26 marzo 2025

1905-14: venti di guerra in Europa

In questo articolo non viene ricordato un anniversario in particolare, per esempio l’intervento dell’Italia nella prima guerra mondiale (1915) - che verrà trattato in seguito - ma il periodo precedente, perché può aiutare a capire il senso, o meglio il non senso, anche della seconda guerra mondiale e persino dell’attuale guerra in corso in Europa. Uno storico, Eric Hobsbawm, ha chiamato il XX secolo «il secolo breve», perché il lasso di tempo tra il 1914 e il 1991, ossia fra la prima guerra mondiale e il crollo dell’Unione Sovietica, presenterebbe secondo lui, un carattere coerente, a differenza di quello «lungo», il XIX, iniziato con la Rivoluzione francese (1789) e terminato dalla «belle Époque». Questa opinione, certamente rispettabile, non mi pare condivisibile, soprattutto alla luce delle cause della prima come della seconda guerra mondiale e anche del crollo dell’impero sovietico. Si può infatti intravedere facilmente nel nazionalismo una delle cause principali e una sorta di fil rouge che lega i diversi eventi drammatici della prima metà del XX secolo e persino della guerra in corso tra Russia e Ucraina.

Consenso popolare estorto e ingannevole

Il nazionalismo più temuto nel 1905 era quello russo!
La pace di Francoforte (10.05.1871) seguita alla guerra franco-prussiana (1870-71) per il dominio dell’Alsazia e della Lorena non fu considerata decisiva e duratura né dai perdenti francesi né dai vincitori prussiani: la lotta per l’egemonia in Europa non era nemmeno cominciata, tenendo presenti le rivalità esistenti tra le varie Potenze europee per l’egemonia nelle colonie. Del resto, non va dimenticato che gli appetiti europei non li provavano solo la Germania e la Francia, ma anche la Gran Bretagna, l’Impero austro-ungarico e l’Impero russo. Persino l’Italia aspirava a una maggiore considerazione nella politica internazionale. (Il capo del governo Francesco Crispi sosteneva che «le colonie sono una necessità della vita moderna. Noi non possiamo rimanere inerti… altrimenti saremmo colpevoli di un gran delitto verso la patria nostra».

E’ vero che fino allo scoppio della prima guerra mondiale in Europa, esclusa la Russia (cfr. articolo precedente), regnava una relativa pace e i vari popoli si godevano, chi più chi meno, la belle Époque e il benessere che l’industrializzazione, i commerci e il turismo distribuivano in abbondanza, ma soprattutto le grandi Potenze pensavano seriamente anche alla guerra. La corsa al riamo coinvolse pressoché tutti gli Stati, i forti «per mantenere il proprio potere», i deboli «per correre alla riscossa», i neutrali, come la Svizzera,  «per mantenere la propria indipendenza». Tutti cercavano di potenziare gli eserciti di terra e di mare, predisponevano ogni sorta di difesa in prossimità dei confini, seguivano i rapidi sviluppi dell’aeronautica militare, si dotavano delle armi più sofisticate e potenti, studiavano con chi era più vantaggioso allearsi, elaboravano piani di guerra... perché le tensioni internazionali aumentavano.

Questo spiega anche perché i sentimenti popolari, il patriottismo, l’insistenza sul prestigio internazionale, la difesa della libertà, la prospettiva di migliori condizioni di vita e l’unità nazionale sul finire dell’Ottocento venissero molto sollecitati. Per partecipare a una guerra ritenuta sempre più inevitabile, i governi cercavano di carpire il consenso popolare anche facendo balenare la prospettiva di grandi ricadute positive nell'economia e nel sociale. A questi sentimenti si aggiungeva spesso, specialmente nelle grandi Potenze coloniali, un pregiudizio razziale (benché già contestato scientificamente da decenni) che faceva ritenere ad alcuni popoli europei militarmente forti e appartenenti a razze presunte «superiori», il «diritto» di sottometterne altri «inferiori» e meno forti.

Nazionalismi nella storia

Facendo tesoro della distinzione tra «causa» e «pretesto» di Vilfredo Pareto (1848-1923) proprio in riferimento alla prima guerra mondiale, ritengo che le vere cause della prima guerra mondiale vadano ricercate soprattutto nelle ambizioni delle grandi Potenze ad estendere la loro egemonia su spazi più grandi di quelli nazionali, incuranti dei loro abitanti e ricorrendo persino a giustificazioni moralistiche, come il diritto dei popoli più virtuosi ad opporsi a quelli dominati dalla «sete dell’oro» e dei popoli che si ritengono «unti dal Signore» a combattere quelli «senza Dio», ecc.

Si dimenticava sistematicamente che il nazionalismo nella storia dell’umanità è all'origine di quasi tutte le guerre e di milioni di morti, che fa aumentare la già grande dose di odio presente nelle nostre società e che sfocia spesso nella guerra. Soprattutto i responsabili della politica e degli Stati dovrebbero fare maggiore attenzione alle parole che usano e alle decisioni che prendono a livello internazionale e comunque la loro maggiore preoccupazione non dovrebbe essere quella di prepararsi alla guerra, ma di preparare la pace, stimolando la comprensione reciproca, la tolleranza, la collaborazione, lo sfruttamento in comune delle risorse disponibili, la prosperità di tutti.

Giovanni Longu
Berna 26.03.2025

19 marzo 2025

1905: la rivoluzione russa e l’immigrazione italiana

Si è soliti considerare la Rivoluzione russa del 1917 come se si fosse compiuta interamente in quell’anno. In realtà il vero inizio va anticipato di dodici anni, perché nel gennaio 1905 una massa di oltre centomila persone marciò pacificamente a Pietroburgo verso il Palazzo d’Inverno per chiedere allo zar Nicola II «giustizia e protezione» contro la miseria, l’ignoranza e la prepotenza delle autorità. Non giunsero a destinazione perché l’esercito ebbe ordine di sparare contro la massa inerme. Persero la vita mille persone e duemila furono ferite. Fu quell’eccidio a dare inizio alla rivoluzione, che si diffuse poi in tutta la Russia. Non decretò subito la fine dell’impero russo, ma l’accelerò. Il colpo mortale gli fu assestato nel 1917, quando Lenin prese la guida dei rivoltosi, travolse il regime zarista e impose un governo bolscevico guidato dai Soviet (consigli rivoluzionari composti da operai, contadini e soldati). L’Occidente, Svizzera compresa, cominciò a tremare, temendo che la furia rivoluzionaria travalicasse i confini russi, e cercò di stroncare sul nascere qualsiasi principio di disordine, ribellione o manifestazione non autorizzata. Per evitare infiltrazioni bolsceviche molti Stati e anche la Svizzera introdussero severi controlli alle frontiere, una misura che penalizzò anche l’immigrazione dall'Italia.

Inizio Novecento in fermento

Le rivendicazioni del 1905 avviarono la rivoluzione russa del 1917.

Per comprendere il difficile momento storico, nonostante la belle époque che si stava vivendo in Europa, bisogna ricordare che all'inizio del Novecento non solo la Russia era in fermento (contro il regime zarista, la servitù della gleba, l’oppressione degli operai nelle fabbriche, le prevaricazioni dei nobili), ma anche in altri Paesi, Svizzera compresa, erano diffusi malcontento e violenze (nelle campagne come nei centri urbani, nei rapporti di lavoro e nella società) e la richiesta di riforme.

