18 giugno 2025

1925: Origine e sviluppo delle colonie libere italiane (2a parte)

Le Colonie Libere Italiane (CLI), fondate da esuli antifascisti avevano a cuore soprattutto le sorti dell’Italia, che pensavano di poter restituire alla democrazia una volta caduto il regime fascista. Non essendo una creazione degli immigrati per motivi di lavoro, almeno inizialmente le CLI non ebbero un interesse particolare per le tipiche problematiche immigratorie. Esso maturò solo dopo la creazione della Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera (FCLIS) nel 1943 e dopo la fine della guerra, quando apparve chiaro che l’immigrazione italiana era destinata a durare e aveva bisogno di sostegno (politico), di istruzione (per l’infanzia e per gli adulti), di cultura (ritrovi, giornali, biblioteche, conferenze), di formazione professionale e anche di un forte senso di appartenenza a un gruppo sociale consistente e talvolta persino determinante nell'economia e nella società svizzere.

Pretese eccessive e miopi

Come detto nell'articolo precedente, l’impegno politico sociale e culturale delle CLI per il miglioramento delle condizioni generali degli immigrati (italiani) in Svizzera e soprattutto per una maggiore presa di coscienza dei loro diritti è incontestabile e complessivamente virtuoso, ma in una retrospettiva seria e obiettiva non si può negare che il loro contributo sia stato meno incisivo di quanto alcuni ritengono. Di seguito vengono rievocati alcuni errori clamorosi delle CLI allo scopo di fornire qualche elemento in più per comprendere (meglio) la storia dell’immigrazione italiana in Svizzera ed evidenziare che su di essa hanno probabilmente influito negativamente anche l’atteggiamento talvolta intransigente e miope e alcune pretese eccessive (si pensi per esempio all'abolizione dello statuto stagionale o alla soluzione del problema dei «falsi stagionali») della FCLIS (ma non solo di essa).

Finita la guerra, la FCLIS, rivendicò subito per sé «la rappresentanza unitaria di tutti gli italiani dimoranti in Svizzera e rimasti fedeli alle grandi tradizioni di libertà e di umanità». Si trattava non solo di una rappresentanza morale (ispirata ai principi della libertà, della solidarietà e della difesa dei lavoratori), ma anche politica (caratterizzata da un forte spirito antifascista e, da quando il PCI guidò l’opposizione, anche antigovernativo), che sollevò però forti dubbi e contrasti persino all'interno della FCLIS, ma soprattutto presso altre organizzazioni di immigrati e persino in alcuni ambienti svizzeri.

Errori clamorosi

Un primo errore è stato commesso proprio nell'ambito dell’associazionismo. Infatti i successi conseguiti dopo il 1943 con un’ampia adesione di immigrati alle prime CLI ha fatto credere ad alcuni dirigenti che la neocostituita FCLIS fosse la vera e unica rappresentante di tutti gli italiani residenti in Svizzera. In effetti, il Terzo Convegno delle Colonie Libere della Svizzera, tenutosi a Berna nel marzo 1945, approvò all'unanimità la seguente risoluzione: «La Federazione delle C.L.I. della Svizzera […] rivendica anzitutto alle Colonie libere e alla loro Federazione […] il merito di aver preso un'iniziativa valsa a trarre l'emigrazione italiana in Svizzera dallo stato di disorientamento e di inerzia seguito agli avvenimenti del luglio e settembre del 1943 [e] riconferma per questa iniziativa e per l’autorità morale e politica che le Colonie Libere hanno saputo acquistarsi, la sua qualità di unica rappresentante dell’emigrazione italiana nella Svizzera».

Si trattò di una decisione che peserà moltissimo, negativamente, sull’evoluzione della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera. Infatti, invece di unire i vari enti ormai epurati dal fascismo, le CLI fomentarono spesso la disunione soprattutto nei confronti delle Missioni cattoliche italiane (MCI) e associazioni aderenti, che consideravano antagoniste, sebbene rappresentassero importanti centri d’incontro, gestissero numerose scuole e svolgessero altre importanti opere sociali.

Un secondo errore clamoroso è stato l’opposizione della FCLIS alle rappresentanze diplomatiche e consolari, come quando pretendeva l’epurazione perentoria dei (presunti) fascisti dalle organizzazioni e istituzioni ex-fasciste o che in qualche misura erano state compromesse col regime (Consolati, Società Dante Alighieri, Case d’Italia, Istituti di cultura, scuole, gruppi sportivi, ecc.). Quanto bastava per avere contro, oltre alle MCI, numerose istituzioni e creare molta diffidenza anche tra le rappresentanze diplomatiche e consolari italiane e nei sindacati svizzeri.

Si legge ad esempio nel verbale di una riunione del 1973 della «Commissione federale consultiva per il problema degli stranieri» che il Consigliere nazionale e presidente del sindacato FLMO Wüthrich si rammaricava che le Colonie Libere Italiane (CLI) fossero ancora così tanto ascoltate.

Si temeva, infatti, che alla base di queste operazioni non ci fosse solo il desiderio di far valere le ragioni dell’antifascismo o di apportare miglioramenti alle condizioni degli immigrati, ma anche l’obiettivo di gestire il malcontento e «iniziare alla pratica della libertà le collettività italiane uscenti da una specie di medioevo spirituale». Questo atteggiamento creò qualche timore anche in alcuni ambienti svizzeri, per i quali sembrava che l’obiettivo vero fosse quello di creare disordine e far penetrare in Svizzera l’ideologia comunista attraverso la propaganda sovversiva.

Nei confronti delle autorità italiane alcune rivendicazioni dovevano apparire palesemente eccessive, come quando su alcune questioni le CLI preferivano investire direttamente Roma, attraverso i partiti di riferimento (PCI e PSI) o i sindacati di riferimento (CGIL e UIL), senza rendersi conto che scavalcando le autorità diplomatiche e consolari finivano per indebolirle agli occhi degli svizzeri e potevano creare screzi importanti nei tradizionali buoni rapporti italo-svizzeri, come nel caso di vistose intromissioni in questioni di politica interna svizzera da parte di certi ministri, sottosegretari e ambasciatori.

Grave è stato anche l’errore, nell'ambito di rivendicazioni lavorative, di fare esplicitamente più affidamento sui sindacati e patronati italiani che sui sindacati svizzeri, che non gradivano per nulla di essere messi in competizione e talvolta opposizione con le organizzazioni sindacali italiane. In questo contesto, una conseguenza negativa, di cui poco si sa e meno si parla, fu il diverso atteggiamento dei principali sindacati svizzeri nei confronti delle varie istituzioni di formazione professionale italiane, che non riuscirono mai a concepire programmi formativi comuni e ancor meno a gestire in comune strutture, finanziamenti, retribuzioni, formazione del personale, ecc.

Un terzo errore, gravissimo, perché divise profondamente la collettività immigrata, fu proprio quello di aver diviso, sebbene per lo più involontariamente e in contraddizione col desiderio diffuso di unità (che portò nel 1970 alla fondazione del Comitato Nazionale d’Intesa CNI), le associazioni degli immigrati, riproducendo anche in un ambiente tradizionalmente apolitico la lotta tra i partiti che si accese nel dopoguerra in Italia. Le CLI non fecero abbastanza per risolvere le divergenze, anzi si schierarono prevalentemente da una parte, lasciando che i sospetti di filocomunismo gravassero sull'insieme della collettività italiana immigrata.

In altri ambiti, e specialmente in quelli della cultura, della scuola, del tempo libero, del dibattito pubblico, della formazione politica, della fedeltà all'antifascismo, ecc. le CLI sono state indubbiamente molto più efficienti, per cui resta difficile se non impossibile stilare un bilancio obiettivo complessivo, tanto più che alcune CLI sono ancora in piena attività. Semmai starà al lettore fare la sintesi che ritiene più giusta.

