25 novembre 2025

1950: La dichiarazione Schuman e l’UE

Rievoco volentieri questo 75° anniversario perché la dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950 è stata fondamentale per la nascita dell’Unione europea. Sebbene mirasse in primo luogo alla riconciliazione franco-tedesca, ha segnato anche l’avvio del processo di unificazione dell’Europa, tuttora in divenire. Schuman dichiarò nel Parlamento francese che il Governo intendeva proporre alla Germania la messa in comune delle risorse di carbone e di acciaio dei due Paesi, in una organizzazione aperta a tutti i Paesi d’Europa. In quella dichiarazione apparivano chiari non solo l’idea che l’Europa potesse ricomporsi e consolidarsi pacificamente, ma anche il metodo da seguire. Pur partendo da una imprescindibile riconciliazione tra Francia e Germania, l’obiettivo non era una comunità a due, ma una comunità economica e politica aperta a tutti i Paesi europei. La riconciliazione franco-tedesca doveva costituire la prima tappa di una federazione europea alla quale anche l’Italia e persino la Svizzera «neutrale» erano interessate.

L’idea del Trio Schuman-Adenauer-De Gasperi

«La pace mondiale non potrà essere salvaguardata senza sforzi creatori che siano all'altezza dei pericoli che la minacciano. Il contributo che un'Europa organizzata e viva può apportare alla civiltà è indispensabile al mantenimento delle relazioni pacifiche. […] L’Europa non è stata fatta, abbiamo avuto la guerra. L'Europa non si farà d’un tratto, né in una costruzione globale: essa si farà con delle realizzazioni concrete, creando anzitutto una solidarietà di fatto. L’unione delle nazioni europee esige che l'opposizione secolare fra la Francia e la Germania sia eliminata… » (Schuman, 9 maggio 1950). Il progetto di Robert Schuman fu approvato dal Parlamento francese, ma fu sostenuto anche dai leader dei due maggiori Paesi continentali (Germania e Italia): Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi.

Ho già scritto altre volte del Trio Schuman-Adenauer-De Gasperi che è all'origine dell’Unione Europea (UE). Ne scrivo nuovamente in occasione del 75° della dichiarazione dell’allora Ministro degli esteri Schuman al Parlamento francese 75 anni fa, perché l’UE, visibilmente in crisi d’identità e di prospettive, purtroppo sembra allontanarsi dall'idea originaria di «Unione» e dallo spirito di quella dichiarazione. Il Trio aveva ben presente i danni della seconda guerra mondiale ma anche della prima e per impedire il ripetersi di quegli eventi disastrosi aveva intravisto la via della pace, dell’unione e dello sviluppo come soluzione possibile e necessaria. Francamente, non mi sembra che l’UE stia percorrendo la stessa strada. Credo che una riflessione al riguardo di ciascun europeo possa contribuire a rendere gli organismi comunitari più democratici e più responsabili.

I risultati finora raggiunti dall'Unione europea voluta da quel Trio sono sotto gli occhi di tutti: la pace è stata salvaguardata, è terminata la «guerra fredda», l’Unione si è allargata e rafforzata, lo sviluppo ne è ancora un propulsore efficiente sebbene indebolito. Ciò nonostante, la Commissione, come altre istituzioni europee, invece di proseguire armoniosamente il cammino segnato, sviluppando la solidarietà e la collaborazione, sembrano rincorrere i fantasmi delle guerre passate e rischiano di commettere gli stessi errori.

Infatti, chi non vede nell'UE di oggi una crescita dei nazionalismi? Chi approva l’autoriduzione dell’Europa con la rinuncia alla Russia europea e la ripresa su vasta scala della «guerra fredda»? E chi non avverte che il riarmo esorbitante proposto dai vertici UE finirà per sollevare nuovi venti di guerra, favorendo fra l’altro alcuni Paesi (quelli con maggiori possibilità di spesa) a scapito di altri meno facoltosi? Chi non vede i rischi d’implosione dell’UE, perché si parla sempre più di una Unione a due o più velocità e alcuni Paesi si domandano se non sia preferibile seguire l’esempio della Gran Bretagna, mentre altri s’interrogano seriamente se convenga ancora restare uniti ai tradizionali alleati, visto che l’ordine mondiale sta evolvendo verso un mondo multipolare? E quanti Stati membri dell’UE, di fronte alle crescenti difficoltà, sono disposti a cedere anche solo una piccola parte di sovranità nazionale a beneficio di un’Unione sovranazionale sempre più debole?

L’esempio della guerra russo-ucraina è emblematico

Sono convinto che la guerra russo-ucraina si sarebbe potuta evitare se l’UE fosse stata più forte e autonoma adoperandosi per far rispettare gli accordi di Minsk del 2014 e 2015, tanto più che alcune «potenze» (in particolare Francia e Germania) se ne erano rese garanti sotto l’egida dell'OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa). Non è questo il luogo e il momento per chiedersi chi non li ha osservati, ma ritengo che l’UE avrebbe potuto agire almeno su una parte, l’Ucraina, che certamente non li ha osservati con motivazioni nazionalistiche e forse anche perché si sentiva coperta dalla protezione dell’Unione e della NATO a cui intendeva aderire.

Oggi, per fortuna, si comincia seriamente a parlare di pace e non capisco come a molti responsabili dell’UE sfugga che è meglio sacrificare un pezzo di territorio che vite umane (militari e civili), che la condizione della neutralità parzialmente disarmata come è stata provvidenziale per certi Paesi potrebbe esserlo anche per l’Ucraina, che le relazioni di buon vicinato valgono più di certe amicizie lontane niente affatto disinteressate, che uno sviluppo comune anche parziale è preferibile a una lotta fratricida, che non è affatto disdicevole una certa equidistanza da Stati Uniti e Russia, avendoli più come partner che come protettori.

Alla Commissione Europea verrebbe da chiedere perché in questi anni di guerra non si è mai adoperata seriamente a mediare tra le posizioni ambiziose di Putin e le richieste talvolta farneticanti di Zelensky. Eppure argomenti per una soluzione pacifica del conflitto ce n’erano. Sarebbe bastato riprendere alcuni punti degli Accordi di Minsk in cui si prevedeva, per esempio, il rispetto dei diritti fondamentali (come previsto dalla Carta dell’ONU) della minoranza russofona, l’organizzazione di elezioni libere nel Donbass, la decentralizzazione dei poteri, uno statuto speciale per le regioni di Donetsk e Lugansk, il diritto all'autodeterminazione linguistica, la neutralità dell’Ucraina, ecc.

Perché l’UE e i Paesi occidentali hanno tollerato così a lungo una guerra insensata e disastrosa, preferendo imporre alla Russia severe sanzioni e sostenere finanziariamente e militarmente l’Ucraina nell'illusoria speranza di una vittoria, alimentare in Europa la paura di un’invasione russa e giustificare spese spropositate per un riarmo generalizzato dei Paesi europei?

Credo che abbiano ragione quanti ritengono tale riarmo e la Commissione che l’ha richiesto una sciagura per l’UE e un oltraggio allo spirito dei fondatori, che volevano solo la pace e lo sviluppo solidale del continente dall'Atlantico agli Urali. Perché nessuno Stato membro sembra credere nella forza della riconciliazione e della solidarietà? Perché si continua a preferire ambizioni impossibili e pericolose piuttosto che affrontare responsabilmente la realtà? Perché si lascia predicare impunemente a qualche Commissario che per avere la pace bisogna prepararsi alla guerra? Perché non ci impegniamo tutti, giorno per giorno, per una pace «disarmata e disarmante», come ha indicato al mondo papa Leone XIV all'inizio del suo pontificato (8.5.2025)?

Giovanni Longu
Berna 25.11.2025

19 novembre 2025

1945: Svizzera chiama Italia (seconda parte)

L’accordo italo-svizzero verbale del 1945 mostrò quasi subito il suo limite perché la Svizzera era scontenta dei ritardi con cui arrivavano i lavoratori richiesti a causa della farraginosa burocrazia italiana e l’Italia non gradiva che il reclutamento avvenisse per lo più nominalmente da parte delle imprese svizzere direttamente nelle regioni del Nord, specialmente Lombardia e Veneto, sottraendo personale qualificato alle industrie che si apprestavano alla ripresa. All'Italia però non conveniva protestare perché in quel momento sembrava prioritario ridurre i rischi della disoccupazione e questo sbocco migratorio sembrava provvidenziale, tanto più che la Svizzera guardava con interesse al mercato del lavoro italiano. Per questo la Legazione di Berna aveva autorizzato i datori di lavoro svizzeri a reclutare anche direttamente in Italia il personale di cui avevano bisogno.