La Svizzera non faceva eccezione, anche se i contrasti raramente sfociavano in scontri e tumulti. La costituzione liberale, la cura dei buoni rapporti di vicinato con gli Stati confinanti e una politica industriale e commerciale forte, la rendevano un Paese piuttosto tranquillo, quasi un’isola di pace in un mare in tempesta. Una delle poche preoccupazioni delle autorità federali e cantonali era la dipendenza, in alcuni settori, dalla numerosa popolazione straniera (specialmente tedesca e italiana) che sembrava creare un pericolo di Überfremdung, di «inforestierimento» (cfr. articolo del 19 febbraio 2025) non solo demografico ma anche economico e culturale.

Poiché la convivenza non era senza problemi, le autorità federali e cantonali divennero sempre più attente agli ingressi (ma senza poterli impedire o limitare a causa dei numerosi accordi bilaterali con molti Stati europei) e soprattutto ai fenomeni che avrebbero potuto provocare disordini, subbugli, scioperi. Erano osservati speciali soprattutto i rifugiati provenienti da Paesi in cui erano in atto rivoluzioni e forti repressioni perché spesso trovavano facile accoglienza nei partiti di sinistra. Ciò nonostante, si sa, poterono entrare ed essere (bene) accolti in Svizzera, rifugiati politici come Lenin, Trotskij, Angelica Balabanoff e altri. Riuscirono persino ad organizzare conferenze internazionali (Zimmerwald, Kiental, ecc.) e a pubblicare materiale di propaganda proibito.

Conseguenze per l’immigrazione dall'Italia

Nel timore che a causa della guerra e approfittando della politica liberale della Confederazione entrassero in Svizzera, oltre agli immigrati per motivi di lavoro, disertori, anarchici, bolscevichi, attivisti politici, sovversivi e persino delinquenti comuni provenienti da tutta l’Europa dopo il crollo degli imperi russo, austro-ungarico e tedesco, le autorità federali decisero di chiudere (quasi) ermeticamente le frontiere. Finita la guerra avrebbero dovuto essere riaperte, ma la Svizzera non le riaprì ufficialmente per lo stesso motivo, ma soprattutto per poter giustificare misure di controllo sulla popolazione straniera che stava per adottare.

Nel 1917, infatti, la Confederazione istituì l’Ufficio centrale di polizia degli stranieri, più noto come Polizia degli stranieri (1909-1998), col compito di esercitare un sistematico controllo (anche con schedature!) degli stranieri, ufficialmente per lottare contro l'inforestierimento, in realtà per il controllo politico e amministrativo della popolazione straniera. Il suo atteggiamento nei confronti degli immigrati per motivi di lavoro divenne sempre più restrittivo e da allora si cercò di limitare sistematicamente per via legislativa e amministrativa la libertà d’insediamento degli stranieri e la mobilità lavorativa.

Da allora cominciò a diffondersi in tutti gli strati della popolazione svizzera anche la paura della «peste rossa», ossia un anticomunismo che indurrà la polizia federale degli stranieri a seguire con particolare attenzione le principali attività della sinistra anarchica, comunista e socialista. A numerosi italiani costerà nei decenni successivi l’espulsione.

L’effetto di tutto ciò sulla popolazione italiana residente in Svizzera fu notevole: dalle oltre 200 mila unità del 1910 si toccherà nel 1941 il minimo storico di nemmeno 100 mila italiani residenti.

Giovanni Longu
Berna 19.03.2025

 

Contro l’inforestierimento e il pericolo “rosso”, un manifesto del 1919 proclamava: «Giù le grinfie! La Svizzera agli svizzeri».

12 marzo 2025

1975-2025: cinquant’anni di avvicinamento alla parità uomo-donna

 Il 1975, definito dalle Nazioni Unite come l'Anno Internazionale delle Donne, non segnò la nascita dei movimenti femministi, perché questi erano sorti e ben sviluppati già nei primi decenni del Novecento, ma fu un importante momento di riflessione sul passato e un punto di partenza verso la piena uguaglianza dei diritti delle donne e l’abbattimento di molti stereotipi di genere. Nessuno è oggi in grado di misurare quanta strada sia stata percorsa in tale direzione, ma credo che nessuno degli ultracinquantenni possa negare che in questi ultimi decenni, almeno in Svizzera, l’avvicinamento alla parità sia notevolmente progredito non solo sul fronte salariale, ma anche in altri ambiti, sebbene sia innegabile che in alcuni campi la parità sia ancora lontana.

Dati significativi

Una delle principali lotte condotte in Svizzera dalle donne ha riguardato la parità salariale con gli uomini, beninteso a parità di lavoro compiuto. Il risultato raggiunto non è ancora soddisfacente in tutti i settori, ma ogni anno la distanza si riduce sempre più.

Un primo riscontro si ha nella stessa Festa della donna (l’8 marzo) che, voluta dalla Seconda conferenza internazionale delle donne comuniste del 1921 insieme all’istituzione della Giornata internazionale dell’operaia come momento di lotta e di rivendicazione di diritti fondamentali delle donne lavoratrici, è rimasta ancora un momento utile di riflessione sulla condizione femminile, specialmente dove le donne sono discriminate e subiscono molte violenze, ma è diventata nei nostri Paesi, e dunque anche in Svizzera, soprattutto la Festa delle donne e un’occasione gioiosa di omaggiare le donne in quanto tali.

A riguardo della parità salariale è vero che anche in Svizzera non è stata ancora raggiunta, specialmente nel privato, perché il salario delle donne è inferiore, a parità di competenze, a quello degli uomini con una variazione dall’11% al 18%, ma la distanza si accorcia sempre di più, soprattutto nel settore pubblico. In generale, a parità di posizione professionale, il salario delle donne è mediamente inferiore a quello degli uomini di almeno il 6% (quando non hanno funzioni di quadro) fino al 15% (quando appartengono ai quadri medi e superiori).

Le differenze sono più ingiustificate soprattutto nelle professioni che presuppongono formazioni specialistiche o accademiche, nelle quali le donne hanno praticamente raggiunto (e in molti casi superato) la parità con gli uomini. Se a parità di formazione (patente di insegnante) le donne guadagnano mediamente il 4% in meno degli uomini, riesce difficile accettare che la differenza si elevi al 17% nelle scuole universitarie.

Anche riguardo alla posizione professionale a livello dirigenziale il progresso delle donne è notevole e ogni anno aumenta: 2022: 31%, 2023: 32%, 2024: 35%. Nella fascia d’età dai 25 ai 39 anni le donne dirigenti costituivano nel 2024 ben il 41%. A titolo di paragone si può osservare che nella fascia d’età 40-54 anni la quota era solo del 30%.

La chiave di volta

In questa progressiva riduzione del divario uomo-donna la formazione svolge un ruolo determinante. Dal suo livello, infatti, dipendono molto spesso il tipo di occupazione, la posizione professionale, la retribuzione e talvolta persino la condizione sociale. Perciò, nelle analisi più approfondite, la formazione è sempre considerata uno strumento importante anche per raggiungere la parità tra uomo e donna. Infatti, chi dispone di una buona formazione normalmente ha anche un margine di manovra più ampio nelle scelte professionali e quando deve far fronte alle sfide che si presentano nell’ambito personale, famigliare, sociale e persino politico.

Un altro segnale della maggiore e migliore formazione delle donne è anche l’aumento del loro tasso di attività professionale, passato dal 44% del 1991 al 72% del 2024 (anche se non va dimenticato che in Svizzera è particolarmente elevato il lavoro a tempo parziale delle donne, 77%). Nella fascia d’età dai 25 ai 39 anni il tasso di attività è addirittura dell’88%. Per avere un’idea del progresso fatto registrare dalle donne in questi ultimi decenni basta ricordare che il tasso di attività degli uomini dai 25 ai 39 anni, che era del 97% nel 1991, è sceso nel 2024 al 94% e quello degli uomini dai 55 ai 64 anni è sceso addirittura dal 94% all'84%. A livello europeo, le donne svizzere (e quelle straniere residenti) sono tra le più «attive» (mentre quelle italiane, greche e rumene le meno attive).