Giovanni Longu
Berna, 18.06.2025

10 giugno 2025

1925: Origine e sviluppo delle Colonie Libere Italiane (1a parte)

Le Colonie Libere Italiane (CLI) meritano di essere ricordate in questa serie di anniversari significativi perché hanno inciso profondamente sullo sviluppo dell’immigrazione italiana in Svizzera, sebbene agli inizi (1925) non fossero né una sua emanazione diretta né funzionali alla sua evoluzione. Le prime CLI nacquero infatti in ambienti di esuli antifascisti intenzionati a riportare in Italia la democrazia e la libertà, una volta abbattuto il regime fascista. Solo in seguito, dopo la fondazione nel 1943 della Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera (FCLIS), cominciarono ad occuparsi anche della situazione migratoria e della sua trasformazione. Il loro contributo al miglioramento delle condizioni degli immigrati (italiani) fu intenso, ma meno incisivo e risolutivo di quanto alcuni ritengono. Pesarono negativamente sull'efficacia delle loro iniziative specialmente l’atteggiamento iniziale di una loro presunta superiorità sulle altre organizzazioni e la loro connotazione, ampiamente percepita, di movimento politico-sociale filocomunista. Se da una parte le CLI hanno contribuito alla crescita tra gli immigrati italiani di una maggiore consapevolezza culturale e politica, dall'altra ne hanno forse rallentato la coesione e, soprattutto, ritardato l’integrazione.

Perché colonie «libere»?
Per le prime CLI (anche se fino al 1943 non si chiamavano «Colonie libere italiane») costituitesi a Ginevra (1925), a Zurigo (dal 1930) e dopo il 1943 anche in altre città svizzere, «libere» significava «antifasciste», una connotazione distintiva nei confronti delle organizzazioni che avevano aderito al regime o ne avevano a vario titolo accettato il controllo. Le prime due colonie (di Ginevra e di Zurigo) illustrano bene questa caratteristica. 

La CLI di Ginevra, anzitutto, considerata da numerosi studiosi la prima nata, nel 1925 (anche se agli inizi non aveva tale denominazione, trattandosi in effetti della Società Dante Alighieri, già esistente dal 1894) divenne «libera» quando rifiutò di partecipare a una manifestazione organizzata dal Fascio locale, lasciando intendere che non riconosceva l’egemonia fascista. Questo rifiuto provocò non solo lo smembramento della Dante e la perdita dei contributi pubblici per la parte separatista, ma anche il cambio della sede e, dal 1928, pure del nome, divenuto «Associazione Dante Alighieri».

Altra importante conseguenza fu la perdita del sostegno alle «Scuole italiane di Ginevra», frequentate da centinaia di allievi e sostenute dalla Dante Alighieri, perché rifiutarono di sottomettersi al regime. Riuscirono tuttavia a sopravvivere, sia l’Associazione che le Scuole, grazie all'impegno e al prestigio di due grandi antifascisti, Egidio Reale a capo dell’Associazione e Giuseppe Chiostergi alla direzione delle Scuole. Entrambi preferirono la libertà per sé e per le istituzioni che dirigevano.

A Zurigo la situazione ebbe un’evoluzione analoga o forse un tantino più facile perché da decenni c’era già una concentrazione di socialisti attorno al centro storico del «Cooperativo» (cfr. https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2025/04/1915-conferenza-di-zimmerwald-5-891915.html). Il rifiuto dell’assoggettamento al fascismo si accentuò tuttavia nel 1927 quando fu creata una combattiva associazione di antifascisti denominata «La Mansarda», come punto di riferimento per tutte le associazioni che non intendevano sottostare al regime fascista. Nel 1930, per sottolineare l’opposizione al fascismo la Mansarda venne ribattezzata «Colonia libera italiana» e da allora Zurigo divenne uno dei principali centri dell’antifascismo all'estero.

Analogamente a quel che succedeva a Ginevra, anche a Zurigo la Mansarda creerà una «Scuola Libera» per i figli degli emigrati italiani, in opposizione al tentativo di penetrazione fascista attraverso la scuola oltre che tramite il Fascio e la Casa d’Italia locali.

Evoluzione delle CLI

Con la costituzione della Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera (FCLIS) nel corso di una riunione storica ad Olten (21 novembre 1943), le prime dieci Colonie Libere Italiane già costituite o in via di costituzione decisero di migliorare i contatti, coordinare le attività, adottare una linea comune nei confronti delle istituzioni fasciste e neofasciste presenti in Svizzera, sensibilizzare il maggior numero possibile di lavoratori emigrati ai valori democratici che avevano guidato la Resistenza, darsi un’organizzazione centrale, uno statuto e finalità comuni.

La nascita della FCLIS, che avrà come sede provvisoria Ginevra e poi, definitiva, Zurigo, fu salutata con grande interesse non solo dagli ambienti antifascisti, ma anche, secondo il resoconto fattone dal quotidiano socialista ticinese Libera Stampa, da «scuole, società ricreative, mutue, cooperative, gruppi sindacali, ecc.». In breve tempo, alle prime dieci Colonie se ne aggiunsero altre quindici, che giustificarono ben tre convegni federali, due a Zurigo (1944) e uno a Berna (1945), e un Congresso a Lugano (1945).

Per l’immigrazione italiana in Svizzera sembrava l’inizio di una nuova era, anche perché a quell'incontro avevano partecipato numerose personalità molto in vista dell’antifascismo e ben preparate politicamente e culturalmente come Giuseppe Chiostergi, Egidio Reale, Fernando Schiavetti, Giuseppe de Logu, Manlio Sancisi, Mario Mascarin e altri. Il loro impegno fu all'inizio contagioso e si riverberò nella costituzione di numerose CLI in tutta la Svizzera. Ma la loro evoluzione non sempre corrispose alle aspettative dei fondatori e ai reali bisogni degli immigrati. (Segue).

Giovanni Longu
Berna 10.6.2025

03 giugno 2025

1925: Conferenza di Locarno tra realtà e illusione

La cittadina di Locarno, in Svizzera, sul Lago Maggiore, gode di un microclima particolare che la rende una meta turistica di prim'ordine a livello nazionale e internazionale. Oggi, la sua notorietà è legata soprattutto al Festival internazionale del cinema di Locarno, la più importante manifestazione cinematografica svizzera e una fra le più importanti d’Europa, Locarno era già molto rinomata agli inizi del secolo scorso, quando fu scelta come sede di una conferenza di pace. Si trattava in particolare di garantire il confine renano tra la Francia, il Belgio e la Germania, stabilito dal Trattato di pace di Versailles dopo la prima guerra mondiale (1914-1918). La Conferenza di Locarno di cent’anni fa viene qui rievocata perché rappresentò per l’Europa una grande speranza, trasformatasi pochi anni più tardi in una cocente delusione, da cui non sembrava potersi facilmente riavere.

Dal Trattato di Versailles alla Conferenza di Locarno

Foto-ricordo della Conferenza di Locarno
Col Trattato di Versailles, firmato il 28 giugno 1919 da 44 Stati, i vincitori della guerra decisero di far pagare cara ai tedeschi l’immane tragedia che avevano provocato ai popoli europei. Esso infatti obbligava la Germania a cedere territori al Belgio, alla Cecoslovacchia e alla Polonia, imponeva ingenti riparazioni di guerra, lo smantellamento dell'impero coloniale tedesco, la demilitarizzazione della Renania, la riduzione massiccia dell’esercito, della marina e dell’aviazione, il divieto di aggressione e l’obbligo di ricorrere all'arbitrato pacifico in caso di controversie. Si sapeva però che il punto più fragile sarebbe stato il confine del Reno tra Francia, Belgio e Germania, per cui su di esso si concentrarono le preoccupazioni maggiori dei partecipanti alla Conferenza di pace di Locarno, che si tenne dal 5 al 16 ottobre 1925.