L’Accordo di emigrazione del 1948

Allo scopo di «mantenere e sviluppare il movimento emigratorio tradizionale dall'Italia in Svizzera» (prevalentemente stagionale), appianare le divergenze recenti e regolare meglio i flussi (limitando, per esempio, il reclutamento individuale a vantaggio di quello collettivo tramite i canali ufficiali e col controllo della Legazione e degli uffici consolari), il governo italiano chiese alla Svizzera un accordo scritto, che sarà poi sottoscritto il 22 giugno 1948: «Accordo tra la Svizzera e l’Italia relativo all'immigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera».

Al riguardo mi sembra opportuno ricordare che l’Accordo non riguardava l’emigrazione/immigrazione italiana in Svizzera in tutte le sue forme e durata, ma solo la parte, sia pure prevalente, «stagionale» o comunque temporanea, come bene indicava il primo articolo: «Il presente accordo si applica all'immigrazione in Svizzera di mano d'opera stagionale o ammessa a titolo temporaneo».

Le autorità italiane ne erano ovviamente consapevoli e forse non dispiaciute, perché le istituzioni politiche e sindacali, anche di sinistra, erano convinte della necessità dell’emigrazione per evitare possibili conflitti sociali e nella speranza di raggiungere presto la piena occupazione, grazie agli effetti del famoso «Piano Marshall». In tal modo si sarebbe risolto il problema dell'emigrazione alla radice. 

In Svizzera, invece, soprattutto tra le associazioni italiane di sinistra, si discuterà per decenni su questa limitazione dell’immigrazione italiana, dimenticando sistematicamente che al momento della firma dell’Accordo le autorità italiane praticamente non avevano altra scelta. Del resto, molti stagionali erano  soddisfatti di poter lavorare in Svizzera qualche stagione, guadagnare, risparmiare e rimpatriare con un bel gruzzolo. E poiché sapevano che a fine stagione dovevano rientrare in Italia, è ragionevole supporre che la massa degli stagionali non pensasse minimamente d’integrarsi in questo Paese «ospite».

Quanto alle autorità svizzere, erano sicuramente soddisfatte di quell'Accordo perché non intendevano affatto liberalizzare l’immigrazione, chiedevano solo (o prevalentemente) lavoratori «stagionali» (possibilmente giovani e non sposati) e sapevano che all'Italia non dispiaceva, perché era come ossessionata dal possibile aumento della disoccupazione e di eventuali conflitti sociali e, almeno in quelle trattative, non avrebbe potuto chiedere  niente di più. Del resto, in Svizzera, l’artefice principale dell’intesa era un ex rifugiato politico, un grande antifascista, capo della Legazione italiana (dal 1953 Ambasciata), Egidio Reale (1888-1958), molto sensibile alle problematiche degli immigrati e molto stimato sia dal governo italiano che da quello svizzero.

Egidio Reale (1888-1958)
Se l’Italia non avesse avuto il problema della disoccupazione e degli esuberi, probabilmente il tema degli stagionali sarebbe stato ridimensionato o trattato diversamente o forse non si sarebbe neanche posto. La storia, però, com'è noto, non si fa con i «se». Del resto, quell'Accordo fu ben visto e approvato non solo dalla Svizzera (che grazie ad esso poteva attingere quasi a volontà a una sorta di «serbatoio» di lavoratori pronti per essere impiegati dall'economia svizzera e senza rischi d'inforestierimento, come esigevano la menzionata legge federale del 1931 e il mandato negoziale del 1945), ma anche dall'Italia (che, in quel momento, non aveva praticamente sbocco migliore alla manodopera eccedentaria, anche senza contare sulla probabile ricaduta economica in Italia delle cospicue rimesse degli emigrati).

Clandestini e irregolari

Per le stesse ragioni, non dovrebbe scandalizzare che gli impegni assunti dalla Svizzera fossero oltremodo contenuti (erano loro che chiedevano manodopera, stabilivano i requisiti e fissavano il quadro di riferimento) e dovrebbe far riflettere se, nonostante alcuni giudizi negativi di qualche associazione italiana di allora e di qualche critico isolato di oggi), dopo quell'Accordo aumentarono in Svizzera gli immigrati italiani, sia quelli regolari che quelli irregolari (ossia di persone che, per evitare le lungaggini burocratiche, arrivavano qui col semplice passaporto turistico.

Al riguardo mi sembra opportuno ricordare che si trattava di un fenomeno ben noto alle autorità, con la differenza che quelle italiane le ritenevano uscite «clandestine», mentre quelle svizzere entrate «irregolari», (facilmente) regolarizzabili. Era infatti notorio che numerose imprese svizzere cercavano manodopera e molti italiani pensavano che bastasse entrare in Svizzera per trovare un posto di lavoro, magari tramite conoscenze, per lo più compaesani o anche associazioni, Consolati, Missioni cattoliche italiane. In molti casi tuttavia la ricerca non raggiungeva lo scopo sperato e il rientro in patria era inevitabile.

Per la Svizzera, come detto, non si trattava di «clandestini», ma al massimo di «irregolari», la cui regolarizzazione non poneva in genere grandi difficoltà, a condizione che disponessero di un contratto di lavoro valido. C’era anche, fin dal 1945, una parte di immigrazione «clandestina», ma era molto esigua perché i clandestini sapevano di correre il rischio di essere individuati ed espulsi.

In conclusione: italiani venuti… perché chiamati!

Gli accenni precedenti, per quanto frammentari e sommari, lasciano facilmente intuire che l’immigrazione italiana in Svizzera nel secondo dopoguerra non sia stata affatto un’operazione semplice, ma nemmeno tanto problematica, come invece certe ricostruzioni farebbero pensare. Benché in quel periodo il lavoro abbondasse, non è affatto vero che bastava presentarsi all'ufficio del personale di un’azienda per chiedere un lavoro e ottenerlo.

In questo contesto, è comprensibile che qualche immigrato abbia riassunto la sua prima esperienza migratoria affermando di essere venuto qui come turista, in realtà con l’intenzione di cercare un lavoro e di averlo ottenuto. Ma anche in questi casi non va dimenticato che, secondo le leggi e i regolamenti esistenti allora e anche dopo, l’assunzione della manodopera estera era sempre accompagnata da una richiesta e dalla relativa autorizzazione delle autorità competenti per il rilascio dei permessi di soggiorno e la registrazione nei registri della Polizia degli stranieri (e magari «schedati»). 

In effetti, soprattutto nei primi decenni del dopoguerra, gli immigrati italiani sono arrivati qui a decine di migliaia (a metà degli anni Sessanta costituivano più del 50% della popolazione straniera) perché l’economia svizzera aveva assoluto bisogno di loro, erano richiesti! Quelli che sono rimasti lo hanno fatto per una loro libera scelta, si sono integrati, molti hanno acquisito la doppia cittadinanza e sono diventati a pieno titolo italiani e svizzeri con un «passato migratorio»!

Giovanni Longu

11 novembre 2025

1945: Svizzera chiama Italia (prima parte)

«A quanti sostengono ancora che l’emigrazione italiana del secondo dopoguerra fu una sorta di fuga dall'Italia di povera gente alle prese con la disoccupazione e il sottosviluppo del Mezzogiorno, alla disperata ricerca di lavoro in Svizzera, andrebbe ricordato che fu la Svizzera a richiedere contingenti di manodopera italiana prima ancora che fosse terminata la guerra». Così scrivevo in una nota sul Corriere del Ticino del 14.11.2012. Lo confermo con qualche precisazione, nell'intento di apportare alla storia dell’immigrazione italiana in Svizzera qualche elemento di verità in più rispetto a una diffusa narrazione fondata su alcuni pregiudizi di «storici» contemporanei, per esempio la semplificazione di una estrema facilità di trovare lavoro in Svizzera (come se non esistesse una frontiera svizzera ben controllata) o la contrapposizione insanabile tra immigrati (italiani) sfruttati e svizzeri capitalisti e sfruttatori, per altro senza alcuno sforzo di comprensione della mentalità, delle paure e delle istituzioni svizzere del secondo dopoguerra.

Situazione italiana e svizzera alla fine della guerra

L’Italia era uscita dalla guerra perdente e malconcia, con un apparato industriale semidistrutto o da convertire e comunque fortemente condizionato dalla scarsità di materie prime e di carburanti (carbone, petrolio e derivati), con più di due milioni di disoccupati soprattutto al Nord, una agricoltura arretrata e con una popolazione poco istruita (l’analfabetismo era ancora molto diffuso). Le vie d’uscita erano essenzialmente due: ottenere rapidamente aiuti esterni o emigrare. Poiché gli Alleati non approvarono l’accordo commerciale concordato tra l’Italia e la Svizzera il 10 agosto 1945, a molti italiani non rimaneva che l’alternativa di emigrare. Ma dove emigrare?