A questo punto è facile osservare che tutto è legato, nella vita delle donne come nell’intera società: formazione, attività e posizione professionale, retribuzione, vita sociale; ma il primo e fondamentale anello della catena, la chiave di volta, è la formazione. Tutti dovrebbero rendersene conto, ma specialmente i politici europei e nazionali dovrebbero sentire il dovere morale e sociale di destinare sempre maggiori risorse alla formazione, con lungimiranza e senso di responsabilità, soprattutto nei confronti delle giovani generazioni.

Giovanni Longu
Berna 12.03.2025

05 marzo 2025

1900: Monsignor Bonomelli e gli immigrati in Svizzera

Nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera non dovrebbe sfuggire a nessuno l’importanza dell’assistenza religiosa, sociale e umana fornita in continuità agli immigrati dai missionari giunti soprattutto dall'Italia. Essa fu importante non solo perché riguardò la vita individuale e collettiva di molte migliaia di lavoratori e delle loro famiglie, ma anche perché cercò di dare dignità alla condizione migratoria e di elevare il livello di coscienza degli immigrati. Per rendersene conto basterebbe fare un semplice confronto tra la situazione negli ultimi decenni dell’Ottocento e quella attuale. Oggi non si parla quasi nemmeno più di immigrati (ma di italiani all'estero), allora erano operai in gran parte analfabeti, sfruttati, senza protezione e marginalizzati. Una delle prime persone che si sono particolarmente distinte nell'impegno a favore degli immigrati italiani in Svizzera è stato Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona e fondatore, nel 1900, dell’Opera di assistenza per gli italiani emigrati in Europa.

L’emigrazione dopo l’unità d’Italia

Geremia Bonomelli (1831-1914)

Col passare degli anni e col cambiamento radicale dell’immigrazione italiana in Svizzera si corre il rischio di dimenticare le condizioni lavorative, sociali e umane degli immigrati degli ultimi decenni dell’Ottocento. Ricordare le origini è invece utile e doveroso non solo per costatare i progressi realizzati in poco più di un secolo, ma anche per conoscere alcuni dei protagonisti che maggiormente vi hanno contribuito, impegnandosi con straordinaria dedizione e coraggio.

Quando mons. Geremia Bonomelli (1831-1914) fondò la sua Opera, gli emigranti italiani erano ancora diretti prevalentemente verso le Americhe, ma crescevano anche i flussi verso alcuni Paesi europei, specialmente Germania e Svizzera. Poiché la Chiesa sembrava occuparsi soprattutto dei primi - anche grazie ai missionari della Congregazione dei missionari di san Carlo Borromeo fondata nel 1887 da Giovanni Battista Scalabrini (1839-1905), vescovo di Piacenza, e alle missionarie della Congregazione delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù, fondata da Francesca Saverio Cabrini (1850-1917) - e trascurare i secondi, ritenendoli emigranti «temporanei», il vescovo di Cremona decise di creare un’apposita organizzazione che si occupasse espressamente dei migranti in Europa. 

In questo articolo si parla soprattutto di monsignor Bonomelli, ma la sua figura può essere considerata emblematica degli sforzi che la Chiesa cominciava a intraprendere in favore delle migliaia di emigranti che ogni anno lasciavano l’Italia, attraverso un numero esiguo di persone che si prodigavano generosamente «per il bene dei migranti». Questa espressione molto comune esprime bene non solo l’obiettivo da mirare, ma anche l’attitudine dei missionari e delle missionarie nel conseguirlo, improntata all'altruismo, alla solidarietà, alla generosità, all'adeguatezza delle risposte in base a una conoscenza approfondita della situazione, soprattutto se problematica.

Sulla decisione di fondare l’Opera influirono non solo la considerazione evangelica di prestare attenzione e aiuto alle persone più bisognose e più fragili, ma anche la costatazione delle «brutture e ignominie» rivelate da un’inchiesta sulle condizioni degli operai italiani addetti ai lavori del traforo del Sempione (che metteva in evidenza, fra l’altro, «lo spettacolo di quelle infelici moltitudini accalcate in covi insalubri, prive di scuole, di ospedali, di assistenza religiosa, esposte ad ogni più malsana influenza»), ma anche l’intuizione che l’industrializzazione, le costruzioni ferroviarie e lo sviluppo economico dell’Europa avrebbero orientato diversamente i grandi flussi migratori.

Non solo assistenza religiosa

Gli inizi dell’Opera furono difficili, ma già alla fine del 1901 funzionavano i Segretariati (così erano chiamati i centri di assistenza dell’Opera) di Briga, Preda, Ginevra, Losanna, Friburgo, Berna, Basilea, Lucerna, Zurigo, Sciaffusa, San Gallo, e altri minori. I centri dove operare e le attività da svolgere erano decisi in base a sopralluoghi e attento esame della situazione, ma specialmente delle condizioni esistenziali degli immigrati.

Giovanni Battista Scalabrini (1839-1905)
Per Bonomelli, infatti, l’assistenza non doveva limitarsi a quella religiosa, ma doveva dare risposte concrete possibilmente a tutte le esigenze dei lavoratori immigrati e delle famiglie che spesso li seguivano. Se gli interessava in primo luogo la conservazione e il consolidamento della fede e la pratica religiosa degli immigrati, gli stava molto a cuore anche il loro benessere materiale, morale e sociale. Per questo, nei centri maggiori come quelli di Briga, Preda, Kandesteg e altri, le attività erano molteplici perché dovevano rispondere ai molteplici bisogni degli immigrati riguardanti non solo la vita religiosa ma anche i rapporti sociali, la difesa della dignità umana e dei diritti dei lavoratori, il collocamento e i contratti di lavoro, la protezione dei ragazzi e delle ragazze minorenni, l’alfabetizzazione degli adulti e la scolarizzazione dei bambini, il disbrigo delle pratiche consolari, i problemi dell’alloggio e del vitto, ecc.

Quando l’Opera Bonomelli fu sciolta (1928), in molte città subentrarono gli Scalabriniani, che ne proseguirono l’attività e lo spirito, dando idealmente continuità anche alla profonda amicizia che legava Monsignor Bonomelli e monsignor Scalabrini. La loro amicizia è stata tramandata in uno scambio epistolare intenso e profondo. Ad unirli era non solo la stessa fede, ma anche la preoccupazione pastorale a favore degli emigranti italiani. Sono stati «due vescovi al cui cuore non bastò una diocesi (F. Baggio).

02 marzo 2025

Ricordo di Giorgio Cenni (1)

 

Nella notte tra l’8 e il 9 gennaio 2025 è deceduto in un ospedale di Genova per arresto cardiaco Giorgio Cenni, figura storica dell’immigrazione italiana in Svizzera. Da diversi anni risiedeva a Genova, ma gran parte della vita attiva l’aveva trascorsa a Berna. E’ stato ispiratore, anima e direttore geniale del CISAP (Centro italo-svizzero di formazione professionale) per quasi trent’anni e molti ex insegnanti ed ex allievi lo ricordano per le idee innovative, la forza d’animo con cui cercava di realizzarle e per i valori che riusciva a trasmettere. Fu un grande sostenitore della formazione professionale e del diritto degli immigrati alla cultura come fondamento della loro dignità, della loro integrazione sociale, del loro successo professionale.