Finalizzata a preservare gli Stati europei dal flagello della guerra, regolare pacificamente eventuali controversie e garantire soprattutto il confine renano, tra i delegati dei vari Paesi interessati (Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Cecoslovacchia e Polonia) sembrò regnare fin dall'inizio uno spirito positivo (l’«ésprit de Locarno») e un certo ottimismo. Alla conclusione dei lavori, con la firma di un Patto di garanzia per la frontiera del Reno e quattro trattati di arbitrato, tutti sembravano ritenere che la «pace del Reno» avrebbe garantito «la pace d’Europa» e tutti speravano di ripristinare in Europa una pace stabile. Persino la Germania, che aveva subito il diktat più pesante, era ottimista: accettava il nuovo confine renano, garantito da Gran Bretagna e Italia (potenze garanti), e s’impegnava con la Polonia e la Cecoslovacchia a regolare secondo il diritto internazionale le eventuali divergenze.

L’ottimismo dei delegati pareva giustificato perché tra loro regnava effettivamente un’atmosfera distesa, positiva e produttiva e tutti speravano che con la Conferenza di Locarno si aprisse in Europa «un’era di efficiente pacificazione» e «un periodo nuovo, fondato sul principio dell’uguaglianza dei vinti con i vincitori e sul funzionamento dei patti d’arbitrato sotto l’egida della Società delle Nazioni», che era stata appositamente creata col Trattato di Versailles, con sede a Ginevra.

La Conferenza sembrava segnare in effetti una pietra miliare nella storia della pace e della civiltà umana perché forse per la prima volta al rappresentante di un Paese vinto e schiacciato, il ministro degli esteri tedesco Gustav Stresemann (1878-1929), fu concesso di partecipare attivamente ai lavori della conferenza alla pari degli altri rappresentanti. Alla conclusione della Conferenza, riconoscente, dichiarava non solo di «accettare» di firmare i trattati «in piena lealtà», ma aggiungeva che «con sincera gioia» la Germania si augurava una pace stabile e il riavvicinamento dei popoli e dei governi, nella convinzione che «solo la pace e la collaborazione possono assicurare l’avvenire e lo sviluppo dei popoli».

Da sin.: G. StresemannA. Chamberlain e A. A. Briand
Alle parole di Stresemann si associarono il delegato francese Aristide Briand (1862-1932) e quello britannico Austen Chamberlain (1861-1937), sottolineando l’importanza per la pace della «cooperazione dei popoli europei», nella convinzione che si dovesse «lavorare in comune in tutti i campi per la realizzazione di un’Europa pacifica, fedele a tutto ciò che rappresenta il suo passato di civiltà e di nobiltà». Anche Benito Mussolini (1883-1945) non esitò a considerare la Conferenza «un avvenimento memorabile, destinato ad affratellare i popoli».

Dall'ottimismo alla cocente delusione

L’azione seria e fiduciosa di Stresemann, Briand e Chamberlain e specialmente l’impegno di Stresemann per la riconciliazione tra i popoli europei e per l’ingresso della Germania nella Società delle Nazioni furono giustamente premiati con l’assegnazione ai tre politici del Premio Nobel per la Pace. Si deve anche riconoscere che nel 1926, con l’entrata in vigore del Patto di Locarno e l’ingresso della Germania nella Società delle Nazioni, cominciò in Europa un intenso periodo di distensione e collaborazione. Lo spirito di Locarno sembrava aleggiare tra le nazioni e niente lasciava presagire l’immane tragedia che le avrebbe colpite nuovamente.

«Quasi tutta l’Europa – ha scritto Sergio Romano – tirò un sospiro di sollievo ed ebbe la sensazione che cominciasse finalmente nella storia del mondo, undici anni dopo lo scoppio della Grande guerra, un capitolo nuovo». Illusione! 

Dieci anni più tardi, però, apparve chiaramente a tutti che lo spirito di Locarno si era dileguato. Lo dimostrava Hitler, da poco al potere in Germania, che il 7 marzo 1936 denunciò gli Accordi sottoscritti ritenendoli una prosecuzione della politica di Versailles e occupò militarmente la Renania; ma lo dimostrò anche Mussolini, che sognava anch'egli l’impero e le colonie. E da allora fu solo una lunga e intensa preparazione della seconda guerra mondiale, la più grave catastrofe dell’umanità.

In realtà, che Mussolini si attendesse altro dalla Conferenza di Locarno non tardò a farlo capire egli stesso. Sperava infatti che la garanzia limitata al confine renano venisse estesa alla frontiera italiana del Brennero, preoccupato di poter avere prima o poi una frontiera comune con la Germania qualora questa avesse deciso di assorbire l’Austria. Ma gli altri partecipanti alla Conferenza non erano d'accordo e glielo fecero capire fin dal suo arrivo a Locarno. 

Infatti, arrivato in motoscafo da Stresa, non ebbe l’accoglienza che forse si aspettava nemmeno da parte della stampa internazionale e della popolazione, sia per il comportamento arrogante delle camicie nere che lo accompagnavano e sia perché in Ticino erano note le violenze squadriste dei suoi fanatici seguaci. Da parte loro, anche i rappresentanti degli Stati si mostrarono nei suoi confronti del tutto indifferenti (ad eccezione del britannico Chamberlain) se non addirittura sprezzanti. Non godeva evidentemente già allora di una buona reputazione. 

Lo «spirito di Locarno» è ancora vivo

Del resto, anche il Consiglio federale rispose tiepidamente al messaggio che il Duce gli aveva inviato prima di metter piede in Svizzera. Rispose, infatti, che «il Consiglio federale Le è gratissimo dell’amichevole saluto rivoltogli e nel mentre Le dà il più cordiale benvenuto sul territorio svizzero, è lieto di constatare che la di Lei presenza a Locarno testifichi in modo così manifesto che la Conferenza Internazionale sta per mettere il proprio sigillo alla grande opera di pace per la quale è stata convocata». Da allora Mussolini non metterà più piede in Svizzera, anche se vi sperò fuggendo precipitosamente da Milano nel 1945.

Lo spirito di Locarno tuttavia non morì, anzi riprenderà vita, sotto nuove forme e incarnato in nuovi personaggi. Subito dopo la seconda guerra mondiale  ricominciò ad aleggiare e prendere forma nella nuova Europa che anche se non ben definita comincia a intravedersi.
Giovanni Longu
Berna, 3 giugno 2025

27 maggio 2025

1925: Un eroe per l’Ambasciata d’Italia a Berna

Con la presa del potere in Italia da parte di Benito Mussolini (1883-1945), il regime fascista cercò di conquistare anche gli italiani emigrati all'estero, per lo più politicamente apatici e alcuni decisamente contrari, creando una rete di sezioni del Fascio (cfr. articolo precedente). Si sa che il primo tentativo di crearne uno anche a Berna, nel 1923, non andò a buon fine, nonostante il sostegno del ministro Carlo Garbasso, capo della Legazione italiana. I promotori ebbero invece successo due anni dopo (21 giugno 1925) in occasione della commemorazione dell’eroe e medaglia d’oro Fulcieri Paulucci de Calboli (1893-1919) nel corso di una manifestazione, un evento che ebbe nella stampa nazionale un’eco enorme, soprattutto per la partecipazione del Consigliere federale Giuseppe Motta (1871-1940), un successo per la numerosa colonia italiana salutata rispettosamente dal governo svizzero.

Giuseppe Motta: una presenza contestata

Berna, lapide con epigrafe di Mussolini in onore di Fulcieri Paulucci de Calboli
sul muro esterno dell'Ambasciata d'Italia a Berna.
La partecipazione di Motta alla manifestazione del 21 giugno 1925, che si svolte nel bel parco della Legazione italiana alla Elfenstrasse di Berna («in una cornice di carpini, piste da bocce, specchi d'acqua bordati da rose in fiore, di fronte ad alti alberi dal fogliame chiaro le cui cime erano mosse da un vento leggero») divenne per molti svizzeri un caso politico, perché era inusuale che un Consigliere federale si recasse in visita ufficiale in un’ambasciata straniera, ma soprattutto perché quel gesto rischiava di apparire un riconoscimento del regime fascista, dal quale il Consiglio federale intendeva invece prendere le distanze e verso il quale era già intervenuto con fermezza.

