Nello Celio (1914-1995) |
Il giudizio storico su Nello Celio è forse ancora controverso come lo è stato quando era in vita, ma non c’è dubbio ch'egli sia stato un importante personaggio della vita pubblica ticinese e nazionale, con una visione del Ticino e della Svizzera che superava i confini nazionali. Un aspetto della sua personalità di cui si è sempre parlato e scritto poco è la sua attenzione particolare all'Italia e agli italiani, specialmente quelli immigrati in Svizzera.
Celio e l’Italia
Celio conosceva e amava l’Italia, tanto che vi trascorreva
spesso le vacanze, soprattutto in Versilia, dove, a Marina di Pietrasanta,
possedeva una «casetta». Aveva una grande stima di alcuni uomini politici italiani
che conosceva personalmente come Carlo Donat-Cattin (dal 1969 al 1972
ministro del lavoro), «persona di un’intelligenza straordinaria e spassosissima»,
Emilio Colombo (presidente del Consiglio dei ministri dal 1970 al 1972),
Alberto Bemporad (all’epoca sottosegretario agli affari esteri), «una
cara persona» e numerosi altri. Tra i funzionari dell’Ambasciata italiana di
Berna conosceva in particolare il ministro Tullio Migneco, siciliano,
«mio buon amico», allora capo dell’Ufficio emigrazione. Ma aveva grande stima
degli italiani in generale e in particolare, come si vedrà, dei lavoratori
immigrati in Svizzera. Non lo nascondeva: «siamo in debito con l’Italia».
Dell’Italia conosceva non solo la politica, ma anche molte
tradizioni, culinarie comprese. Ad esempio, apprezzava molto il caffè all'italiana,
che riusciva ad ottenere anche in casa da ciascuna delle tre macchinette Faema,
Olympia e Mirella, che possedeva. Per ottenere un buon caffè sconsigliava di
comprare caffè già macinato, perché destinato a perdere presto l’aroma. Secondo
lui il caffè andrebbe sempre macinato al momento. La sua preferenza andava a
una miscela particolare di caffè africano e caffè portoricano. Avrebbe voluto
miscelare e tostare egli stesso il suo caffè «all'italiana», ma non era ancora
riuscito a trovare lo strumento apposito.
Celio e l’Accordo di emigrazione del 1964
Nello Celio amava certamente l’Italia e gli italiani, ma
forse la sua maggiore comprensione e stima era rivolta ai lavoratori
italiani venuti a lavorare in Svizzera, che sentiva poco compresi e
ingiustamente colpevolizzati. A quanti sostenevano la scarsa integrazione degli
immigrati nella Svizzera tedesca rispondeva che integrarsi era tutt'altro che
facile, soprattutto a causa della lingua. Di per sé, «gli italiani sono
rapidamente assimilabili», ma quando ci si mette di mezzo il tedesco («boia di
una lingua!»), le difficoltà sono inevitabili. Celio aveva conosciuto queste
difficoltà in famiglia e nel corso di un’intervista a ruota libera del 4 maggio
1972 confessò: «per mio figlio è stato una tragedia il tedesco, per mia figlia
no».
Di fronte alle ingiustificate preoccupazioni nei
confronti degli immigrati italiani, Celio aveva espresso chiaramente il suo
pensiero una prima volta in occasione del lungo dibattito al Consiglio
nazionale, nel 1965, sulla ratifica dell’Accordo di emigrazione tra la Svizzera
e l’Italia del 1964. Credo che le sue considerazioni meritino di essere
ricordate, anche per l’attualità che hanno conservato, nonostante sia trascorso
da allora quasi mezzo secolo e sebbene gli attacchi xenofobi di oggi non siano
più rivolti solo agli italiani.