Nel dare la triste notizia della scomparsa di Giorgio Cenni (1927-2025), mi ripromettevo di fornire di lui un ampio ritratto in un successivo intervento, nella convinzione che il personaggio lo meriti, essendo stato un autentico protagonista della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera, avendo contribuito ad accentuare la dinamica del cambiamento radicale avviato negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Lo faccio volentieri non solo per la grande conoscenza che ho di lui in virtù della lunga frequentazione privata (famigliare) e professionale (quasi ventennale, al CISAP), ma anche per aver contribuito all’elaborazione di quella «filosofia» che ha orientato sempre le sue azioni, le modalità di approccio alle complesse realtà svizzere e italiane, la sua inesauribile progettualità, i tentativi di raggiungere i risultati sperati, le sue manifeste o velate ambizioni e frustrazioni.

Ovviamente i limiti di questo ritratto sono quelli dell’ambito professionale, anche perché è sotto questo aspetto che Giorgio Cenni è conosciuto e merita di essere ricordato in Svizzera. Non si tratta però di una biografia e ancor meno della storia del CISAP, che richiederebbero ben più ampio spazio, ma di un profilo sintetico di una persona che durante quattro decenni è stato oltre che un testimone del suo tempo, un sensibile interprete dei bisogni della società immigrata e un abile, serio e lungimirante creatore di opportunità per lo sviluppo qualitativo di migliaia di persone. Per maggiori informazioni sarà indicata alla fine di questi articoli una succinta bibliografia.

La notorietà di Giorgio Cenni è legata soprattutto al CISAP, un centro di formazione professionale molto particolare, che inizialmente ha rappresentato un modello e la direzione da seguire nel campo dell’integrazione professionale e sociale della popolazione immigrata, ma non va dimenticato che negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta del secolo scorso Cenni è stato anche un protagonista influente della vita associativa, promuovendo incontri, associazioni, esposizioni, congressi e l’avvicinamento tra istituzioni e immigrati. E’ stato pure un pioniere convinto e lungimirante della collaborazione italo-svizzera in campo sindacale, sociale e professionale, aprendo in questo settore nuove vie e prospettive. Dei vari aspetti cercherò di seguito di evidenziarne solo alcuni, perché la ricchezza del personaggio e la contingenza di una breve presentazione non consentono di trattarli tutti con l’attenzione e la profondità che meritano.

Il debito della solidarietà

Giorgio Cenni venne a Berna nel 1957 per lavorare come meccanico qualificato in una grande fabbrica di telecomunicazioni di Berna, l’Hasler AG. Nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera in quegli anni si registrava un numero crescente di «treni della speranza» che trasportavano in massa, dal Nord come dal Sud Italia, decine di migliaia di connazionali da impiegare soprattutto come manovali nell’industria e nell’edilizia svizzere, allora in grande sviluppo e avide di manodopera sia qualificata che senza alcuna qualifica. Lui, provetto meccanico e abile sindacalista, con una grande esperienza professionale alle spalle e la prospettiva di una discreta carriera nel settore meccanico, non tardò ad accorgersi che in Svizzera i connazionali esercitavano quasi unicamente funzioni subalterne e mal retribuite, attività di manovalanza in condizioni precarie e talvolta proibitive.


Cominciò subito a pensare che se solidarietà doveva esserci tra gli operai, una forma possibile ed efficace doveva essere quella di aiutare coloro che ne erano sprovvisti ad acquisire le conoscenze professionali necessarie per poter svolgere attività qualificate e sottrarsi alla totale dipendenza da chi le possedeva e al ruolo anonimo di semplice forza lavoro, relativamente a buon mercato e facile da spostare secondo i bisogni.

L’idea era semplice, la sua realizzazione tutt’altro che facile. Ma Giorgio Cenni non si sottrasse alla complessità dell’impresa che gli sembrava non solo utile ai futuri beneficiari, ma anche doverosa, per senso di solidarietà, per chi come lui aveva avuto l’opportunità, anche in tempo di guerra, di apprendere per bene un mestiere e di poterlo esercitare in seguito con profitto. Del resto, anche a Berna non erano pochi gli italiani giunti nei primi anni Cinquanta, soprattutto dalle regioni del Nord Italia, che nel frattempo si erano «impadroniti» del mestiere che esercitavano, acquisendo sul campo le basi teoriche e pratiche che normalmente si apprendono durante l’apprendistato. Proponendo loro in maniera convincente i progetti, probabilmente nessuno avrebbe negato il proprio contributo. Ma le variabili della riuscita dei corsi erano ancora molte e andavano esplorate con attenzione.

Per questo, come risulta dalla documentazione disponibile e da conversazioni private, in quegli anni Giorgio Cenni si attivò moltissimo per attrarre su quei progetti formativi il più ampio consenso possibile. Gli riuscì abbastanza facilmente ottenere l’apprezzamento dell’Ambasciata e del Consolato d’Italia, molto favorevoli a quel tipo di iniziative. Per sensibilizzare la collettività immigrata ricostituì (marzo 1961) insieme ad altri connazionali la Colonia Libera Italiana (CLI) di Berna (perché quella fondata nell’immediato dopoguerra si era praticamente sciolta), ritenendo che in quel momento solo le Colonie Libere (ancor più delle Missioni cattoliche italiane) erano in grado di ottenere ampi consensi tra gli immigrati.

Cenni se ne rese conto negli anni in cui presiedeva la commissione culturale della CLI, perché tutte le iniziative organizzate erano ben frequentate, dalle partite di calcio (della squadra Audax) agli spettacoli della filodrammatica, dalle conferenze ai corsi di lingua tedesca, ecc. E fu in questo ambiente così favorevole che Cenni organizzò i primi corsi o «corsetti» professionali (matematica, lettura del disegno, ecc.) sotto l’egida della CLI di Berna. La riuscita di ogni iniziativa generava nei dirigenti della Colonia e in particolare in Giorgio Cenni non solo soddisfazioni, ma anche la convinzione che per soddisfare i tanti bisogni degli immigrati si dovesse fare di più e meglio. Ad accrescerla contribuivano anche i numerosi attestati di stima della stampa locale, della radio e della televisione, il plauso delle autorità italiane, ma soprattutto le richieste dei lavoratori e l’interesse a quelle iniziative da parte dei sindacati, specialmente della FLMO.

A confermare le buone intenzioni di Giorgio Cenni nel campo della formazione professionale fu soprattutto la riuscita di un corso di telefonia particolarmente impegnativo, della durata eccezionale di ben quattro semestri, da tenersi in locali adeguati e in italiano. Per i locali si chiese ed ottenne la collaborazione della Gewerbeschule (scuola professionale) che li mise a disposizione e, per l’insegnamento in italiano, la direzione delle PTT fece venire appositamente dal Ticino un insegnante specializzato dal Ticino. Quel corso rappresentò un grande successo non solo per chi l’aveva frequentato, ma anche per gli organizzatori e la stessa Gewerbeschule, che ne trassero proficui insegnamenti. Soprattutto Cenni si convinse che per realizzare qualcosa di complesso e impegnativo erano indispensabili una struttura adeguata, una stretta collaborazione con le autorità sia italiane (già convinte sostenitrici di quelle iniziative) che svizzere (comunali, cantonali e federali), la partecipazione attiva della collettività italiana.


Man mano che le iniziative si moltiplicavano e il bisogno della formazione professionale emergeva chiaramente, cresceva anche il convincimento di Giorno Cenni che per dare risposte efficaci e durevoli la struttura adeguata necessaria non poteva essere garantita dalla CLI, fra l’altro molto caratterizzata politicamente e in alcuni ambienti sospettata di influenze comuniste. Per organizzare corsi all’altezza dei bisogni dell’economia allora in grande espansione e in piena trasformazione occorreva una struttura adeguata con locali non occasionali (tipo sale nei ristoranti), officine ben equipaggiate con macchinari e strutture idonee, insegnanti competenti e istruttori con grande esperienza, ma soprattutto il sostegno delle autorità sia italiane che svizzere e una stretta collaborazione del mondo sindacale. Ne parlava con tale entusiasmo, secondo una cronaca, che per chi lo ascoltava sapeva di utopia, ma alla fine riusciva a convincere anche i più scettici.