Grazie alla sua neutralità, la Svizzera, era uscita piuttosto bene dalla guerra, con un’infrastruttura industriale e commerciale efficiente e si trovò subito sommersa di richieste di beni e servizi provenienti da molte parti d’Europa, che però non riusciva a fornire. Per riuscirvi aveva urgente bisogno di accrescere la capacità industriale, di sostituire nell'agricoltura la manodopera che si era trasferita nel secondario più sicuro e meno soggetto a imprevisti, di sviluppare il terziario che reclamava anch'esso risorse umane, soprattutto nei comparti prima coperti da personale germanico.

Soprattutto le grandi aziende e le organizzazioni dei contadini, degli albergatori e degli industriali insistevano sul governo, tramite l’Ufficio federale dell'industria, delle arti e mestieri e del lavoro (UFIAML), perché autorizzasse il reclutamento di manodopera straniera, «l’unica al momento in grado di coprire il fabbisogno urgente di personale delle aziende».

In passato, per soddisfare esigenze di questo tipo la Svizzera aveva reclutato manodopera soprattutto nei Paesi confinanti (Germania, Austria, Francia e Italia). Ora però il mercato del lavoro di questi Paesi, ad eccezione di quello italiano, era in buona parte bloccato perché gli Alleati non lasciavano emigrare tedeschi e austriaci e la Francia era essa stessa alla ricerca di manodopera. Solo il mercato del lavoro italiano era disponibile.

Trattative facili con l’Italia

Nell'autunno del 1945 il Consiglio federale autorizzò le trattative con i vari Stati, indicando tuttavia alcuni principi inderogabili, ad esempio che la ricerca avvenisse dapprima tra i lavoratori svizzeri, che gli stranieri venissero assunti alle stesse condizioni salariali e lavorative degli svizzeri e che i governi interessati garantissero la disponibilità a riaccogliere i propri connazionali qualora non fossero stati più necessari alla Svizzera.

Anche se non compare in alcun documento ufficiale è presumibile che tra le raccomandazioni delle autorità federali ci fosse anche di fare molta attenzione alle idee politiche degli stranieri per evitare che tra gli immigrati s’infiltrassero fascisti, bolscevichi (comunisti), ricercati per reati comuni, attivisti e contestatori che avrebbero potuto creare un allarme sociale.

In questo atteggiamento delle autorità svizzere è facile vedere non solo la volontà di evitare il rischio della disoccupazione e del disagio sociale in caso di una eventuale recessione (prevista da molti economisti per l’immediato dopoguerra), ma anche l’intenzione della Confederazione di gestire direttamente (e non tramite i Cantoni) la politica migratoria in modo da garantire la «pace del lavoro» raggiunta nel 1937 e la lotta all'inforestierimento come imponeva la legge sugli stranieri del 1931. Questo significava, ad esempio, che (quasi) tutti i permessi di lavoro e di soggiorno fossero stagionali e non a tempo indeterminato.

Fin dai primi contatti con la Legazione italiana (che sarà elevata al rango di Ambasciata nel 1953) non fu difficile trovare subito un accordo informale, perché i rapporti italo-svizzeri in materia di immigrazione erano stati soprattutto nel passato (quasi sempre) buoni e durante la guerra i buoni uffici della Svizzera avevano facilitato la resa dei tedeschi in Italia («operazione Sunrise», cfr.  https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2025/11/1945-2025-80-anni-fa-loperazione-sunrise.html). E poiché era urgente per entrambe le parti che i flussi migratori cominciassero subito, si derogò dalla forma dell’accordo formale. L’UFIAML, esaminate le richieste provenienti dai vari settori (tanti muratori, tanti carpentieri, tanti contadini, ecc.), le inoltrò immediatamente alla Legazione, che a sua volta le trasmise agli organi competenti in Italia (uffici del lavoro, uffici di collocamento, ecc.).

Inizialmente le richieste furono soddisfatte con urgenza, tant'è che un primo contingente di 300 immigrate valtellinesi, destinate a sostituire la tradizionale manodopera germanica in alcuni comparti del terziario, giunse in Svizzera già nel 1945. Le richieste e i relativi permessi aumentarono negli anni successivi: nel 1946 vennero rilasciati a italiani ben 36.271 permessi di soggiorno, diventati 126.548 nel 1947, senza contare i permessi prolungati. (Segue)

Giovanni Longu
Berna 11.11.2025

01 novembre 2025

1945-2025: 80 anni fa l’Operazione Sunrise

Recentemente Papa Leone XIV è intervenuto nuovamente per condannare le gravi violazioni del diritto internazionale e del diritto umanitario in nome di un «presunto diritto di obbligare gli altri con la forza», sebbene questo sia «indegno dell’uomo e vergognoso per l’umanità». Le allusioni ai conflitti in atto e ai loro responsabili sono evidenti. Ma anche al comune cittadino non sfugge che dietro ogni conflitto importante, specialmente in Europa e in Medio Oriente, si cela una drammatica e pericolosissima ripresa della «guerra fredda» tra Stati Uniti d’America e Russia. Sono già intervenuto più volte sul conflitto russo-ucraino e conto di intervenirvi ancora, anche se resta ben poco da aggiungere, se non augurarsi che finisca presto e i protagonisti siano coperti d’ignominia. È comunque difficile essere ottimisti perché sembra ripresa, pericolosamente, la «guerra fredda». In questo articolo desidero rievocare un anniversario rivelatore dei contrasti già esistenti sul finire della seconda guerra mondiale tra gli «alleati» statunitensi e sovietici: l’«operazione Sunrise».

L’operazione Sunrise: i fatti

Fin dal 1944 ai generali tedeschi appariva chiaro che non potevano combattere su tre fronti: ad ovest, a sud e ad est, per cui fu deciso di ritirarsi dal fronte meridionale. Le trattative segrete per la resa incondizionata delle forze armate tedesche (che contavano ancora circa 800.000 uomini) in Nord Italia furono avviate nella primavera del 1945 in Svizzera, a Berna, grazie alla mediazione di un nobile italiano, il barone Luigi Parrilli (1890-1954) e un ufficiale svizzero, Max Weibel (1901-1971), ma si svolsero prevalentemente nel Ticino (soprattutto a Lugano e ad Ascona), principalmente tra il generale tedesco Karl Wolff (1900-1984 ), comandante delle SS in Italia e Allen W. Dulles (1893-1969), capo dell'intelligence americana a Berna, convinto anticomunista e futuro direttore della CIA.

Da parte alleata si voleva la resa incondizionata delle forze armate tedesche (che contavano ancora circa 800.000 uomini) in Nord Italia, da parte tedesca si chiedeva che il ritiro in Germania dei tedeschi avvenisse ordinatamente senza spargimenti di sangue. In cambio, i tedeschi garantivano (contravvenendo agli ordini di Hitler di fare «terra bruciata») che non avrebbero distrutto il sistema industriale del Nord Italia né compiuto violenze sui prigionieri anglo-americani.

Come prova di buona fede, Wolff s’impegnò con Dulles a liberare due importanti prigionieri: Ferruccio Parri, vicecomandante del Comando generale dei Volontari per la Libertà, e Antonio Usmiani, ufficiale di collegamento del Regno del Sud. L’8 marzo 1945 Parri e Usmiani furono consegnati agli svizzeri. Poiché Hitler aveva intuito l'avvio di trattative senza un suo ordine, convocò d'urgenza Wolff a Berlino, che si giustificò asserendo di agire per dividere gli alleati. Questo gli salvò la vita. 

Le trattative rischiarono tuttavia di arenarsi quando alla testa del Gruppo Armate tedesche in Italia al posto del feldmaresciallo Albert Kesselring fu nominato il generale Heinrich von Vietinghoff, che però condividendo i piani di Wolff, fece riprendere le trattative. Il 19 marzo fu concordato ad Ascona il cessate il fuoco e il 20 aprile 1945 il generale von Vietinghoff ordinò alla Wehrmacht il ripiegamento verso l'Alto Adige mentre le forze della Repubblica Sociale cercarono di ritirarsi in Valtellina (fuga terminata con la fucilazione di Mussolini).

Rievoco questo anniversario non tanto per ricordare che allora in Svizzera, Paese neutrale, si svolgeva una vasta attività di spionaggio internazionale e nemmeno per evocare il successo di quegli incontri segreti, noti come «Operazione Sunrise» («Alba») che si svolsero a Berna e nel Ticino, quanto piuttosto per evidenziare come già allora i rapporti tra sovietici e statunitensi erano minati da una reciproca diffidenza, paura e incertezza sul loro futuro, e che segnarono, secondo alcuni studiosi, l’origine della «guerra fredda».

