vi hanno contribuito, impegnandosi con straordinaria dedizione e coraggio.

Quando mons. Geremia Bonomelli (1831-1914) fondò la sua Opera, gli emigranti italiani erano ancora diretti prevalentemente verso le Americhe, ma crescevano anche i flussi verso alcuni Paesi europei, specialmente Germania e Svizzera. Poiché la Chiesa sembrava occuparsi soprattutto dei primi - anche grazie ai missionari della Congregazione dei missionari di san Carlo Borromeo fondata nel 1887 da Giovanni Battista Scalabrini (1839-1905), vescovo di Piacenza, e alle missionarie della Congregazione delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù, fondata da Francesca Saverio Cabrini (1850-1917) - e trascurare i secondi, ritenendoli emigranti «temporanei», il vescovo di Cremona decise di creare un’apposita organizzazione che si occupasse espressamente dei migranti in Europa. 

In questo articolo si parla soprattutto di monsignor Bonomelli, ma la sua figura può essere considerata emblematica degli sforzi che la Chiesa cominciava a intraprendere in favore delle migliaia di emigranti che ogni anno lasciavano l’Italia, attraverso un numero esiguo di persone che si prodigavano generosamente «per il bene dei migranti». Questa espressione molto comune esprime bene non solo l’obiettivo da mirare, ma anche l’attitudine dei missionari e delle missionarie nel conseguirlo, improntata all'altruismo, alla solidarietà, alla generosità, all'adeguatezza delle risposte in base a una conoscenza approfondita della situazione, soprattutto se problematica.

Sulla decisione di fondare l’Opera influirono non solo la considerazione evangelica di prestare attenzione e aiuto alle persone più bisognose e più fragili, ma anche la costatazione delle «brutture e ignominie» rivelate da un’inchiesta sulle condizioni degli operai italiani addetti ai lavori del traforo del Sempione (che metteva in evidenza, fra l’altro, «lo spettacolo di quelle infelici moltitudini accalcate in covi insalubri, prive di scuole, di ospedali, di assistenza religiosa, esposte ad ogni più malsana influenza»), ma anche l’intuizione che l’industrializzazione, le costruzioni ferroviarie e lo sviluppo economico dell’Europa avrebbero orientato diversamente i grandi flussi migratori.

Non solo assistenza religiosa

Gli inizi dell’Opera furono difficili, ma già alla fine del 1901 funzionavano i Segretariati (così erano chiamati i centri di assistenza dell’Opera) di Briga, Preda, Ginevra, Losanna, Friburgo, Berna, Basilea, Lucerna, Zurigo, Sciaffusa, San Gallo, e altri minori. I centri dove operare e le attività da svolgere erano decisi in base a sopralluoghi e attento esame della situazione, ma specialmente delle condizioni esistenziali degli immigrati.

Giovanni Battista Scalabrini (1839-1905)
Per Bonomelli, infatti, l’assistenza non doveva limitarsi a quella religiosa, ma doveva dare risposte concrete possibilmente a tutte le esigenze dei lavoratori immigrati e delle famiglie che spesso li seguivano. Se gli interessava in primo luogo la conservazione e il consolidamento della fede e la pratica religiosa degli immigrati, gli stava molto a cuore anche il loro benessere materiale, morale e sociale. Per questo, nei centri maggiori come quelli di Briga, Preda, Kandesteg e altri, le attività erano molteplici perché dovevano rispondere ai molteplici bisogni degli immigrati riguardanti non solo la vita religiosa ma anche i rapporti sociali, la difesa della dignità umana e dei diritti dei lavoratori, il collocamento e i contratti di lavoro, la protezione dei ragazzi e delle ragazze minorenni, l’alfabetizzazione degli adulti e la scolarizzazione dei bambini, il disbrigo delle pratiche consolari, i problemi dell’alloggio e del vitto, ecc.

Quando l’Opera Bonomelli fu sciolta (1928), in molte città subentrarono gli Scalabriniani, che ne proseguirono l’attività e lo spirito, dando idealmente continuità anche alla profonda amicizia che legava Monsignor Bonomelli e monsignor Scalabrini. La loro amicizia è stata tramandata in uno scambio epistolare intenso e profondo. Ad unirli era non solo la stessa fede, ma anche la preoccupazione pastorale a favore degli emigranti italiani. Sono stati «due vescovi al cui cuore non bastò una diocesi (F. Baggio).