Alcuni critici insinuarono che il ticinese Giuseppe Motta praticasse nei confronti dell’Italia fascista una «politica condiscendente», ma altri, forse più realisticamente, ritennero ch'egli, amante e sostenitore dell’italianità, pur provando come altri governanti europei una certa simpatia per Mussolini, cercasse solo di evitare i motivi di attrito col regime e di favorire le buone relazioni bilaterali. Bisogna però anche aggiungere che Motta ammirava del giovane Fulcieri soprattutto l’eroismo sul campo di battaglia e ancor più durante la sua malattia. Ricordandolo su un quotidiano ticinese poco dopo la morte, non aveva esitato a considerarlo «un santo sublime, il santo dell’amor di patria», ritenendo che quanto Dante attribuiva nel canto quattordicesimo del Purgatorio al suo antenato Rinieri, a meraviglia s'addicesse all'eroe Fulcieri: «quest’è 'l pregio e l’onore / della Casa da Calboli…».

Non va nemmeno dimenticato che Motta provava una grande ammirazione anche per il padre di Fulcieri, il marchese Raniero Paulucci de Calboli (1861-1931) che era stato Capo Legazione dal 1913 al 1919. In quei sei anni non solo aveva dato alla Legazione italiana una sede stabile acquistando a proprio nome alla Elfenstrasse di Berna i due edifici dell’attuale Residenza e Ambasciata d’Italia, ma aveva dimostrato molta empatia verso gli oltre 200 mila connazionali immigrati spesso sfruttati e nello stesso tempo, durante la guerra, aveva tranquillizzato le autorità svizzere che il governo italiano non solo avrebbe rispettato la «neutralità perpetua» della Svizzera, ma anche gli accordi commerciali col Paese amico.

Consigliere federale Giuseppe Motta, 

Fulcieri, medaglia d’oro ed esempio per gli italiani

Fulcieri, volontario nella prima guerra mondiale, ferito ripetutamente e insignito della medaglia d’oro, era morto il 28 febbraio 1919 in una clinica di Saanen, vicino a Gstaad, nel Cantone di Berna. Con la sua morte, per il padre Raniero era venuta meno la motivazione per restare in Svizzera e lo stesso anno lasciò Berna per recarsi a Tokyo come ambasciatore. Vi ritornò nel 1925 solo in occasione della manifestazione in onore del figlio.

Fotoritratto di Fulcieri Paulucci de Calboli, medaglia d'oro.
La morte di Fulcieri, però, che aveva impressionato l’opinione pubblica nazionale italiana, non lasciò indifferente lo stesso Mussolini, che ne approfittò per esaltarne le virtù eroiche e celebrarne la memoria a Berna, da dove era partito per arruolarsi volontario e dove era stato accolto e assistito amorevolmente dalla famiglia, quando vi ritornò gravemente ferito. Per onorare in maniera esemplare la memoria dell’eroe di guerra e intestare al suo nome la stessa Legazione fu organizzata a Berna una imponente manifestazione nel lussureggiante parco della Legazione a cui parteciparono le rappresentanze di tutte le associazioni fasciste della Svizzera con i loro stemmi tricolori.

Per l'occasione fu distribuito un fotoritratto di Fulcieri in migliaia di copie, con un saluto manoscritto di Mussolini , che diceva fra l'altro: «Al cuore dell'Italia, tutti i cittadini morti in armi sono egualmente cari, tutti i morti in guerra sono egualmente gloriosi ... Di Fulcieri noi non ricordiamo solo il sacrificio estremo e il nome di soldato, ricordiamo la vita perfetta...».

Dedicare la Legazione di Berna alla memoria di Fulcieri sembrò a Mussolini non solo un atto dovuto per ricordare nella sua casa paterna l’eroe nazionale, ma anche un’occasione unica per celebrare l’amicizia italo-svizzera. Per queste ragioni fu lui a dettare l’epigrafe sulla lapide da affiggere sul muro esterno della Legazione («Da questa sua casa paterna - nel santo entusiasmo dell'italica fede - partì volontario per la grande guerra - Fulcieri Paulucci de' Calboli - Qui ritornando crudelmente ferito - e già sacro alla Morte - dopo il glorioso olocausto - diè tutto sè stesso alla Patria») e a insistere per invitare alla cerimonia non solo i delegati delle numerose associazioni fasciste presenti in Svizzera ma anche una rappresentanza del Consiglio federale, anzi proprio il consigliere federale Giuseppe Motta, che non nascondeva una certa ammirazione per Mussolini.

Questo episodio non è ricordato solo da una lapide e da una famiglia molto unita e amorevole (sulla sua tomba Raniero Paulucci de Calboli volle che si scrivesse solo: «Fu il padre di Fulcieri»), ma dalla storia molto interessante della sede diplomatica di Berna (in parte sconosciuta anche agli stessi attuali inquilini), ma soprattutto dalla profonda amicizia che lega ancora due Stati e due Popoli, in cui molti italiani immigrati si sono così bene inseriti da farne parte a tutti gli effetti, in tutti i campi e a tutti i  livelli.

Giovanni Longu
27.05.2025


19 maggio 2025

1920-1940: L'immigrazione italiana in Svizzera durante il fascismo

In Italia il fascismo si affermò sfruttando non solo il malcontento di molti italiani ai quali la grande guerra aveva cambiato la vita, ma anche il loro basso livello linguistico e culturale (analfabetismo altissimo, attorno al 36% a livello nazionale, con punte del 70% al Sud). Molta gente, infatti, male informata, sperava in una ripresa del lavoro e del benessere promessa da Mussolini. Intanto, subito dopo la guerra era ripresa l’emigrazione verso la Svizzera, ma i flussi si ridussero drasticamente quasi subito perché la Svizzera aveva introdotto misure severe di controllo alle frontiere, ma anche perché l’Italia fascista preferiva dirottare l’emigrazione verso le «colonie». Da allora il numero degli italiani presenti in Svizzera si è progressivamente assottigliato fino al minimo storico toccato sul finire della seconda guerra mondiale. Nel frattempo, tuttavia, il regime fascista ha cercato in molti modi di «fascistizzare» gli immigrati rimasti, riuscendovi però solo in parte.

Il fascismo blandì gli immigrati in Svizzera

Casa d'Italia di Zurigo, costruita nel 1930-31.
Probabilmente l’ideologia fascista non ha mai avuto larga presa tra gli immigrati italiani in Svizzera, nonostante la massiccia adesione (circa il 26% degli italiani residenti) ai circa 25 «Fasci» diffusi in tutta la Svizzera, da Chiasso a Zurigo, Berna, Basilea…». È tuttavia innegabile che oltre le istituzioni pubbliche italiane (Legazione e Consolati) molte associazioni aderirono al fascismo, se non altro per averne i benefici finanziari.

Fu infatti sotto il regime mussoliniano che strutture note come «Casa degli Italiani» o «Casa d’Italia» si moltiplicarono non solo in Ticino (dove ce n’erano ben tre), ma in tutta la Svizzera: a Zurigo, Ginevra, Losanna, Berna, Lucerna, Soletta, San Gallo, Neuchâtel, ecc.

Una delle prime e più importanti Case degli Italiani è quella di Zurigo, costruita nel 1930-31 allo scopo di riunire in un unico edificio le sedi del Fascio, delle Organizzazioni giovanili, del Dopolavoro, della Dante Alighieri, dell'orfanatrofio e di altre istituzioni. Il centro era dotato di una grande sala degli spettacoli, di una «mensa popolare del Fascio», di un bar, di una sala da bigliardo, di aule scolastiche, dell’abitazione del custode, ecc. Il fatto che sia sorta a Zurigo è dovuto non solo alla forte presenza di immigrati italiani in questa città e in questa regione, ma anche alla volontà del regime di contrastare l’influenza antifascista dei numerosi operai e intellettuali che avevano il loro punto di riferimento nel già famoso ristorante «Cooperativo».