Origine della «guerra fredda»

Secondo l’ex diplomatico e storico Sergio Romano, la speranza di Wolff, almeno nella fase iniziale dei colloqui, sembrava quella di riuscire a persuadere Dulles «che il vero nemico era l’Unione Sovietica e che le forze tedesche sarebbero state felici di schierarsi con gli Alleati contro la “minaccia bolscevica”». Già da questa percezione si può ben capire che l’alleanza tra anglo-americani e sovietici era tutt'altro che solida.

La conferma giunse proprio all'inizio del negoziato quando Churchill ritenne opportuno (in base agli accordi della Conferenza di Casablanca del gennaio 1943) di informare della trattativa i sovietici, ma gli americani si opposero alla partecipazione di tre ufficiali che il ministero degli esteri sovietico aveva già designato.

Gli americani ritenevano che ai sovietici non dovesse interessare quel che succedeva sul fronte meridionale in quanto le forze di liberazione in Italia erano principalmente anglo-americane. In realtà agli anglo-americani non piaceva che i sovietici, ormai vicini a Berlino, vi entrassero da soli mentre gli alleati occidentali ne erano ancora lontani, e pertanto non sarebbe loro dispiaciuto se le divisioni liberate dal fronte meridionale fossero state schierate sul fronte orientale, come temevano i sovietici, e avessero contribuito così a rallentare l’avanzata dell’Armata Rossa.

Churchill, Roosevelt e Stalin.
Prime avvisaglie del futuro scontro

Sulla questione intervennero direttamente anche Stalin, Roosevelt e Churchill, protraendo notevolmente il negoziato fin quasi a vanificare l’operazione «Sunrise», ma ormai era evidente che la loro alleanza era in crisi e finita la guerra si sarebbe rotta definitivamente. Prima, però, gli americani, consapevoli delle mire espansionistiche di Stalin e preoccupati delle sorti di gran parte dell’Europa orientale, cercarono di far capire ai sovietici, che soltanto gli USA erano la potenza dominante, la superpotenza.

Per darne un’evidente dimostrazione, non solo rifiutarono la partecipazione sovietica all'operazione Sunrise e non rinunciarono subito dopo la guerra al processo politico intentato al «padre della bomba atomica» Robert Oppenheimer per presunte simpatie comuniste, ma non esitarono neppure a gettare su Hiroshima e Nagasaki due bombe atomiche micidiali, provocando oltre 210.000 morti e 150.000 feriti, nonostante gran parte degli esperti militari anche americani ritenessero i giapponesi in procinto di arrendersi. Così, purtroppo, cominciava la prima «guerra fredda».

Giovanni Longu
Berna 26.10.2025

13 ottobre 2025

1945: 80 anni del diritto internazionale

Quest’anno ricorre non solo l’80° anniversario dell’istituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), ma anche l’80° anniversario della nascita del diritto internazionale moderno, che ha nella Carta (o Statuto) delle Nazioni Unite (firmata il 26 giugno 1945 ed entrata in vigore il 24 ottobre 1945) una delle fonti principali. Lo Statuto ONU fu infatti il primo atto giuridico internazionale della storia a riconoscere i diritti fondamentali della persona e dei popoli e può essere considerato la Costituzione della comunità internazionale. Inoltre, fanno riferimento all'ONU quasi tutte le convenzioni giuridiche che traducono in termini vincolanti per gli Stati i diritti enunciati nella Dichiarazione Universale dei diritti umani, adottata il 10 dicembre 1948 dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Fa capo all'ONU la Corte internazionale di giustizia e anche la Corte penale internazionale (istituita a Roma nel 2002) ha molti legami con l’ONU. Pertanto, dire, come ha detto un membro autorevole del governo italiano (Antonio Tajani, ministro degli affari esteri!), che «il diritto internazionale è importante, ma conta fino a un certo punto» è semplicemente una scempiaggine.

Il diritto internazionale

Non è facile dare una definizione precisa del «diritto internazionale» (perché presuppone nozioni chiare e condivise di «diritto», «popolo», «Stato», «autorità», «internazionale», ecc.), per cui quasi sempre i media aggirano il problema presumendone negli utenti una sufficiente conoscenza. Di fatto le varie nozioni restano vaghe, dando origine spesso a confusioni anche gravi, tant'è che molti ritengono per «diritto internazionale» alcuni principi e regole che disciplinano le relazioni tra gli Stati, escludendo qualsiasi riferimento ai diritti umani, cioè al diritto delle persone e dei popoli, che pure costituiscono una parte integrante del diritto internazionale.

La cronaca di questi ultimi anni ha fornito due esempi macroscopici di questa concezione limitata e fuorviante. Si è parlato fino a pochi giorni fa della guerra mediorientale come se si trattasse di uno scontro tra due eserciti e due Stati, invece di parlare chiaramente della reazione spropositata di uno Stato a un’offesa gravissima ma circoscritta e dell’aggressione di uno Stato contro una popolazione civile inerme senza Stato e senza esercito, al limite del genocidio. Non si è quasi mai parlato apertamente della violazione del diritto del popolo palestinese alla sopravvivenza, a una patria e a uno Stato. Non è in alcun modo sostenibile affermare il diritto di un popolo ad esistere e negarlo a un altro, pur condannando senza alcuna riserva il male fatto a un popolo sopravvissuto alla Shoah.

L’altro esempio di un’evidente violazione del diritto internazionale è la guerra russo-ucraina, che ha finito per essere percepita (da molti, soprattutto in Occidente) come un conflitto provocato da un aggressore, la Russia, a danno di uno Stato democratico, l’Ucraina. Purtroppo anche in questo caso manca spesso nell'opinione pubblica il riferimento al nazionalismo presente tanto in Russia quanto in Ucraina, alla mancanza del rispetto dei diritti umani in entrambi gli Stati, alle violazioni dei principi fondamentali dell’ONU come il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali, la risoluzione pacifica delle controversie, il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzioni di razza, di sesso, di lingua o di religione, ecc.

Entrambi gli esempi citati meriterebbero un’attenta analisi alla luce dei principi fondamentali enunciati nello Statuto dell’ONU, ma per aiutare il lettore a formarsi un proprio giudizio su quanto è avvenuto tra Israele e il popolo palestinese e sta ancora avvenendo tra Russia e Ucraina (e ovviamente in casi analoghi) sarà sufficiente qualche riferimento al documento più importante del diritto internazionale, lo Statuto dell’ONU.

Principi fondamentali dell’ONU

Nell'articolo precedente sulla nascita dell’ONU ho già indicato la «missione» dell’ONU, ossia «mantenere la pace», garantire «i diritti fondamentali dell’uomo nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole», «promuovere il progresso economico e sociale di tutti i popoli…» (cfr. (https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2025/10/1945-80-anni-fa-nasceva-lonu.html) . 

Nello stesso articolo ho indicato pure alcuni limiti forse insuperabili dell’ONU, ma alla fine ho anche ricordato che la sua forza sta probabilmente nel recupero del suo spirito originario dello Statuto, ben sintetizzato nel Preambolo dello Statuto e in alcuni articoli, in cui sono evidenziati in particolare: il ripudio della guerra fonte di «indicibili afflizioni», l’aspirazione di milioni di persone a «vivere in pace l’uno con l’altro in rapporti di buon vicinato» e nel «rispetto del principio dell’uguaglianza dei diritti o dell’autodecisione dei popoli», a «impiegare strumenti internazionali per promuovere il progresso economico e sociale di tutti i popoli», a riaffermare «la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole», a rispettare e osservare «i diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione».

In conclusione

Basterebbero questi pochi riferimenti per consentire a chiunque di giudicare quanto le guerre e le offese alle popolazioni civili inermi siano contrarie al diritto internazionale e prive di qualsiasi giustificazione giuridica e morale, soprattutto quando oltrepassano il principio della proporzionalità. Nell'esempio del conflitto mediorientale questo principio è stato tragicamente violato anche con la complicità dei sostenitori di Israele, ma non assolve Hamas dai crimini perpetrati. Non assolve però nemmeno chi avrebbe potuto fermare sin dall'inizio l’eccidio dei palestinesi e non l’ha fatto, anche se tardivamente è intervenuto per porre fine alla carneficina e alla palese violazione di ogni diritto. Si può persino provare disgusto, nel giorno in cui si celebra la fine dei combattimenti, vedere che ad arrogarsene il merito siano gli stessi che li hanno voluti provocando morte, distruzione e innumerevoli scene apocalittiche.

Anche la guerra russo-ucraina è una evidente violazione da parte della Russia del diritto internazionale che proibisce «l’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite», ma non si possono dimenticare anche le violazioni del diritto internazionale da parte dell’Ucraina nelle regioni orientali del Paese, per il mancato rispetto nei confronti dei russofoni «dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali [...], senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione».