Le idee erano molto chiare, ma Cenni, realisticamente, non sottovalutava le difficoltà che la nuova struttura avrebbe probabilmente incontrato in fase di realizzazione, tanto più che all’interno della CLI di Berna cominciò a manifestarsi una certa tensione tra chi riteneva che la nuova struttura dovesse restare all’interno delle Colonie dov’era stata concepita e portata a maturazione e chi riteneva che occorresse fare un salto di qualità e la CLI non fosse in grado di farlo. La separazione divenne inevitabile. (Segue)



19 febbraio 2025

1900: origine di un neologismo nefasto («inforestierimento»)

La migrazione è da decenni uno dei temi principali del dibattito politico, non solo in Svizzera, ma in tutti i Paesi industrializzati. I toni variano secondo le circostanze, ma soprattutto in funzione della congiuntura economica. Spesso basta qualche avvisaglia di crisi, un calo produttivo in un settore economico importante o l’accentuarsi di tensioni internazionali per inquietare l’opinione pubblica e usare gli immigrati come capri espiatori. Non è sempre stata questa l’origine della dinamica della xenofobia. La storia travagliata dell’immigrazione italiana in Svizzera sta a dimostrarlo. Si era nel 1900, dunque 125 anni fa, e l’economia svizzera andava a gonfie vele, il tenore di vita migliorava in tutti i ceti sociali, le prospettive erano rosee (era la belle époque). Eppure, proprio quell'anno fu introdotto nel discorso politico un neologismo nefasto: «inforestierimento» (Überfremdung), che ha turbato per decenni i rapporti tra italiani e svizzeri.

Lavoratori sì, poveri no

Il «Trattato di domicilio e consolare» tra la Svizzera e l’Italia del 1868 aveva sancito una sorta di libera circolazione dei propri cittadini in entrambi i Paesi, ovviamente nel rispetto delle leggi e della prassi vigenti, ma non indusse subito un flusso consistente di persone nell'una o nell'altra direzione. Esso fu invece avviato pochi anni dopo per la costruzione della ferrovia del Gottardo e altri impieghi, e non si interromperà più fino allo scoppio della prima guerra mondiale. La presunta facilità di trovare un lavoro l’attrattiva di un buon salario incentivarono gli arrivi dall'Italia.

Non tutti gli arrivati, però, trovavano subito lavoro e denaro e per loro la permanenza in Svizzera diventava molto problematica. Di solito non avevano altra alternativa che ritornarsene in Italia o, se rimasti completamente privi di mezzi anche per rimpatriare, affidarsi all'assistenza pubblica comunale. Questa era allora l’unica forma di welfare pubblico, perché la Confederazione non riconosceva né il diritto al lavoro né il diritto a un’indennità di disoccupazione o ad altre forme di assistenza. Quando però il numero degli assistiti diventava ingestibile e le casse erano vuote, i Comuni si vedevano costretti a non accettare più nessuno. Per gli esclusi - e molti erano italiani - la vita diventava drammatica.

Soprattutto nelle grandi città della Svizzera tedesca dove questa situazione si verificava più spesso, i responsabili dell’assistenza all'inizio del secolo cominciarono ad essere seriamente preoccupati e ad interrogarsi sul senso e sulla pericolosità di una massa di stranieri in una società che cresceva anche grazie a loro. Fu il responsabile dell’assistenza sociale (Armensekretärdi Zurigo che in uno scritto coniò il neologismo Überfremdung (inforestierimento) per inquadrare il problema.

Neologismo nefasto!

Quel neologismo, nato a Zurigo, nella Svizzera tedesca (dove la percentuale di stranieri era molto alta) dilagherà più tardi in tutta la Svizzera. E' giusto però osservare che in quella regione gli italiani allora erano ancora pochi, un'esigua minoranza rispetto soprattutto ai tedeschi, ed è quindi probabile che almeno inizialmente il termine «Überfremdung» riguardasse soprattutto questi e non gli italiani, sebbene in seguito, nell'opinione pubblica e nei dibattiti politici, ci si riferisse sempre di più soprattutto agli italiani, probabilmente perché più «diversi», meno integrati e integrabili nella società, anche se ancora per decenni molto utili, in certe attività economiche addirittura indispensabili e insostituibili. 

L’idea che soggiaceva all'analisi dell'assistente sociale di Zurigo e dei sostenitori della Überfremdung  era che il sistema economico non poteva garantire lavoro, salari e benessere a tutti perché gli stranieri erano troppi rispetto agli impieghi disponibili. Inizialmente nei dibattiti pubblici (tra intellettuali, politici e amministratori) si parlava perciò della «questione degli stranieri» (die Fremdfrage, die Ausländerfrage) in generale, senza specificare a quali nazionalità appartenevano e senza proporre soluzioni. Infatti sarebbe stato difficile considerare alla stessa stregua tedeschi (la collettività di gran lunga più numerosa e più integrata), italiani, austriaci e altri perché non tutte le nazionalità erano coinvolte nella stessa misura.

Quando si cominciò a disporre di dati significativi e a costatare che tra gli «assistiti» c’erano molti italiani, l’attenzione si focalizzò su di essi dando luogo a un interminabile dibattito sulla «questione degli italiani» (die Italienerfrage), mentre non si parlò mai esplicitamente di una «Deutschenfrage» (problema dei tedeschi, questione tedesca).

Via gli indigenti!

Il dibattito rischiava però di essere inconcludente perché nel frattempo i lavoratori italiani erano diventati indispensabili non meno dei tedeschi, dei francesi e degli austriaci, anzi in certe attività (per esempio nella realizzazione delle grandi gallerie ferroviarie) non se ne poteva più fare a meno. Si deve poi aggiungere che sarebbe stato impossibile (giuridicamente) limitare l’ingresso in Svizzera agli italiani perché il Trattato del 1868 ne garantiva il libero accesso. Non mancarono tuttavia i disappunti nei confronti della Confederazione, accusata da qualche politico di fare troppi accordi con alcuni Paesi stranieri, concedendo a tutti la libertà di commercio, d’industria e di domicilio… degli svizzeri, e di negare ai residenti (anche agli svizzeri) il diritto al lavoro e ai sussidi di disoccupazione.

Per gli stranieri indigenti, tuttavia, una soluzione fu trovata, perché nel 1909 il Consiglio federale si dichiarò disponibile ad assumersi le spese dei rimpatri! L'importante era che non gravassero sul bilancio pubblico dell'assistenza.

Per tutti, stranieri e italiani, la soluzione (quasi) definitiva venne invece trovata con lo scoppio della prima guerra mondiale, perché oltre alla chiusura delle frontiere provocò anche la fine della libertà di domicilio. Il dibattito sulla «questione degli stranieri» e sulla «questione degli italiani» lascerà comunque a lungo tracce indelebili e dolorose nei rapporti tra stranieri e svizzeri e tra italiani e svizzeri, compromettendo in molti di essi la realizzazione di molti sogni e la tranquillità della vita per sé e per intere famiglie.

Giovanni Longu
Berna 19.02.2025

12 febbraio 2025

1872-1914: Italiani «eroi» o «vittime»?