Mussolini e la Svizzera

Se il fascismo ha potuto diffondersi in Svizzera ed entrare in numerose associazioni fu dovuto soprattutto alla tradizione liberale della Svizzera, tollerante fino alla prova di comportamenti pericolosi per la sicurezza nazionale da parte di stranieri, ma anche a una certa simpatia iniziale delle autorità federali, che vedevano benevolmente l’atteggiamento dichiaratamente anticomunista di Mussolini. Sapendo che anche qualche membro influente del Consiglio federale, addirittura il ministro degli esteri Giuseppe Motta, provava una certa simpatia nei suoi confronti (come risulterà meglio nel prossimo articolo), non poteva che fargli piacere.

Da parte sua, anche Mussolini, soprattutto agli inizi del suo governo, nutriva una certa ammirazione per la Svizzera, che considerava un valido baluardo contro l’influenza tedesca che detestava come una seria minaccia dell’italianità del Ticino. Per questo, ogniqualvolta se ne presentava l’occasione, non lesinava gli elogi alla Svizzera e al suo popolo laborioso e amante della libertà, sottolineando «i sentimenti di fraterna amicizia dell’Italia verso la Svizzera».

Non c’è dubbio che questi atteggiamenti, forse più formali che sostanziali, contribuissero a rinsaldare i rapporti bilaterali tra i due Stati, ma non va né sottovalutata né esagerata la precauzione della Confederazione e dello stesso Dipartimento politico federale diretto da Motta, di evitare per quanto possibile forti contrasti col regime fascista. Questo spiega, per esempio, la tolleranza dei Fasci, il cui Statuto, come si vedrà appresso, non contrastava con le disposizioni costituzionali sulla libertà di associazione, ma anche la decisione del 1923 del Consiglio federale di vietare sul territorio della Confederazione di portare la camicia nera, per evitare scontri con gli antifascisti.

Fascisti e antifascisti

A Mussolini non poteva ovviamente far piacere che la Svizzera ospitasse con una certa facilità numerosi fuorusciti italiani, i quali si dimostravano ben organizzati ed attivi, specialmente attraverso la rete sempre più fitta delle Colonie Libere Italiane; ma sapeva che la tolleranza della Confederazione era subordinata all'impegno dei profughi di astenersi da ogni attività politica che potesse turbare le relazioni fra il Paese di provenienza e la Confederazione, pena l’espulsione.

Nel 1923 il Consiglio federale vietò le manifestazione in camicia nera
Mussolini, però, sapeva anche che il miglior antidoto all'antifascismo era la diffusione del fascismo per cui favorì fin dal 1922 la formazione pure in Svizzera dei Fasci e per evitare eventuali difficoltà di ordine legale o burocratico impose uno «Statuto dei fasci all'estero» (del 29 gennaio 1928), che conteneva ai primi posti questi due «comandamenti»: «1. I fascisti che sono all'estero devono essere ossequienti alle leggi del paese che li ospita. Devono dare esempio quotidiano di questo ossequio alle leggi e dare, se necessario, tale esempio agli stessi cittadini. 2. Non partecipare a quella che è la politica interna dei paesi dove i fascisti sono ospitati».

Infine, va anche ricordato che i rapporti di vertice non influirono significativamente sulla politica immigratoria federale, che continuava ad essere restrittiva, tanto da indurre l’Assemblea federale ad adottare nel 1931 una legge sulla dimora e il domicilio degli stranieri (entrata in vigore il 1° gennaio 1934) che consentiva al Consiglio federe di adottare misure contro il pericolo d'«inforestierimento» della Svizzera, rendendo di fatto inapplicabile il Trattato con l’Italia del 1868. Poco male, visto che l’immigrazione dall'Italia durante il fascismo era quasi ridotta a zero; molto male quando, finita la guerra, la Svizzera spalancherà nuovamente le porte all'immigrazione soprattutto dall'Italia, ma a condizioni ben diverse.

Giovanni Longu
Berna 19.05.2025

14 maggio 2025

1915-18: L’Italia in guerra (terza parte: conseguenze nefaste)

Della prima guerra mondiale (1914-18) nessuno ha più ricordi diretti, delle conseguenze invece sì. Se in questa serie di anniversari significativi se ne riparla non è però solo perché le conseguenze furono indelebili, specialmente per l’Italia, ma anche perché l’opinione pubblica sembra considerare la guerra, anche nel mondo d’oggi, inevitabile e la pace raggiungibile solo con le armi, dunque del più forte. Eppure proprio la conclusione della prima guerra mondiale dovrebbe far capire che non basta vincere per garantire una pace giusta e durevole. L’Italia uscì vincitrice dallo scontro con l’Austria, la Germania e la Russia, ma la pace successiva non fu ritenuta soddisfacente, anzi i nazionalisti guidati da Benito Mussolini parlarono subito di una «vittoria mutilata» … e cominciarono a pensare a una «rivincita». Nel frattempo l’Italia sprofondò in una spaventosa crisi economica, civile e politica, per uscire dalla quale si affidò proprio a Benito Mussolini e al regime fascista, ignorando ovviamente su che strada sarebbe stata condotta.

Perché non basta vincere

Marcia su Roma (28 ottobre 1922) del pittore futurista Giacomo Balla
L’Italia fu tra i Paesi vincitori della prima guerra mondiale, ma non fece tesoro di quanto era costata sia in termini finanziari che, soprattutto, in costi umani. Quella vittoria fu infatti pagata a un prezzo troppo alto: quasi 1.300.000 morti tra militari (oltre 650.000) e civili (quasi 600.000), circa 450.000 mutilati permanenti, 3.000.000 di reduci (cfr. articolo precedente). L’Italia avrebbe dovuto imboccare definitivamente la strada della pacificazione interna e internazionale.

La guerra fu un disastro nazionale non solo per le innumerevoli vite umane sacrificate sull'altare di un nazionalismo insensato, ma anche per lo scontento che generò tra chi aveva combattuto, chi aveva sperato in una vittoria dopo una guerra breve e con poche vittime, chi aveva fatto inutilmente tanti sacrifici e si ritrovava disoccupato, più povero di prima (non solo nel Mezzogiorno, ma anche al Nord) e senza prospettive. «E alla fine di tre anni di guerra civile strisciante sarà Mussolini […] a uscire vittorioso dalla competizione», ma anche a gettare le basi del successivo conflitto mondiale.

Con la fine della guerra andò completamente in crisi il settore industriale che l’aveva alimentata: i comparti cantieristico, siderurgico e meccanico cominciarono a smobilitare lasciando senza lavoro decine di migliaia di operai (molti dei quali emigreranno in Svizzera). L’agricoltura si trovò abbandonata, perché molte terre rimasero incolte (specialmente quelle appartenute alle famiglie dei morti e degli invalidi). Il disagio economico e sociale crebbe ovunque, anche perché il potere d’acquisto delle famiglie diminuiva costantemente a causa dell’inflazione galoppante. Aumentarono i disordini, gli scioperi, le occupazioni di fabbriche, i saccheggi e persino gli scontri a fuoco. La mancanza o carenza di assistenza esasperava i più bisognosi, specialmente nelle regioni centro-meridionali. Le lotte sociali divamparono soprattutto nel triangolo industriale Milano-Torino-Genova. Il futuro stava diventando più incerto che mai per tutti.

Nessuno, nel dopoguerra, sembrava rendersi conto che in quella situazione l’Italia poteva risollevarsi solo unendo le forze, individuando bene le responsabilità di chi aveva voluto la guerra, ma soprattutto proponendo obiettivi di ripresa raggiungibili in un clima di pacificazione e concordia nazionale.