Questo non deve far ritenere che se tutti sono colpevoli nessuno è colpevole, ma piuttosto indurre tutti, ma veramente ognuna e ognuno, ad avere rispetto della persona umana, dei suoi diritti legittimi, della sua aspirazione a vivere in pace e a impegnarsi per promuovere la pace, la tolleranza, il rispetto reciproco, la prosperità comune, la solidarietà, la collaborazione, la fratellanza universale. Bene fanno, sotto questo profilo, le folle che manifestano in vari modi non violenti solidarietà e sostegno alle popolazioni che soffrono ancora in diverse parti del mondo il flagello della guerra.

Giovanni Longu
Berna 13.10.2025

07 ottobre 2025

1945: 80 anni fa nasceva l’ONU

Quando il 23 settembre 2025 ho sentito il discorso del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di fronte all'Assemblea dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), che ne metteva in dubbio l’utilità, mi sono chiesto se fosse consapevole del danno che stava procurando alla massima istituzione sovranazionale partorita dalla mente di un suo predecessore, Roosevelt, poco più di 80 anni fa e attivata il 24 ottobre 1945 dopo la seconda guerra mondiale. Capisco che l’ONU sia un organismo invecchiato (come tutti i nati in quegli anni), poco agile, bisognoso di cure, ma non mi sembra da demolire, senza aver prima trovato un successore, come fu l’ONU stessa rispetto alla Società delle Nazioni (SdN) creata il 28 giugno 1919, dopo la prima guerra mondiale. Sotto questo aspetto sono stati più bravi i Tre Grandi della seconda guerra mondiale (Roosevelt, Churchill e Stalin) quando soprattutto nelle conferenze a Teheran e a Yalta si accordarono per sostituire la SdN, prima di sacrificarla. Ma forse Trump ha un progetto nuovo, innovativo, oppure non vuole alcun organismo sovranazionale e di garanzia o ne vorrebbe uno ma solo a sua immagine e somiglianza. Dio ce ne scampi!

«Missione» chiara dell’ONU

Il presidente degli Stati Uniti d’America (USA) Donald Trump ha certamente ragione quando ritiene che l’ONU sia invecchiata, debole e poco efficiente, ma la sua critica diventa inaccettabile quando non propone nulla per migliorarla e non tiene conto che senza questa istituzione il mondo tornerebbe non alle condizioni di prima della seconda guerra mondiale, ma a una situazione di totale ingovernabilità perché prenderebbe il sopravvento la legge del più forte e ad approfittarne sarebbero solo pochi Stati, tre dei quali hanno in pugno già adesso buona parte delle sorti del mondo.

Il problema dell’ONU non è la sua scarsa efficacia, ma gli ostacoli che proprio i tre maggiori Stati (USA, Russia e Cina) creano al buon funzionamento di un organismo che andrebbe certamente migliorato, ma non abolito. Le domande da porsi dovrebbero essere: Perché l’ONU è debole? È possibile renderla più efficiente ed efficace? È auspicabile una trasformazione dell’ONU? 

Di seguito cercherò da rispondere, ovviamente con la soggettività inevitabile in questo tipo di risposte, partendo dal presupposto che la «missione» dell'ONU è chiara: «mantenere la pace»garantire «i diritti fondamentali dell’uomo nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole»«promuovere il progresso economico e sociale di tutti i popoli…».

Perché l’ONU è debole?

L’ONU è debole essenzialmente perché i fondatori non volevano dar vita a un organismo forte che avrebbe potuto dare loro fastidio ed evidentemente ci sono riusciti. Infatti, se è vero che è l’ONU che dovrebbe garantire la pace e il diritto internazionale, è altrettanto vero che ogni decisione presa dal Consiglio di Sicurezza, l’organo decisionale più importante dell’ONU, dovrebbe essere adottata all'unanimità dei cinque membri permanenti Cina, Francia, Russia, Regno Unito e Stati Uniti, ciascuno col diritto di veto. È dunque praticamente impossibile decidere alcunché contrario agli interessi dell’uno o dell’altro dei cinque Paesi.

Per capire la portata di tale situazione è giusto ricordare che il Consiglio di Sicurezza è l'unico organo dell'ONU che può prendere decisioni vincolanti per gli Stati membri e che può imporre sanzioni o autorizzare l'uso della forza. Questo spiega, per esempio, perché l’ONU non interviene per far cessare la guerra tra Russia e Ucraina e lo sterminio dei palestinesi che Israele (sostenuto dagli Stati Uniti) compie impunemente nella Striscia di Gaza.

Il Consiglio di Sicurezza non interviene neanche in altri conflitti perché evidentemente almeno uno dei contendenti è legato strettamente all'uno o all'altro membro permanete del Consiglio di Sicurezza. In questa situazione l’ONU non ha alcun potere di intervento efficace.

È possibile rendere l’ONU più efficace?

Sala del Consiglio di sicurezza dell'ONU.
In teoria è possibile, ma in pratica no. Poiché i principali elementi di debolezza dell’ONU sono la composizione e i poteri del Consiglio di Sicurezza, in teoria basterebbe eliminare il privilegio del diritto di veto dei cinque Membri permanente e far decidere l’intero Consiglio composta da 15 membri a maggioranza. In pratica è impensabile privare di tale diritto uno o tutti i membri permanenti o anche solo limitarlo, introducendo per esempio la maggioranza qualificata.

Da tempo si discute su come riformare e modernizzare l’organizzazione per renderla più efficiente, più agile, efficace e rappresentativa, ma non si arriverà mai a eliminare gli ostacoli principali perché nessuna delle grandi potenze (per es. USA, Russia, Cina) accetterebbe di essere considerata alla stregua di ogni altro Stato membro dell’ONU.

È auspicabile una trasformazione dell’ONU?

A questo punto si potrebbe anche discutere se sia davvero auspicabile in questo momento una trasformazione radicale dell’ONU. Ritengo che non lo sia perché, nel clima di nuova guerra fredda, soprattutto tra Stati Uniti e le altre due grandi potenze (che tendono ad avvicinarsi), la possibilità di una guerra non più convenzionale per la supremazia sarebbe molto più reale e incerta di 20-30 anni fa.

Non si tratta tuttavia di rinunciare a qualsiasi tentativo di migliorare l’ONU, perché alcune riforme significative si possono fare, ma molto dipenderà più che dalla responsabilità degli Stati (troppo sovranisti e nazionalisti) dalla sensibilità, dal coraggio e dalle iniziative dei Popoli in modo che ridiventino i veri protagonisti delle relazioni internazionali, titolari dei diritti e dei doveri indicati dall’attuale Statuto dell’ONU: «Noi popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra,… a sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-decisione dei popoli, e prendere altre misure atte a rafforzare la pace universale…».

Giovanni Longu
Berna 3.10.2025

22 settembre 2025

Conferenza di Yalta 1945: origine della «guerra fredda»

La Conferenza di Yalta di 80 anni fa (4-11 febbraio 1945) ha avuto nella storia europea un peso di cui è difficile, soprattutto per le giovani generazioni, rendersi conto oggi. Vi parteciparono i leader dei tre principali Paesi alleati nella guerra contro il nazifascismo: Franklin D. Roosevelt (USA), Iosif Stalin (URSS) e Winston Churchill (Gran Bretagna) che, intravvedendo la prossima fine della guerra da vincitori, volevano accordarsi soprattutto sull'assetto mondiale del dopoguerra. Prima di questo incontro ce n’era stato un altro a Teheran (28.11- 1.12.1943). In essi furono prese decisioni importanti riguardanti soprattutto la Germania (da dividere in quattro zone d’occupazione, di cui una francese perché la Francia liberata si era aggiunta agli Alleati nella fase finale della guerra), la convocazione della conferenza di San Francisco per la creazione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) e la definizione delle sfere d'influenza in Europa (e praticamente nel mondo). Questi incontri servirono anche al riconoscimento reciproco delle due «superpotenze» USA e URSS (quella britannica era considerata ormai al tramonto) e all'avvio della lunga fase della «guerra fredda» tra il blocco occidentale a guida statunitense e il blocco orientale a guida sovietica. Le conseguenze di tali decisioni furono talmente importanti che ne risente persino il clima geopolitico di oggi, benché nel frattempo sia assurta a superpotenza anche la Cina. Per capirne la portata occorre ricordare sommariamente la situazione europea dal 1942 al 1945.