Tra il 1872 e il 1914, la Svizzera ha messo a punto una delle reti ferroviarie più fitte d’Europa per un’economia (industria, commercio e turismo) tra le più sviluppate del mondo e una popolazione in rapida crescita. Non avrebbe potuto realizzarla senza il contributo determinante degli immigrati provenienti dai Paesi confinanti, dapprima soprattutto tedeschi, austriaci e francesi (che costruirono insieme ai lavoratori svizzeri le principali linee ferroviarie nord-occidentali e sull'altopiano), poi anche italiani (per la costruzione delle grandi linee nord-sud e delle gallerie sotto le Alpi e il Giura. Fu un’esperienza difficile, per alcuni «eroica», per altri (talvolta) «tragica», che merita comunque di essere ricordata.

Italiani apprezzati e in aumento

Gli italiani cominciarono ad immigrare in Svizzera per motivi di lavoro già prima dell’unità d’Italia, anche se il censimento federale della popolazione del 1860 registrò solo 13.828 «italiani» (senza i savoiardi). Aumentarono tuttavia in fretta perché erano già 41.645 (senza gli stagionali) nel 1880, 117.059 nel 1900 e ben 202.809 nel 1910 (ma probabilmente erano compresi anche i lavoratori delle infrastrutture ferroviarie che, sebbene stagionali, restavano in Svizzera tutto l’anno addirittura con l’intera famiglia). Questa tendenza, che sembrava irreversibile, fu interrotta dallo scoppio della prima guerra mondiale per riprendersi solo dopo la seconda guerra mondiale.

In questa prima epoca dell’immigrazione italiana in Svizzera, gli italiani erano attivi soprattutto in alcuni settori dell’industria (tessile, costruzioni), dell’artigianato (come falegnami, scalpellini, ecc.) e dell’agricoltura (boscaioli, carbonai), poi divennero protagonisti assoluti nella realizzazione dei grandi tunnel ferroviari. La loro presenza non era casuale né del tutto spontanea, ma richiesta per la loro esperienza, per compensare la carenza cronica di manodopera svizzera (perché molti preferivano emigrare piuttosto che lavorare in fabbrica o in galleria) e straniera (tedeschi, francesi e austriaci non svolgevano solitamente lavori rischiosi e pesanti) e non da ultimo perché certe attività richiedevano molta manodopera.

Per la quantità e la qualità del lavoro svolto, gli italiani erano molto apprezzati dai datori di lavoro, tanto da essere preferiti, talvolta, agli svizzeri, contribuendo ad accentuare sul finire del secolo il divario tra indigeni e stranieri, soprattutto italiani. In almeno due occasioni si sfiorò la tragedia, una a Berna nel 1893 (Käfigturmkrawall) e un’altra volta a Zurigo nel 1896 (Italienerkrawall). Il conflitto sociale, come si vedrà meglio nel prossimo articolo, tenderà ad aggravarsi proprio all'inizio del nuovo secolo, senza che la Confederazione avesse strumenti adatti per intervenire.

«Eroi» o «vittime»?

Quando sotto la spinta di interessi nazionali e internazionali nella seconda metà dell’Ottocento fu decisa la costruzione della prima ferrovia transalpina con la galleria del San Gottardo, il ricorso alla manodopera italiana fu massiccio (e lo sarà ancora per quasi tutte le altre: Sempione, Ricken, LötschbergMont d'Or, Grenchen-Moutier, Hauenstein, Jungfraubahn, ecc.). Secondo alcuni studiosi si trattò di un’esperienza «eroica» (perché venne realizzata in condizioni difficili un'opera gigantesca), secondo chi scrive fu soprattutto un’esperienza «tragica» perché gli operai italiani erano vittime non solo delle condizioni miserevoli del Paese da cui fuggivano, ma anche del Paese in cui rischiavano continuamente la vita.

Per rendersene conto basta rievocare alcuni fatti, ricordando anzitutto che allora la Confederazione aveva pochi poteri in materia, perché la competenza principale l’avevano i Cantoni e la costruzione e l’esercizio delle ferrovie erano in mano a imprese private, guidate da interessi di profitto.

Condizioni disumane

Vincenzo Vela, Monumento alle vittime del lavoro nel traforo del San Gottardo (Airolo)

Per la galleria del Gottardo era stata fondata appositamente la Compagnia ferroviaria del Gottardo, che dopo aver raccolto dagli Stati interessati (Italia, Germania, Svizzera) il finanziamento ritenuto/presunto necessario lasciò vincere l’appalto all'imprenditore ginevrino Louis Favre (1826-1879), che aveva fatto l’offerta più vantaggiosa e s’impegnava a realizzare l’opera entro otto anni dall'inizio dei lavori (settembre-ottobre 1872) per la somma complessiva di 56 milioni di franchi (che risulterà molto presto assolutamente insufficiente).

Poiché le operazioni non andarono come sperato, l’impresa rischiò il fallimento. Per evitarlo, gli stessi Stati garantirono un ulteriore finanziamento, ma Favre si vide costretto a risparmiare su tutto, persino sulle paghe degli operai e sulle misure d’igiene e di sicurezza essenziali, alimentando nei lavoratori un’ondata di reclami e un forte senso di ribellione, anche perché in galleria gli infortuni anche gravi erano frequenti, l’aria che si respirava era appestata dai gas provocati dalle esplosioni della dinamite, la temperatura era elevata (sui 30°), il pericolo diffuso.

Alcuni operai reagirono abbandonando il lavoro senza permesso (Göschenen 28 luglio 1875), ma ad attenderli fuori della galleria c’era un drappello di militari di Uri che non esitò a sparare uccidendone quattro. Il fatto creò sconcerto nell'opinione pubblica e nelle organizzazioni dei lavoratori e la stessa Confederazione intervenne inviando sul posto il commissario federale, Hans Hold. Nel suo rapporto non poté fare a meno di costatare «le condizioni pietose», l’ambiente «estremamente insalubre» e le condizioni igieniche «del tutto insufficienti» in cui erano costretti a vivere e a lavorare migliaia di persone, sollecitando rimedi radicali. Tarderanno ad arrivare, ma la situazione dopo il 1875 cominciò a migliorare.

Giovanni Longu
Berna 12.02.2025 

05 febbraio 2025

1945, 27 gennaio: il giorno della memoria …da attualizzare!

Il 27 gennaio 1945, il campo di sterminio di Auschwitz (Polonia) veniva liberato dall’Armata Rossa, rendendo pubblico lo sterminio di milioni di ebrei europei perpetrato dai nazisti (non solo ad Auschwitz) e diffondendo nel mondo libero l’orrore per quanto accaduto. Dal 2005, per decisione delle Nazioni Unite, il 27 gennaio è dedicato alla memoria delle vittime della Shoah o Olocausto e impegna tutti gli Stati membri dell’ONU a «inculcare nelle generazioni future le lezioni dell’Olocausto». Da allora «il giorno della memoria» si celebra regolarmente, ma credo che gli Stati non svolgano ancora a sufficienza il loro compito soprattutto nei confronti dei giovani. Di fronte a troppe persone che non sanno nulla o troppo poco dei «campi di sterminio», mi sono chiesto se ciò dipenda solo da una difficoltà oggettiva di comunicare oppure anche da un’insufficiente conoscenza storica dei fatti, da una sottovalutazione delle cause e persino da atteggiamenti di capi di Stato e di Governo che non aiutano a superare radicalmente quelle cause.

Crimini inenarrabili

Auschwitz non era un campo di lavoro, ma di sterminio. Pochissimi, 
tra quelli che varcarono quella famigerata porta, uscirono vivi nel 1945.
Che ad Auschwitz, ma anche in altri campi di sterminio, si siano compiuti crimini inenarrabili è ormai noto a tutti, anche senza visitare i luoghi, che comunque non riuscirebbero a evidenziare la condizione subita da milioni di persone negli ultimi anni della seconda guerra mondiale. Eppure, secondo molti sondaggi, la disinformazione sull'Olocausto è in aumento e merita pertanto qualche riflessione, anche se le vere cause restano oscure.