Ne approfittarono i fascisti

I nazionalisti, guidati da Benito Mussolini, erano gli unici che promettevano per l’Italia un avvenire migliore, a condizione tuttavia che il popolo fosse unito in un’unica «nazione» (ovviamente «fascista»), animato dai «sacri valori» della patria e ripudiasse la «lotta di classe», perché la nazione, sosteneva, il «Duce», «contiene la classe di tutte le classi, mentre la classe non contiene affatto la nazione». L’abile retorica mussoliniana e la spregiudicatezza di alcuni suoi seguaci riuscì a fare molti proseliti per opposte ragioni sia tra i diseredati e sia tra la borghesia. Tra la seconda metà del 1920 e i primi mesi del 1921 l’offensiva dei fascisti prese vigore.

Non è possibile qui rievocare le varie fasi che portarono all'affermazione del regime fascista di Mussolini in Italia, ma si può sostenere che quell'esito fu possibile non solo a causa della spregiudicatezza dei metodi usati dai fascisti, ma anche a causa dell’inconsistenza e alla mancanza di compattezza delle opposizioni liberale, popolare-cattolica e socialista (benché alle elezioni del 1919 il PSI avesse ottenuto il 32% dei voti e il Partito popolare, specialmente dopo la scissione del Partito Socialista e la nascita del Partito Comunista d’Italia (21.01.1921). Eppure, alle elezioni politiche del 1919 il Partito Socialista Italiano aveva ottenuto il 32% dei voti e il Partito Popolare Italiano di don Sturzo il 20%, mentre i fascisti non erano riusciti a eleggere alcun rappresentante.

Nel 1921-22 le bande fasciste sparsero terrore un po’ ovunque ma specialmente in Romagna. La crisi politica precipitò e il governo Bonomi fu costretto a dimettersi. La sua successione normale fu resa impossibile dai veti incrociati di alcuni partiti e il re Vittorio Emanuele III il 30 ottobre 1922 dovette dare l’incarico di formare il nuovo governo a Benito Mussolini, che due giorni prima aveva organizzato la «Marcia su Roma».

L’avvento del fascismo e le sue conseguenze sono oggetto di intere biblioteche ed esulano dagli intenti di questa serie di articoli, ma non si potrà dimenticare che il regime tenterà di «fascistizzare» anche gli emigrati, compresi quelli immigrati in Svizzera, di cui si tratterà nel prossimo articolo.

Giovanni Longu
Berna, 14.05.2025

01 maggio 2025

Primo Maggio: donne sempre in prima fila

Credo che tutti sappiano che la festa del Primo Maggio è nata in America, a Chicago (Illinois), nel 1867, quando fu data applicazione a una legge approvata l’anno precedente con cui si limitava il tempo di lavoro a otto ore giornaliere. La legge concerneva tutti, lavoratori e lavoratrici, ma a farla propria furono soprattutto i primi perché era l’epoca della rivoluzione industriale e nelle fabbriche e nei cantieri c’erano soprattutto lavoratori. Quando la notizia arrivò in Europa i socialisti tentarono di impadronirsene, suscitando però non poche opposizioni negli ambienti del nascente movimento femminista.

Femminismo sì, ma non «rivoluzionario

L’aspirazione a una società in cui le donne non fossero in alcun modo discriminate era molto sentita in tutti i Paesi europei e in ognuno di essi dalla secondo metà del XIX secolo cominciarono a nascere associazioni di donne per rivendicare i loro diritti. Per esempio, all’interno della Lega per la pace e la libertà, che era stata creata a Ginevra nel 1867 ed era dominata dall’Associazione internazionale dei lavoratori, le donne pretesero una sezione femminile: l’Associazione internazionale delle donne, proposta, realizzata e guidata per diversi anni da Marie Goegg Pouchoulini, allora redattrice del periodico della Lega intitolato Les Etats-Unis d'Europe, Stati Uniti d’Europa.

Non è il caso di ripercorrere anche solo sommariamente le tappe del movimento femminista, ma non si può ignorare che fin dai suoi inizi le donne hanno voluto essere in prima fila nelle lotte per il rispetto della loro dignità e l’affermazione dei loro diritti, anche in Svizzera. Basti pensare che già l’Associazione internazionale delle donne, mirava al raggiungimento della parità fra i sessi nella formazione, nella vita professionale e sul piano del diritto civile e del diritto del lavoro. Un’altra associazione, l'Unione delle donne svizzere per la promozione della moralità (e specialmente per combattere la prostituzione), sorta nel 1877 per iniziativa di svizzere riformate, rivendicava oltre a una riforma morale anche maggiori diritti per le donne. La Società femminile svizzera di utilità pubblica, sorta nel 1888, si batté per la formazione professionale delle donne e aprì a Zurigo una scuola per infermiere e a Niederlenz una scuola femminile di giardinaggio.

A imprimere in Europa un’accelerazione alle lotte femministe sono state soprattutto alcune donne rivoluzionarie russe come Anna Kuliscioff, Angelica Balabanoff, Alexandra Kollontai e altre, ma non a tutte le donne, in Occidente, piaceva il femminismo russo, perché rivoluzionario e spesso intriso di marxismo e anticlericalismo. In Svizzera, per esempio, non piaceva all'Unione popolare cattolica svizzera, che nel 1912 fondò l'Unione svizzera delle donne cattoliche per proseguire le rivendicazioni sulla morale e l'utilità pubbliche. Il femminismo rivoluzionario non piaceva neanche alle associazioni di operaie cristiano-sociali, fondate nel 1899, che alla lotta di classe preferivano le riforme condivise.

Femminismo riformista

Il femminismo rivoluzionario non piaceva però neppure alla Federazione svizzera delle lavoratrici, che nel 1911 festeggiò per la prima volta la giornata internazionale socialista della donna (precorritrice dell'8 marzo) per rivendicare pacificamente il suffragio femminile. Prima di ottenerlo passeranno ancora parecchi decenni, ma nel frattempo andavano migliorando costantemente anche per le donne la sicurezza sul lavoro, il trattamento salariale, la formazione professionale, ecc.

A giusta ragione oggi si può dunque festeggiare, in Svizzera come altrove, anche se la strada per la piena uguaglianza non solo sul lavoro ma anche nella società sembra ancora lunga. Si deve però essere certi che le donne saranno ancora e sempre in prima linea per rivendicare una società più giusta, più libera e più umana, ma soprattutto per attuare le riforme che a gran voce le donne, ma anche molti uomini, reclamano per sé e per tutti. E' il caso di dire, parafrasando quanto andava dicendo papa Francesco, che ci si salva solo insieme, non gli uni contro gli altri.

Giovanni Longu
1° maggio 2025

25 aprile 2025

LIBERAZIONE da che cosa? Per fare che cosa?

Nella celebrazione del 25 aprile, in cui si celebra l’80° della Liberazione si corre facilmente il rischio di «ricordare», non senza un pizzico di orgoglio, quel che è avvenuto in Italia 80 anni fa, raccontando atti di eroismo dei partigiani e di chi ha contribuito, insieme agli Alleati, alla liberazione dell’Italia dalla sopraffazione nazifascista. Si ricorda anche, giustamente, il forte desiderio del popolo italiano di riavere le libertà democratiche che il regime aveva soppresso.

In questa parte rievocativa la retorica gioca sempre un ruolo importante, perché ai lettori o ascoltatori piacciono i racconti delle lotte per la libertà, degli atti eroici di partigiani mal equipaggiati contro eserciti ben armati, della sollevazione corale delle città come dei piccoli centri, del mito della Resistenza. Poche rievocazioni, invece, raccontano come la Liberazione sia avvenuta, quanto odio e desiderio di vendetta l’abbia accompagnata, la guerra civile, quanto sangue sia stato versato, quanto sia stato difficile ritornare alla (quasi) normalità.