L’Europa dal 1942 al 1945

Yalta 1945: I «Tre Grandi» (da sin.): Churchill, Roosevelt e Stalin.
Fino all'inverno 1941 le armate tedesche dominavano gran parte dell’Europa occidentale e orientale fino a Stalingrado, ma molti ritenevano che il dominio nazista avrebbe potuto estendersi oltre, soprattutto dopo l’intervento antiamericano del Giappone (attacco a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941), se la Germania nazista e i suoi principali alleati (Italia e Giappone) non fossero stati fermati. Soprattutto i «Tre Grandi» convenuti a Teheran e a Yalta erano però convinti che la Germania nazista poteva essere vinta, intervenendo sia a est (URSS) che a sud e a ovest (USA, Gran Bretagna, Canada e successivamente anche la Francia).

L’incontro di Yalta, una cittadina della Crimea, fu voluto specialmente da Stalin (URSS) per dimostrare che senza l’Unione Sovietica la guerra avrebbe potuto non essere vinta o sarebbe durata molto più a lungo. L’Armata Rossa, infatti, dopo aver sconfitto i tedeschi a Stalingrado in una furibonda battaglia durata mesi (con perdite enormi da entrambe le parti) e dopo aver liberato gran parte degli Stati dell’Europa orientale (Bielorussia, Polonia, Ucraina, Cecoslovacchia, Romania, ecc.) avanzava con una certa facilità verso Berlino, da cui distava ormai solo 80 chilometri, mentre gli eserciti degli Alleati occidentali, sbarcati in Sicilia (10 luglio 1943) e in Normandia (giugno 1944), erano ancora lontani centinaia di chilometri e in Italia la risalita degli Alleati era bloccata sulla Linea Gotica.

L’avanzata costante dell’Armata Rossa fece capire da una parte che solo quell'alleanza era in grado di sconfiggere tedeschi e giapponesi, ma dall'altra che non avrebbe retto a lungo perché i metodi basati sulle epurazioni etniche con cui l’URSS imponeva il suo regime alle popolazioni «liberate» erano incompatibili con i metodi applicati dagli Alleati occidentali. L’URSS infatti liberava sì gli Stati prima invasi e sottomessi dai nazisti, ma si comportava poi non diversamente da loro soprattutto nei confronti delle popolazioni tedesche e dei presunti collaboratori negli Stati alleati/satelliti della Germania.

La «guerra fredda»

Churchill nel 1946, a Zurigo, auspicò gli «Stati Uniti d'Europa»
In effetti l’alleanza URSS-USA durò poco. Finita la guerra, le due parti in concorrenza per l’egemonia europea e mondiale (perché di questo si trattava), non fecero nulla per avvicinare i loro punti di vista e risolvere concordemente altri problemi del mondo. Anzi le divergenze aumentarono e nel 1947, alla Conferenza di Londra dei ministri degli esteri delle quattro Potenze occupanti la Germania, fu Winston Churchill a battezzare la linea di separazione tra Occidente e Oriente «cortina di ferro» che divideva l’Europa da Stettino a Trieste.

La fine della guerra, tra le innumerevoli conseguenze, lasciò in eredità al mondo anche l’esistenza di due superpotenze (fino ad allora alleate per sconfiggere il nazismo) e di due blocchi ideologici, economici e militari, destinati a un conflitto permanente per la supremazia, passato alla storia con l’espressione «guerra fredda», a tratti molto intensa, anche senza ricorso alle armi, pur alimentando una enorme corsa agli armamenti da entrambe le parti.

Gli Stati liberi da quel momento non ebbero altra scelta che riferirsi all'una o all'altra superpotenza. All'Europa, il principale teatro di guerra, non fu data nemmeno questa possibilità perché fu divisa e a ciascuna parte fu praticamente imposto da che parte stare… fino alla caduta del muro di Berlino (1989) e alla dissoluzione dell’Unione Sovietica (1991). 

La situazione europea: reazione preoccupante!

Sebbene oggi la situazione europea sia notevolmente cambiata, suona decisamente strana e preoccupante la recente affermazione della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen mentre parlava dello stato dell'Unione: «L'Europa è impegnata in una lotta per un continente integro che viva in pace, per un'Europa libera e indipendente. Una lotta per i nostri valori e le nostre democrazie, per la libertà e la capacità di scrivere da soli il nostro destino».

Trovo tale affermazione «strana» perché la presidente della Commissione UE sembra non rendersi conto che nessun Paese dell'UE è in stato di guerra, nessun Paese UE deve lottare per la propria libertà e indipendenza, in nessun Paese è minacciata la democrazia e l'affermazione dei propri valori essenziali. Ma tale affermazione è soprattutto «preoccupante» perché la presidente della Commissione UE parla come se ogni Stato dell'Unione fosse in guerra contro un Paese nemico che, anche senza nominarlo, è facilmente individuabile nella Russia, sebbene questa non gli abbia mai dichiarato guerra o l'abbia minacciato direttamente. 

È preoccupante perché la presidente della Commissione UE si arroga il diritto (purtroppo senza opposizione) di decidere i confini (orientali) del continente europeo, cancellando una parte rilevante della storia europea (soprattutto il contributo determinante della Russia alla liberazione dal nazifascismo), e di perdere una parte consistente della penisola dell'Eurasia a tutto vantaggio della Cina. È preoccupante perché non riesce ad ammettere le vere debolezze dell'UE, quelle di non avere più personalità come il trio dei fondatori (Schuman, De Gasperi, Adenauer), di non avere una politica estera comune, di non avere una politica di difesa concordata, di non avere una sovranità «popolare», di non avere una costituzione, di non essere uno Stato.

Ma l'affermazione della presidente della Commissione UE è «preoccupante» soprattutto perché di fatto (e senza opposizione significativa) costringe i Paesi dell'UE a un riarmo costoso e spaventoso, ad investire centinaia di miliardi in armamenti, come se la guerra l'aspetti da un momento all'altro, e pensasse di proteggere il fianco est con un «muro di droni» (come se non potesse essere valicato da armi ancora più potenti). Purtroppo Ursula von der Leyen sembra non rendersi conto che in questo modo contraddice lo spirito e la lettera della Carta delle Nazioni Unite (che ha per principale scopo di «salvare le future generazioni dal flagello della guerra») e gli stessi Trattati istitutivi dell'UE che mirano al consolidamento della pace e dello sviluppo internazionale.

Possibile che nell'Unione europea non si sia nemmeno tentato di risolvere la controversia russo-ucraina per via diplomatica, senza ricorso alle armi, senza vedere solo da una parte il fallimento degli accordi di Minsk? Possibile che il ripudio della guerra non stimoli la ricerca di alternative all'uso delle armi?  Mancano le idee o mancano le personalità in grado di realizzarle? Ma l'UE vuole davvero la pace o lo scontro militare con la Russia?

Recuperare il senso della «comunità»

Papa Francesco, profeta inascoltato!
Probabilmente alle conferenze di Teheran e di Yalta nessuno pensava che le zone d’influenza sarebbero durate così a lungo. Oggi le «due» zone cercano di resistere all'usura del tempo e ai mutamenti della storia, che ha visto nel frattempo l’affermazione della Cina e di altri Paesi degli Stati cosiddetti Brics, ma i vari responsabili occidentali non sembrano ancora rendersi conto che il mondo è già oggi multipolare e che la forza non è più rappresentata dalla potenza militare, ma dalle buone relazioni, dalla solidarietà internazionale, dalla capacità di «pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull'appropriazione dei beni da parte di alcuni[…], lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, la terra e la casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi […], far fronte agli effetti distruttori dell’impero del denaro: i dislocamenti forzati, le emigrazioni dolorose, la tratta di persone, la droga, la guerra, la violenza e tutte quelle realtà che molti di voi subiscono e che tutti siamo chiamati a trasformare. La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia ed è questo che fanno i movimenti popolari» (Papa Francesco, 2014). E' difficile capire questo messaggio di papa Francesco, fatto proprio anche da Leone XIV?

Giovanni Longu
Berna 24.09.2025

15 settembre 2025

1945: Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki, nomi da non dimenticare!

Dopo l’intervallo estivo ritorno a proporre ai lettori de L’ECO alcuni anniversari significativi della nostra storia recente. 80 anni fa terminava la seconda guerra mondiale e molti associano ancora oggi quella fine soprattutto a tre nomi fissati indelebilmente nei libri di storia e, forse ancora per poco, nella memoria collettiva: Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki. Il primo richiama i famigerati campi di sterminio nazisti, gli altri due lo sterminio degli abitanti di due intere città perpetrato dagli Stati Uniti d’America per far cessare la guerra col Giappone. L’idea stessa che Auschwitz sia stato concepito come campo di «sterminio» è terrificante, ma non lo è da meno, almeno per chi scrive, l’idea di far cessare la guerra sacrificando deliberatamente oltre duecentomila cittadini innocenti. Mi sembra giusto rievocare questi nomi perché, mentre si auspica da ogni parte che non si ripetano mai più fatti tragici come quelli della seconda guerra mondiale, le nostre società sembrano tollerare una terza guerra mondiale «a pezzi» (papa Francesco nel 2014) e non abbia la forza morale d’imporre la pace in tutte le situazioni controverse, per salvare vite umane, da preservare ad ogni costo.