Certamente non aiutano la corretta percezione di quanto avvenuto nei campi di sterminio la distanza temporale di oltre ottant'anni dai fatti accertati, la distruzione e successiva «bonifica» di gran parte della «scena dei crimini», la progressiva sparizione dei testimoni, la complessità del tema. A tutto ciò va aggiunta sicuramente la difficoltà del linguaggio mediatico, preciso a livello specialistico, meno comprensibile a livello comune. Non credo che aiutino la comprensione termini come Shoah o Olocausto (all'origine di dispute accese anche di recente), l’uso indifferenziato del termine Lager (tradotto generalmente «campo di concentramento», non sapendo che i tedeschi oltre ai campi di concentramento, di internamento, di smistamento, di lavoro, crearono anche appositi campi di sterminio), la preferenza (spesso esclusiva) di evidenziare i fatti senza nemmeno accennare alle cause, alle responsabilità diffuse, ecc.

Indubbiamente resta difficile e forse impossibile per chiunque spiegare o anche solo cercare di far comprendere la violenza, la crudeltà, l’oltraggio all'umanità subiti da milioni di persone, non solo ebrei, in quei campi, ma forse proprio per questo è necessario che la memoria di quei fatti resti viva. Per dare seguito alla volontà dell’Assemblea delle Nazioni Unite è tuttavia imprescindibile che «le lezioni dell’Olocausto» vadano approfondite e attualizzate di continuo.

Oltre l’olocausto degli ebrei

Sarebbe un paradosso continuare (fino a quando?) a commemorare le vittime di Auschwitz senza rendersi conto che l’origine di quello sterminio ha avuto una gestione lenta (perché popoli, governi e la stessa Chiesa hanno considerato spesso la «diversità» come un problema esistenziale) e non si può escludere ch'esso possa ripetersi, magari in altre forme meno radicali. Del resto molti segnali non sono affatto tranquillizzanti, a cominciare dalla memoria e da alcuni comportamenti «ufficiali».

Che la memoria col passare del tempo possa indebolirsi è normale, ma non si può ritenere «normale» che mentre si ricorda la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa si dimentichi completamente l’eccidio di centinaia di migliaia di persone, soprattutto fra le comunità tedesche dell’Europa orientale, perpetrato dagli stessi soldati e la sistematica «pulizia etnica» a cui furono sottoposte dal regime sovietico le popolazioni di Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Ucraina e Germania orientale fino al 1950.

Naturalmente, proprio nel giorno della memoria, non si dovrebbero dimenticare con scuse varie nemmeno altri eccidi della seconda guerra mondiale come il violento bombardamento di Dresda (13.2.1945) con 135.000 morti e le distruzioni di Hiroshima e Nagasaki (6 e 9 agosto 1945) con oltre 210.000 morti e 150.000 feriti. E speriamo che l’umanità non abbia mai più a rivivere eventi del genere, anche se, purtroppo, molte guerre sanguinose continuano.

Senza cadere in facili moralismi, certi mali vanno tuttavia estirpati alla radice, altrimenti continuano ad agire sotto traccia. A mio parere, per esempio, meriterebbero una condanna senza esitazione e senza sconti quegli atteggiamenti (ideologici) che considerano i profughi nemici reali o potenziali da respingere (magari incatenati!), i nativi da difendere e privilegiare («prima i nostri»!), un dovere patriottico la difesa dei confini (anche trattenendo a lungo su un barcone in condizioni precarie decine di richiedenti l’asilo), «ragion di Stato» sottrarre un delinquente alla cattura o fare «cose sporchissime, anche trattando con i torturatori per la [presunta] sicurezza nazionale» (Bruno Vespa) e quell'insistenza trita sulla «nazione», ignorando i più grandi massacri del secolo scorso provocati dal nazionalismo e i rischi degli «Stati-nazione» a scapito, in Europa, di un processo integrativo che i padri fondatori avevano auspicato nel dopoguerra, ecc.

Ciò che è da evitare è chiaro, più importante, però, è agire per la pace, la solidarietà umana, la concordia, il rispetto della vita e della dignità di ogni persona.

Giovanni Longu
Berna, 27.01.2025, pubblicato su L'ECO il 5.2.2025.

29 gennaio 2025

1850: la febbre ferroviaria svizzera e gli italiani

Due secoli fa, nel 1825, la rete ferroviaria europea era ancora in uno stato embrionale, quella svizzera inesistente. Da allora, tuttavia, la strada ferrata o ferrovia cominciò a diffondersi ovunque in Europa, ma non ancora in Svizzera, paese montuoso e considerato inadatto dalla maggioranza dei Cantoni, allora competenti in materia di comunicazioni. Nel 1845 la Svizzera possedeva meno di due chilometri di ferrovia (il prolungamento della linea Strasburgo-Saint Louis fino a Basilea), ma si rendeva conto dell’importanza del trasporto ferroviario e del ritardo accumulato. Nel 1850 il Consiglio federale presentò al Parlamento un piano per una rete ferroviaria nazionale, evidenziando l’importanza delle ferrovie «per il trasporto delle merci e delle persone» e la convenienza per la Svizzera di dotarsi come altri Stati di una efficiente sistema ferroviario quale «condizione fondamentale dello sviluppo intellettuale e della prosperità materiale».

Quando la febbre ferroviaria pervase la Svizzera

In pochi anni divampò in tutta la Svizzera una sorta di febbre ferroviaria. La Confederazione, i Cantoni, le Città volevano ferrovie, funicolari, tranvie. Le reclamavano il progresso, interessi nazionali e internazionali, le industrie, i commerci, il turismo e persino il prestigio.

L’avvio dei primi lavori intercantonali fu tuttavia lento e complicato perché la Confederazione non aveva ricevuto dalla Costituzione del 1848 competenze specifiche al riguardo e le rivalità tra i Cantoni, ai quali spettava il rilascio dei permessi, non facilitavano gli accordi. Tant’è che l’unica ferrovia interamente svizzera allora in funzione era la Zurigo-Baden di 23 km.

Per superare questo tipo di ostacoli, nel 1852 l’Assemblea federale decise di lasciare ai Cantoni la competenza sulle concessioni, ma di dare alla Confederazione il potere di controllo e il diritto delle autorizzazioni per le costruzioni. Superati questi ostacoli, la Svizzera riuscì a colmare in pochi decenni il forte ritardo accumulato, raggiungere i livelli degli Stati più avanzati e superarli. Nemmeno il tema dei finanziamenti costituì un serio problema. Fu infatti risolto ricorrendo dapprima a grandi gruppi finanziari europei come Rotschild e Crédit Mobilier e poi al Credito svizzero (Schweizerische Kreditanstalt/Credit Suisse), fondato nel 1856 da Alfred Escher.

Nella seconda metà dell’Ottocento, le realizzazioni si susseguirono a ritmi impressionanti e le tratte, solitamente di pochi chilometri, non devono trarre in inganno, perché spesso dovevano attraversare terreni difficili. Alcune ferrovie, specialmente quelle transalpine e di montagna, furono imprese da giganti e gli italiani, come si vedrà nel prossimo articolo, ne furono protagonisti.

Realizzazioni

Una delle prime ferrovie svizzere, dopo quella tra Zurigo e Baden (1847), fu la linea Zurigo-Winterthur (1855). Nell'aprile del 1857 vennero inaugurate le «Ferrovie delle cascate del Reno» tra Sciaffusa e Winterthur. Contemporaneamente si costruiva la linea Basilea-Olten (particolarmente impegnativa perché doveva superare pendenze del 27‰) attraversando la galleria dell'Hauenstein (Läufelfingen-Trimbach), la più lunga della Svizzera fino a quel momento (ca. 2,5 chilometri). Questa linea proseguirà poi fino a Lucerna e si congiungerà con la linea del Gottardo.