Ciò che solitamente si dimentica di più è tuttavia di rispondere in maniera se non esaustiva almeno sufficientemente completa alla domanda fondamentale: «per fare che cosa?”: perché si è combattuto con armi impari? perché si è versato tanto sangue? perché si sono sollevate in forma corale tutte le popolazioni dell’Italia occupata? Eppure una risposta c’è, anche se non è semplice: certamente per ridare agli italiani la libertà, per far rivivere in Italia la democrazia, per dare al popolo italiano una Costituzione antifascista, ma anche per garantire a tutti il diritto al lavoro, il diritto fondamentale alla salute, l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, la pari dignità senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

In molte rievocazioni pubbliche della Liberazione si dimentica o si accenna appena alle domande precedenti perché alcune risposte risulterebbero insoddisfacenti. Basti pensare, per fare un esempio, al diritto al lavoro e all'incapacità di tutti i governi che si sono succeduti di garantirlo. Si dovrebbe spiegare perché milioni di italiani sono dovuti emigrare per avere un lavoro e una dignità. Oggi, è vero, molte disparità si sono attenuate o sono addirittura scomparse, ma altre sono riemerse forse accentuandosi. La povertà in Italia oggi è forse più stridente di 80 anni fa. Il diritto allo studio non è affatto garantito per tutti in ugual misura. La stessa democrazia, invece di garantire una reale partecipazione del popolo a stabilire le sorti del Paese (sovranità popolare), è diventata vittima di schieramenti illiberali contrapposti. La libertà del dissenso è fortemente limitata. Gli esempi potrebbero essere molti di più.

In conclusione, forse bisognerebbe trasformare la celebrazione della Liberazione almeno con l’aggiunta di un attento esame di coscienza, delle istituzioni e dei cittadini, perché gli obiettivi non sono stati affatto raggiunti se non in misura minimale.

Giovanni Longu

23 aprile 2025

1915: Conferenza di Zimmerwald (5-8.9.1915)

Prima di trattare di una delle più gravi conseguenze indirette della prima guerra mondiale, l’avvento del Fascismo in Italia, mi sembra opportuno ricordare un evento poco noto organizzato 110 anni fa in Svizzera, a cui parteciparono numerosi socialisti europei: la Conferenza di Zimmerwald o Prima conferenza internazionale socialista. Essa viene qui rievocata non tanto per evidenziare un incontro che pur avendo avuto un certo seguito non raggiunse gli obiettivi che si proponeva, soprattutto quello di fermare la guerra, quanto piuttosto per ricordare che all'inizio del secolo scorso il socialismo riusciva ad aggregare in Svizzera molti immigrati (spesso in competizione con le Missioni cattoliche bonomelliane) e servì a gettare ponti con la sinistra organizzata svizzera, che sosteneva fra l’altro politiche immigratorie progressiste.

Perché in Svizzera?

Perché la Svizzera, nonostante fosse fin dal 1815 neutrale e attenta a mostrarsi come tale, era anche un Paese molto accogliente nei confronti di stranieri rivoluzionari, anarchici, perseguitati, rifugiati politici. Si sa che furono molti ad approfittarne a cominciare da Giuseppe Mazzini, Michail Bakunin, tedeschi, italiani, polacchi, russi, ecc. Alla vigilia della prima guerra mondiale erano migliaia gli esuli che avevano trovato rifugio nella Confederazione. Alcuni sono ancora oggi famosi come Wladimir Uljanow Lenin o Lev Trotskij, altri sono meno noti come Luigi Bertoni, Anna Kuliscioff, Angelica Balabanoff, ecc.

In Svizzera tenevano incontri, conferenze, congressi, stampavano libri e riviste, anche se la Confederazione esercitava su di essi una discreta sorveglianza. Gli interessati a questi personaggi e agli eventi che li hanno visti come protagonisti in Svizzera, osserveranno facilmente che i nomi più ricorrenti riguardano uomini. Sarebbe tuttavia sbagliato concludere che la scarsa frequenza di nomi dell’altro sesso corrisponda a una scarsa influenza delle donne su quegli eventi. Esse furono infatti non meno protagoniste degli uomini, come risulterà da un prossimo articolo, benché le cronache e le successive rievocazioni storiche abbiano riservato loro meno spazio e meno importanza, anche nella storia dell’immigrazione.

Per rispondere alla domanda «perché in Svizzera?» bisogna anche ricordare che la classe colta russa conosceva bene la Svizzera e i rapporti bilaterali erano consolidati ormai da secoli. Del resto era una consuetudine frequente che molte ragazze russe, che non potevano proseguire gli studi universitari nella Russia autocratica zarista, s’immatricolassero nelle università svizzere. Per esempio, nel semestre invernale 1906-1907 negli atenei svizzeri risultavano immatricolati, accanto a 2660 studenti svizzeri (maschi e femmine), 2322 russi (maschi e femmine), ma mentre le studentesse svizzere erano appena 172, quelle russe erano ben 1507.

Va anche ricordato che gli eventi russi successivi al 1917 furono in gran parte preparati all'estero, come dimostra facilmente la biografia di Lenin, che trascorse in Svizzera circa sei anni e mezzo, prima di rientrare nel 1917 a San Pietroburgo per prendere la guida delle Rivoluzione (cfr. articolo del 19 marzo 2025).

Perché Zimmerwald?

Anche a questa domanda la risposta è semplice. Siccome la Svizzera neutrale non voleva che sul suo territorio si organizzassero eventi che avrebbero potuto creare difficoltà diplomatiche, gli organizzatori svizzeri guidati da Robert Grimm cercarono un luogo piuttosto appartato e di non facile accesso, soprattutto allora. Zimmerwald dev'essere apparso un luogo ideale (come lo sarà l’anno seguente per il seguito della conferenza Kiental, pure nel Cantone di Berna). 

Angelica Balabanoff (1878-1965)
Per precauzione, tuttavia, la piccola carovana di rappresentanti di diversi partiti socialisti europei, prima di partire da Berna dove si erano dati appuntamento sparsero la voce di voler partecipare a un incontro di ornitologia in quanto rappresentanti di un’associazione ornitologica. Trotsky ricorderà quel breve viaggio in quattro carrozze con un po’ d’ironia, facendo notare che mezzo secolo dopo la fondazione della Prima Internazionale «tutti gli internazionalisti potevano entrare in quattro carrozze».

Zimmerwald era ed è tuttora un piccolo villaggio del Cantone di Berna, che acquistò notorietà dopo la conferenza, che si tenne dal 5 all'8 settembre 1915, alla quale aveva partecipato una folta delegazione russa di cui facevano parte fra gli altri Lenin (1870-1924) e Lev Trotsky (1879-1940). Del Partito socialista italiano parteciparono solo esponenti contrari alla guerra come Angelica Balabanoff (1878-1965), Oddino Morgari Giuseppe Emanuele Modigliani,  Costantino Lazzari e Giacinto Menotti Serrati.

Di Angelica Balabanoff, personaggio chiave del socialismo italiano e delle conferenze internazionali di Zimmerwald e Kienthal (1916) si parlerà ancora in altro articolo. Qui basti ricordare che per alcuni anni fu anche di grande sostegno all’immigrazione italiana in Svizzera operando da quella centrale zurighese che fu il Ristorante «Cooperativo». Era però anche una rivoluzionaria che non esitava a criticare le condizioni di lavoro e di vita soprattutto dei lavoratori immigrati. Ritenuta una «pericolosa bolscevica» e una minaccia alla pace sociale, nel 1918 fu espulsa dalla Svizzera applicando l’articolo 70 della Costituzione federale allora vigente, che prevedeva l’espulsione dal territorio svizzero di quelle persone «che mettono a pericolo la sicurezza interna od esterna della Confederazione».

Bisogna anche aggiungere che la Balabanoff, marxista e anticlericale, criticava aspramente non solo le istituzioni svizzere, ma anche alcune organizzazioni che operavano in ambito sociale e religioso in favore degli immigrati, specialmente le Missioni cattoliche avviate da Monsignor Geremia Bonomelli (1831-1914), contrapponendo di fatto il Socialismo («la nostra grande utopia») marxista al Cattolicesimo e inimicandosi una parte consistente degli immigrati italiani.