Non dimenticare!

La guerra, anche quella cosiddetta «giusta» o per legittima difesa (l’unica forma di conflitto armato previsto dal diritto internazionale sancito dall'Articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite: «Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite…») è sempre disumana, soprattutto quando viola la pace internazionale, perché contraria alla dignità della persona, che è un «assoluto», cioè non condizionabile. Spesso, invece, quando si pretende di fissare una gerarchia di valori, si mette al primo posto il bene dello Stato o, più modernamente, la sovranità dello Stato e non il bene dei cittadini, il bene comune. In certi inni nazionali si chiede al cittadino adulto persino di essere pronto alla morte, se chiamato a difendere la patria con le armi (anche la Svizzera nel suo vecchio inno nazionale Ci chiami o Patria prevedeva che per difendere la Patria «Ti farem argine / Coi petti intrepidi / Anzi che cedere / Morrem per te». Nell'inno attuale o Salmo svizzero questa disponibilità al sacrificio totale non c’è più).

Auschwitz richiama inevitabilmente la Shoah, lo sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, ma dovrebbe ricordare prima di tutto il comandamento primordiale «non uccidere», che vale in generale, per tutti. Non uccidere è sempre applicabile perché «la vita umana è sacra», «solo Dio è il Signore della vita» e «nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente», nemmeno lo Stato.

Le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki sono un obbrobrio di cui non solo gli americani ma l’umanità intera dovrebbero vergognarsi. Ogni «strage di innocenti» è ingiustificabile e non è necessario essere cristiani per seguire l’indicazione di San Paolo ai Tessalonicesi: «Guardatevi dal rendere male per male ad alcuno; ma cercate sempre il bene tra voi e con tutti» (1 Tessalonicesi 5-15).

Hiroshima dopo la bomba
Eppure, di fronte ai massacri, di cui si ha notizia ogni giorno, l’indignazione generale è tiepida, come se in fondo si riconoscesse come valida ancora oggi, persino quando risulta vistosamente peggiorata (!), la legge del taglione («occhio per occhio, dente per dente») presente nell’antico codice di Hammurabi risalente al XVIII secolo a.C.

Ma è possibile dimenticare Auschwitz, Hiroshima, Nagasaki…? Purtroppo sembrerebbe di sì ed è un brutto segno!

Diritto internazionale e dignità umana

Quando molti osservatori, intellettuali, analisti, politici, governi, capi di Stato riducono di fatto il «diritto internazionale» alla difesa ad oltranza dell’«integrità territoriale» di uno Stato, anche se comporta la morte di decine di migliaia di persone innocenti, mi sorprende la facilità con cui sembrano dimenticare una parte importante del «diritto internazionale» (che ha una fonte vincolante nella Carta costitutiva delle Nazioni Unite), quella in cui si afferma solennemente che «Noi, popoli delle Nazioni Unite» dichiariamo di essere decisi a «riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole», a «praticare la tolleranza e a vivere in pace l’uno con l’altro in rapporti di buon vicinato», a «sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-decisione dei popoli, e prendere altre misure atte a rafforzare la pace universale» (Statuto ONU).

Nagasaki dopo la bomba.

Tralascio, per esigenze di spazio, anche il richiamo del «diritto internazionale umanitario» perché quanto detto dovrebbe bastare, a mio parere, a farci vergognare come individui e come società della tolleranza (o ignavia?) con cui vengono visti oggi in una parte consistente dell’opinione pubblica i crimini di guerra, gli stermini, i genocidi.

Tralascio anche, per la stessa ragione, come pseudo-giustificazione della nostra scarsa indignazione, la scusante di trovarci di fronte ad autocrati che fanno strame del diritto internazionale, perché nulla vieta che in un Paese libero si levino voci accorate di dissenso e di condanna non solo di chi vuole e pratica la guerra «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», ma anche di chi non fa alcuno sforzo pacifico (usando soprattutto la diplomazia) per risolverle, ossia senza spargimento di sangue, magari con compromessi e rinunce dolorose pur di salvare vite umane. 

«Nulla è perduto con la pace!»

La pace, infatti, non va vista come una resa di fronte a un nemico (militarmente) più forte, ma come una forma di «salvezza della vita», di tante vite umane che sarebbe indegno sacrificare sull’altare dell’amor patrio. «La pace è possibile, diceva papa Francesco, se veramente voluta». Se oggi si preferisce, specialmente in Europa, parlare di riarmo piuttosto che attivarsi per «preparare la pace», è un segnale di debolezza di cui tutti gli europei dovrebbero preoccuparsi. Ma forse non se ne ha la consapevolezza!

Anche per questo merita ricordare l’ammonimento del papa Pio XII allo scoppio della seconda guerra mondiale: «Nulla è perduto con la pace; tutto può essere perduto con la guerra». Purtroppo non fu ascoltato e il disastro fu immane. Lo stesso ammonimento fu ripetuto da papa Francesco e anche papa Leone XIV lo ricorda in continuazione. Tocca a ciascuno di noi farne tesoro, altrimenti chi ci salverà dalla terza guerra mondiale, non più «a pezzi», ma totale?
Giovanni Longu
Berna 15.09.2025


30 agosto 2025

Mattmark, 60 anni fa: dopo la disgrazia il silenzio!

Oggi, 30 agosto 2025, si ricorda la terribile disgrazia di Mattmark che provocò la morte di 88 persone, di cui 56 lavoratori italiani. E’ giusto ricordare, non solo per onorare e ricordare le vittime, ma anche perché 60 anni fa fu scritta a più mani una pagina tragica della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera tenuta a lungo nascosta. In questo articolo non riferisco i fatti già noti e su cui si è già scritto molto, né intervengo sui processi che si sono celebrati contro i presunti colpevoli, tutti assolti, sebbene a qualche ricercatore autoreferenziale quelle sentenze continuino ad apparire ingiustificate. Mi limiterò solo a poche precisazioni e a sollevare il tema sempre taciuto delle responsabilità plurime, anche italiane, di cui non si parla (quasi) mai, perché indirette, e sistematicamente rimosse nelle commemorazioni ufficiali, anche oggi.

Fu una «disgrazia naturale», forse evitabile!

La diga di Mattmark, una delle più grandi della Svizzera
Comincio col ripetere (come ho già fatto altre volte), che la «verità giudiziaria» ha assolto definitivamente tutti i presunti responsabili della disgrazia perché il distacco di quel micidiale pezzo del ghiacciaio Allalin, sopra Mattmark, nel Vallese (Svizzera), era imprevedibile e la decisione di collocarvi sotto uno dei cantieri principali non fu dettata da speculazione, negligenza o azzardo[1], ma era stata considerata idonea anche dagli esperti locali. Che quel ghiacciaio facesse paura a molti, perché ogni tanto qualche pezzo si staccava e precipitava a valle fragorosamente, in sede processuale fu ritenuto vero ma non sufficiente per ritenere i responsabili del cantiere colpevoli di omicidio colposo e di negligenza nei confronti della sicurezza degli operai[2].

Di fronte alla non-colpevolezza dei dirigenti del cantiere, alcuni esponenti dell’associazionismo italiano hanno messo sotto accusa le aziende appaltatrici ree di frenesia nel voler portare a termine il lavoro prima dell’inverno, di avidità di guadagno, di sfruttamento dei lavoratori, di eccessivo risparmio a scapito della prevenzione, ecc. Si è scritto che gli operai addetti alla realizzazione della diga erano sfruttati e costretti (!) a lavorare anche 15-16 ore al giorno, domenica e festivi, dimenticando di ricordare che a (quasi) tutti facevano comodo gli straordinari, tant'è che «moltissimi» lavoratori avevano «salari pari o superiori al guadagno massimo assicurato»[3].


Il cantiere di Mattmark prima della catastrofe...
Credo che siano applicabili anche alla tragedia di Mattmark le parole della presidente della Confederazione Karin Keller-Sutter, pronunciate in una circostanza simile: «Non potevamo evitare la catastrofe, ma dobbiamo essere grati di vivere in un Paese che è in grado di gestire queste crisi». In effetti, dopo la catastrofe di Mattmark i soccorsi furono immediati e a differenza di alcuni rappresentanti della sinistra italiana che pretendevano subito «giustizia» nei confronti dei responsabili del cantiere, fu fatto tutto il possibile per recuperare i morti, assistere i sopravvissuti, accogliere i famigliari delle vittime, assegnare con straordinaria rapidità le rendite dell’ente assicurativo SUVA ai superstiti.