Tra il 1856 e il 1862 furono costruite le linee Berna-Friburgo-Losanna e Neuchâtel-La Chaux-de-Fonds, un’impresa straordinaria per l’epoca data la forte pendenza (31‰) del tracciato. Nel 1860, a Basilea, la rete ferroviaria svizzera era già stata raccordata a quella francese e nel 1873 a quella tedesca. Nello stesso decennio si lavorò intensamente sull’asse nord-sud realizzando la maggiore opera ferroviaria del secolo, la galleria del San Gottardo.

Dopo la galleria del San Gottardo (1872-1882), gli italiani furono determinanti per la realizzazione di tutti gli altri grandi trafori ferroviari: Sempione (1898-1906), Ricken (1904-1910), Lötschberg (1906-1913), Mont d’Or, tra la Svizzera e la Francia, (1910-1915), Grenchen-Moutier (1911- 1915), la galleria di base dell’Hauenstein, tra Trimbach e Tecknau (1912-1916), ecc.

Nel frattempo venivano realizzate numerose altre ferrovie, specialmente di montagna, da quelle più celebri, come la Jungfraubahn (1889-1912) e la ferrovia retica (1888-1910, dal 2008 patrimonio mondiale dell’UNESCO) a quelle forse meno famose ma ancora oggi molto efficienti come la Vitznau-Rigi-Bahn (1869-1871, la prima ferrovia a cremagliera d’Europa), la Arth-Rigi-Bahn (1873-1875), l’Alpnachstad-Pilatus (1886-1889, la ferrovia a cremagliera più ripida del mondo), la Gornergratbahn (1896-1898, che collega Zermatt a Gornergrat nella regione del Monte Rosa), la Brienz-Rothorn (1889-1891), la Furka-Oberalp (1911-1915), ecc.

Nel 1862 la rete ferroviaria svizzera contava appena 1148 chilometri di binario, nel 1900 ne aveva già 3700 e nel 1911 ben 4.791 chilometri ed era una delle più dense del mondo.

Giovanni Longu
Berna, 29.01.2025

22 gennaio 2025

1850: Rapporti Svizzera-Italia (Regno di Sardegna)

Nel 1850, due anni dopo la costituzione dello Stato federale e 11 anni prima dell’Unità d’Italia, la Svizzera trovò negli Stati confinanti i suoi principali partner commerciali, ma il Regno di Sardegna (Regno d’Italia dal 1861) risulterà tra i più affidabili. La giovane Confederazione, ancora in fase di consolidamento ma con un sistema industriale ben avviato, aveva bisogno di sbocchi commerciali sicuri e il Regno di Sardegna, che il Congresso di Vienna aveva ampliato con i territori della Repubblica di Genova, era in grado di offrirle anche un porto efficiente per le esportazioni d’oltremare. Alla luce della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera ritengo opportuno rievocare l’Accordo commerciale del 1850, a cui ne seguiranno molti altri, perché consente di ricordare tre costanti della politica svizzera nei confronti dell’Italia: cura dei rapporti di buon vicinato, disponibilità alla collaborazione in tutti i campi, garanzia della reciprocità.

Rapporti di buon vicinato

La Svizzera, costituita principalmente da una popolazione di lingua tedesca, ha coltivato da sempre intensi rapporti commerciali e culturali con la Germania. Essendo i francofoni il secondo gruppo demografico, la Svizzera ha sempre intrattenuto anche con la Francia ottimi rapporti. Gli scambi commerciali e culturali con l’Italia (nel suo complesso), invece, cominciarono a intensificarsi solo nella seconda metà dell’Ottocento, sebbene fossero già abituali nella fascia di confine (specialmente tra la regione di Ginevra e la Savoia e tra la Lombardia e la Svizzera italiana).

Prima del 1850 esistevano già frequenti scambi tra la Svizzera e l’Italia ((considerata nel suo complesso)  soprattutto in campo religioso (monachesimo, Riforma e Controriforma), militare (importanti contingenti di mercenari di stanza nel Mezzogiorno), economico (notevoli flussi migratori dalla Svizzera verso l’Italia e forti investimenti specialmente nel settore industriale) e umano (Svizzera terra d’asilo per molti perseguitati religiosi e politici), ma non erano né sistematici né regolamentati. Anche per questo acquista grande rilevanza l’accordo commerciale tra Svizzera e Italia del 1850.

Per comprendere maggiormente la portata di quell'accordo, è tuttavia necessario ricordare che il Lombardo-Veneto era allora (fino al 1866) sotto il dominio austriaco e tra la Svizzera e l’Austria i rapporti erano pessimi per la minaccia austriaca di cacciar via dalla Lombardia tutti i ticinesi perché il Ticino accoglieva (con spirito di fratellanza) i numerosi renitenti, disertori e perseguitati politici lombardi che riuscivano a passare la frontiera.

E’ vero che la Svizzera, anche in ossequio alle regole introdotte dal Congresso di Vienna, ospitava malvolentieri i rifugiati politici (renitenti, disertori, rivoluzionari) perché le procuravano facili recriminazioni da parte degli Stati europei interessati, ma non accettava ingerenze nella sua politica d’asilo. Del resto, per limitare le richieste di espulsione di rifugiati «pericolosi» (soprattutto da parte dell’Austria-Ungheria, ma anche del Regno sardo), la Confederazione proibiva loro di fare propaganda politica contro gli Stati vicini sul suo territorio, sia che si trattasse di Mazzini, di Lenin, di  Trotsky o di chiunque altro, ma non poteva impedire che migliaia di svizzeri sostenessero i patrioti italiani e i loro moti rivoluzionari o vi partecipassero direttamente, come durante l’insurrezione di Milano (le famose cinque giornate del marzo 1848).

Accordi con l’Italia

Non si può dire che con l’accordo commerciale del 1850 la Svizzera considerasse l’Italia più affidabile degli altri Stati confinanti, ma quella scelta fu certamente facilitata dalla circostanza non di poco conto che in quel momento i rapporti col Regno di Sardegna erano meno tesi e più promettenti di quelli con l’Austria-Ungheria, la Germania e la Francia. Con questi Stati, le difficoltà erano dovute non solo alla questione dei rifugiati politici, ma anche a rivendicazioni territoriali (per esempio, la Prussia rivendicava il controllo sul Cantone di Neuchâtel, nonostante la contrarietà della maggioranza della popolazione), all'introduzione unilaterale di dazi doganali su alcuni prodotti, a divergenze politiche, ecc.

Col Regno di Sardegna, invece, le relazioni erano più tranquille, essendo chiaro a tutti che i ticinesi sentissero una forte empatia verso i «fratelli» italiani, in lotta per una giusta causa (tanto da spingere alcune migliaia di ticinesi a partecipare attivamente al Risorgimento italiano combattendo, inviando armi, accogliendo i fuggitivi e nonostante le limitazioni e gli obblighi imposti dal Consiglio federale).

I numerosi accordi che seguirono a quello del 1850, evidentemente di buon auspicio, hanno consolidato quella «amicizia perpetua e libertà reciproca di domicilio e commercio» tra la Svizzera e l’Italia sancita dall'accordo fondamentale del 1868, stabilendo per sempre la direzione e lo spirito dei rapporti italo-svizzeri, che hanno raggiunto, oggi, «un livello di eccellenza senza precedenti» (Ambasciatore d’Italia Gian Lorenzo Cornado).

Giovanni Longu
Berna 22.01.2025