La centrale di Zurigo

Per comprendere meglio l’ambiente degli immigrati italiani fino alla prima guerra mondiale è opportuno ricordare che negli ultimi decenni dell’Ottocento e nel primo decennio del Novecento gli immigrati italiani in Svizzera erano in forte crescita (nel decennio 1900-1910 gli italiani passarono da 116.693 e 202.809) e si concentravano soprattutto nelle grandi agglomerazioni. La maggiore concentrazione, escluso il Ticino, era quella del Cantone di Zurigo con rispettivamente 12.205 e 22.240 italiani.

Interno del mitico ristorante Cooperativo, abbellito da quadri di Comensoli
Bisogna aggiungere che a Zurigo i molti italiani sentivano fortemente l’esigenza di ritrovi, di ristoranti e centri di italianità, dove incontrarsi e stare insieme. Fu così che un gruppo di immigrati fondarono nel 1905 la Società Cooperativa Italiana di Zurigo con annesso un ristorante. Lo scopo della Cooperativa era di "rafforzare la Cooperazione Socialista", quello del ristorante di offrire pasti salutari e a buon mercato agli operai italiani.

Il Coopi o Copi, come veniva chiamato abitualmente, divenne un importante punto d’incontro non solo di italiani perché lo frequentarono socialisti, anarchici, politici e intellettuali di sinistra, provenienti da diversi Paesi europei. Tra i frequentatori più famosi ci sono stati Benito Mussolini, quando era ancora militante socialista, Giacomo Matteotti, Wladimir Uljanow Lenin Angelica Balabanoff, Antonio Gramsci, Filippo Turati, Pietro Nenni, Giuseppe Saragat, Ignazio Silone, Bertolt Brecht, Max Frisch. In tempi più recenti erano di casa anche il grande sindacalista svizzero Ezio Canonica, il pittore italo-svizzero Mario Comensoli, politici come Dario Robbiani, l’ex Consigliere federale Moritz Leuenberger e molti altri personaggi della sinistra.

Il «Cooperativo» si dotò presto anche di una libreria e di un organo di stampa, L'Avvenire dei Lavoratori, molto diffuso (e ancora pubblicato, purtroppo solo sotto forma di newsletter) e, durante il regime fascista, fu l'unico foglio socialista italiano edito fuori dalla clandestinità. Oggi, purtroppo, anche la sede storica del Cooperativo ha chiuso i battenti.

Giovanni Longu
Berna 23.04.2025

 




22 aprile 2025

Papa Francesco: un pastore coraggioso

Papa Francesco (1936-2025) ci ha lasciato il 21 aprile 2025, all'età di 88 anni, dopo averci dato la benedizione Urbi et Orbi e consegnato un ultimo messaggio pasquale, il giorno prima, Domenica di Pasqua. Non so con quali sostantivi e aggettivi sarà ricordato di preferenza, ma se dovessi sceglierne uno tra quelli che gli sono stati attribuiti finora la mia preferenza andrebbe a «pastore» e «coraggioso».

E’ stato infatti un pastore di anime che ha sempre cercato di custodire con coraggio il gregge che il Padre, tramite il Collegio cardinalizio, gli aveva affidato il 13 marzo 2013, dai molti lupi che hanno tentato in vari modi di dividerlo e trasformarlo in fazioni contrapposte, attribuendogli atteggiamenti mutuati dal linguaggio politico, senza rendersi conto che la Chiesa non è identificabile con alcun regime politico. Papa Francesco ha sempre difeso con convinzione il Popolo di Dio, non le sue prerogative di capo della Chiesa, addirittura rinunciando all'appartamento papale al terzo piano del Palazzo apostolico in Vaticano, preferendo la più modesta sistemazione nella Casa Santa Marta.

Egli è stato un pastore coraggioso perché ha ricordato ai fedeli e alla Chiesa non solo il cammino (come ricerca del senso della vita), talvolta difficile, doloroso, esigente (e su cui la pastorale tende a soffermarsi a lungo), ma anche la meta: la Salvezza, la Resurrezione, il Regno di Dio, «l’incontro con il Signore Gesù» (di cui si parla poco). In questa ottica papa Francesco ha voluto dedicare l’Anno Santo 2025 al tema «Pellegrini di speranza» perché «la speranza cristiana non illude e non delude, essendo fondata sulla certezza che niente e nessuno potrà mai separarci dall'amore divino».


Papa Francesco è stato un pastore coraggioso perché ha cercato di far capire al Popolo di Dio, che ci si salva camminando insieme, pregando insieme, sperando insieme, in comunione anche con gli altri cristiani non cattolici e persino con i non cristiani. Ha sottolineato in più occasioni che la solidarietà cristiana è un'espressione fondamentale dell'amore e della comunione, come conseguenza dell'essere membra del corpo di Cristo e tutti figli dello stesso Padre («Fratelli tutti»!): «ci si salva soltanto insieme, incontrandosi, negoziando, smettendo di combattersi, riconciliandosi, moderando il linguaggio della politica e della propaganda, sviluppando percorsi concreti per la pace».

Papa Francesco è stato un pastore coraggioso perché non ha cercato solo di mettere in sicurezza la comunità delle persone che lo seguivano fedelmente, geograficamente vicine e lontane, ma ha cercato anche le persone smarrite, quelle allontanate da prospettive illusorie, ma soprattutto quelle discriminate per tanti pregiudizi, soprattutto i poveri, i malati, gli anziani, gli emarginati, i migranti, le persone trans e omosessuali, perché anch’essi figli di Dio e nel Popolo di Dio non ci sono figli di serie A e di serie B, non esistono persone da discriminare e da scartare. La Chiesa non discrimina nessuno. 

Papa Francesco ha dimostrato tutta la vita di essere rispettoso, accogliente, aperto al dialogo con tutti, nella Chiesa e fuori, perché andava ripetendo, specialmente negli ultimi tempi, ci si salva camminando insieme e solidarizzando con tutti, perché «Dio salva tutti». Nella Chiesa non ci sono «scarti». Non lo ammette la solidarietà cristiana e umana, non lo ammette il Vangelo. Semmai, ripeteva papa Francesco, siamo tutti peccatori, tutti abbiamo conti in rosso, siamo tutti debitori di Dio. La sua vita è stata una testimonianza coraggiosa del Vangelo. Specialmente negli ultimi giorni di vita non ha nascosto la sua malattia e le sue difficoltà a muoversi e a parlare.

Papa Francesco è stato un pastore coraggioso perché ha detto senza esitazione ai potenti della terra che «la pace è un bene prezioso, oggetto della nostra speranza, al quale aspira tutta l'umanità», che nessuna pace è possibile senza un vero disarmo, che la giustizia non risponde alla legge del più forte (secondo cui «il potente mangia il più debole»), che il negoziato è un atto di coraggio. Al contrario, riteneva la guerra ignobile, un trionfo della menzogna e dell'interesse, una sconfitta per tutti e che la corsa al riarmo è ingiustificata e dannosa. Sapeva che i suoi auspici non avrebbero avuto seguito, ma non si stancava di continuare a sperare.

Infine, papa Francesco è stato un pastore così coraggioso che anche durante la malattia ha pregato e lavorato per la Chiesa. Il giorno di Pasqua, vigilia del decesso, non ha voluto rinunciare alla benedizione Urbi et Orbi e al suo ultimo giro in papamobile tra i fedeli presenti in piazza San Pietro, come se, prima della sua definitiva partenza, volesse salutarli e abbracciarli tutti, uno per uno, anche quelli che non potevano essere presenti fisicamente. Credo che in questo abbraccio si siano riconosciuti in molti, anche non cattolici e non cristiani.

Grazie, papa Francesco. R.I.P.