... e dopo la catastrofe.
In campo italiano si continuava a discutere, si organizzavano convegni, s’invocavano misure straordinarie, si sollecitava l’intervento del governo, si chiedevano maggiori protezioni sul lavoro, ecc. ma spesso tutto assumeva «una funzione puramente propagandistica con ben definiti scopi politici» (L’ECO del 9.2.1967)
[4]. Pesava pure la contrapposizione tra svizzeri e stranieri, anche se la tragedia di Mattmark aveva accomunato nel dolore gli uni e gli altri e invano qualcuno sollecitava la responsabilità degli italiani immigrati a «unirci e confonderci con loro armoniosamente» perché «dipende da noi soltanto il futuro dei nostri figli e di noi stessi» (L’ECO del 2.2.1967).

Il fatto che per la giustizia svizzera e per l’opinione pubblica la disgrazia di Mattmark sia stata una «catastrofe naturale» non significa che nessuno ne sia stato corresponsabile. Lo furono certamente le aziende appaltatrici[5], le istanze preposte al controllo e alle autorizzazioni, i sindacati, i patronati, le autorità svizzere e italiane almeno per carenza di sorveglianza e d’informazione, lo furono gli accordi bilaterali che pretesero poco in materia di formazione e prevenzione, lo fu almeno in parte anche il sistema migratorio perché s’investiva troppo poco nella preparazione e poco nel frenare l’ansia del guadagno, ecc. Con un miglioramento generalizzato in tutti questi ambiti forse la tragedia si sarebbe potuta evitare.

Perché la tragedia di Mattmark è stata a lungo dimenticata?

Se lo sono chiesto in molti e ancora viene ripetuto in alcuni scritti commemorativi. La domanda è pertinente perché effettivamente nei primi anni dopo la disgrazia nessuno saliva a Mattmark (se non a scopi turistici) e teneva discorsi commemorativi. La risposta non è ovviamente semplice, ma si può tentare di formularla, lasciando al lettore di verificarne la plausibilità.

Mattmark, sul luogo della catastrofe con
Ilario Bagnariol (a sin.), uno dei sopravvissuti.

Va comunque precisato subito che non sono stati né Toni Ricciardi, con i suoi numerosi interventi per altro assai discutibili, né le autorità diplomatiche e consolari italiane (l’allora ambasciatore Marchiori non si trovava nemmeno in sede[6] e a Briga c’era solo un viceconsole[7] con pochi impiegati) a far riemergere il ricordo della tragedia di Mattmark. A dare il segnale che quella tragedia andava studiata, compresa e commemorata fu l’on. Mirko Tremaglia, ministro per gli Italiani nel mondo, in occasione della commemorazione del 40° anniversario della tragedia di Mattmark il 3 e 4 settembre 2005.

Il ritardo nelle commemorazioni di Mattmark come di altre disgrazie simili fu dovuto a mio parere anche a un senso di colpa delle autorità italiane. Lo evocarono implicitamente anche le parole di Mirko Tremaglia nel 2005 quando ricordò che «migliaia di italiani furono costretti dalla necessità e dalla povertà a lasciare la loro patria, la loro famiglia, i loro cari per cercare all'estero migliori condizioni di vita, spesso accettando i lavori più umili, più pericolosi, che altri non volevano fare perché il rischio era troppo alto»[8]. Avrebbe potuto anche aggiungere che nei primi decenni del dopoguerra l’Italia favoriva l’emigrazione, investiva pochissimo nella preparazione e nell'accompagnamento tant'è che gli immigrati si sentivano molto spesso del tutto «abbandonati», ma soprattutto nel tentare di eliminare le cause dell’emigrazione[9].

Lapide a ricordo della tragedia del 30 agosto 1965 (foto gl)
Si deve però aggiungere che ci fu certamente anche un’altra ragione ed è che in Svizzera, proprio in quegli anni, stava montando la xenofobia e dev'essersi ritenuto (soprattutto da parte delle autorità e delle organizzazioni italiane) che non fosse opportuno insistere sulle difficoltà, sulle limitazioni e sul sangue versato dagli italiani perché la risposta degli xenofobi sarebbe stata immediata e tagliente: gli italiani non erano costretti a venire, erano liberi di andarsene, erano loro che dovevano adeguarsi al sistema svizzero e non il contrario. Del resto le numerose espulsioni di quegli anni parlavano chiaro: la propaganda «comunista» era vietata e sembrava, agli occhi degli svizzeri, annidarsi in ogni gruppo di persone.

Le autorità italiane ne erano consapevoli e invitavano costantemente alla prudenza e alla moderazione. Ancora nel 1973, il ministro Tullio Migneco, all'epoca responsabile dell’ufficio emigrazione dell’Ambasciata d’Italia in Svizzera, in un incontro con la stampa ammise che purtroppo a molte segnalazioni di emigrati italiani che si sentivano discriminati non si poteva dar seguito per la difficoltà di disporre di prove concrete e per non urtare la sensibilità degli svizzeri. Purtroppo si preferì anche di non commemorare le vittime di Mattmark.

Giovanni Longu
Berna, 30.8.2025


[1]     Il crollo di milioni di metri cubi di ghiaccio non era ritenuto né prevedibile né probabile. La possibilità che accadesse era ritenuta solo teorica.

[2]     «Nella sua motivazione scritta di 82 pagine il tribunale [che assolse tutti gli imputati] spiegò perché non riconosceva alcuna negligenza. Si potevano prevedere al massimo piccoli cedimenti del ghiacciaio e nessuno aveva avvisato gli imputati, in qualsivoglia forma, in merito alla minaccia incombente. Una valanga di ghiaccio di quel tipo rappresentava una possibilità remota che nella vita non si deve mettere ragionevolmente in conto» (https://www.suva.ch/it-ch/chi-siamo/la-suva/traguardi/eventi-di-grandi-proporzioni/mattmark).

[3]     La Suva interviene «con una rapidità esemplare» in Internet, URL consultato il 25.8.2025 ( https://www.suva.ch/it-ch/chi-siamo/la-suva/traguardi/eventi-di-grandi-proporzioni/mattmark).

[4]     Non va dimenticato che anche in quegli anni di governi di centro-sinistra la contrapposizione tra governo a guida democristiana e il principale partito d’opposizione (PCI) era molto forte e si riverberava anche nell'immigrazione italiana organizzata in Svizzera.

[5]     Puntando specialmente al loro tornaconto relegarono in secondo piano i problemi della sicurezza e di ulteriori accertamenti prima di collocare le baracche proprio sotto il ghiacciaio. Si è parlato, probabilmente non a torto d’incoscienza da parte dei dirigenti del cantiere, anche se a posteriori tutto sembra più facile.

[6]     L’ambasciatore Carlo Marchiori (dal 1964 al 1965) il 16 marzo 1965 era stato nominato dal Ministro degli Affari Esteri Amintore Fanfani capo gabinetto e praticamente da allora aveva lasciato Berna e non vi tornò più se non saltuariamente. Alla fine del mandato fu ricevuto (22 settembre1965) dal consigliere federale Friedrich Traugott Wahlen (1899-1985) e fu questi ad accennare alla tragedia di Mattmark (anche se Marchiori ne era stato informato subito dopo il disastro).

[7]     Il viceconsolato era stato istituito da poco e dal 24 aprile 1952 era retto dal viceconsole Odoardo Masini, che si prodigò in ogni modo per aiutare le vittime e i sopravvissuti di Mattmark. Al riguardo riferì al cronista svizzero Dario Robbiani di certe visite: «Poi sono arrivati i deputati e i sindacalisti comunisti. Hanno detto che era colpa di questo e di quest'altro, che bisognava costruire uno sbarramento di cemento armato per isolare il ghiacciaio, e contenere la morena con muraglioni. Allora sono scoppiato: - Sì, adesso voi rimproverate agli svizzeri di non aver messo il bichini al ghiacciaio. Non hanno più parlato. Mi facciano il piacere: è perlomeno di cattivo gusto fare polemiche del genere sopra ottantotto bare».

[8]     Intervento di Mirko Tremaglia in occasione della commemorazione del 40° anniversario della tragedia di Mattmark il 3 e 4 settembre 2005.

[9]     Specialmente l’opposizione trovava inaccettabile il comportamento del governo «sulle proposte di inchiesta parlamentare sulle cause e sulle conseguenze dell'emigrazione e sulle condizioni di vita, di lavoro, di trattamento degli emigrati italiani, proposte presentate ormai da oltre un anno» (Camera dei Deputati Discussione /20.1.1965/ del disegno di legge: Ratifica ed esecuzione dell'accordo tra l'Italia e la Svizzera relativo all'emigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera, con protocollo finale e dichiarazioni comuni, concluso a Roma il 10 agosto 1964).