E’ noto che quell'Accordo fu molto contestato in Svizzera
soprattutto dalla destra nazionalista. Celio fu tra i principali oppositori di quella
destra che aveva organizzato un’ondata di contrasti e di polemiche a scopo
puramente strumentale e ricattatorio. Alla domanda se fosse giustificata tanta violenta reazione, Celio
rispondeva molto garbatamente ma fermamente: «Non è certamente lecito
sottovalutare quanto accade nel paese in questo momento, ma ancor
meno lecito è assecondare le più deteriori manifestazioni contro i lavoratori
italiani, il cui unico torto è quello d'essere nella corrente migratoria verso
una economia che li ha reclamati a gran voce …».
Richiamo alla responsabilità e al buon senso
Da parte di Celio, la difesa degli immigrati italiani non era dovuta a semplice simpatia
personale e tantomeno si trattava di una difesa d’ufficio legata alla
«vicinanza» geografica e culturale del Ticino con l’Italia o a considerazioni
di tipo umanitario, ma era il risultato di una visione politica (una
chiara proiezione della Svizzera nel più vasto contesto dell’integrazione
europea) e di convinzioni profonde fondate sulla realtà.
Italiani durante lo scavo della galleria del San Gottarrdo |
La Grande-Dixence, la diga più alta del mondo |
Per contestualizzare ulteriormente l’intervento di Celio è
bene ricordare che dalla fine degli anni Cinquanta la paura dell’«invasione»
degli stranieri (allora soprattutto italiani) non faceva che aumentare, anche tra
i sindacati, tanto che il Consiglio federale si vide costretto a intervenire
introducendo misure di contenimento (i famosi «contingenti»)
all'ingresso di nuovi immigrati. L’applicazione immediata di tali misure aveva
creato non pochi problemi alle frontiere di Chiasso e Briga, e un problema
politico in Italia, perché molti lavoratori italiani, sprovvisti
dell’autorizzazione della polizia degli stranieri, vennero respinti alla
frontiera. Tant’è, soprattutto la destra nazionalista e xenofoba
riteneva tali misure insufficienti e il 15 dicembre 1964, ossia pochi mesi dopo
la firma dell’Accordo italo-svizzero, aveva lanciato un’iniziativa popolare «contro
l’inforestierimento».
Applicare le misure con «umanità»
In questo contesto, l’intervento dell’on. Celio proseguiva
con queste parole: «Sono nettamente favorevole alla politica del Consiglio federale che
vuole arginare il flusso degli operai stranieri: mi sia concesso di dire però
che se eccesso vi fu lo è stato nella domanda, non nella offerta di servigi, e
se errore vi fu, lo è stato da parte dei lati economici nell'aver seguito il
fenomeno con occhio contemplatore, senza avvertire tempestivamente l'esito
finale, che doveva tradursi in drastiche misure. E se errore politico è stato
commesso, non è quello di oggi, ma quello di non aver creato le condizioni per
assicurare alla nostra economia quegli elementi del settentrione italiano che,
per mentalità e costume di vita, meglio si addicevano ad una assimilazione».
Riferendosi in particolare ai frontalieri e agli operai
edili Celio non aveva dubbi: «Che i frontalieri non creino problemi congiunturali, non è da
dimostrare, e sappiamo quanto siano necessari ai nostri cantoni di frontiera.
Che gli operai dei cantieri discosti non domandano infrastruttura è anche
pacifico. Infine, che sia rispondente al nostro interesse, nell'ambito
delle nostre relazioni mondiali, considerare la presenza da noi di complessi
che al disopra delle frontiere creano legami economici con altri paesi, pure mi
sembra indiscutibile. Il Consiglio federale deve essere sorretto nei suoi
sforzi con dignità, senza tracotanti dichiarazioni e senza imposizioni arbitrarie circa il
numero, imposizioni che tengono conto del rumore che sale dalla piazza, ma
assai meno della complessità della nostra economia e della nostra industria. Ma
il Consiglio federale deve anche adoperarsi perché le misure siano applicate
con umanità. Non faccio rimproveri a nessuno, perché so quanto sia difficile,
ma è lecito dire che certe scene alla frontiera, la divisione delle famiglie,
quando proprio l'accordo le vuole unire, hanno risvegliato in noi sentimenti di
amarezza».
«Discutiamo
da pari a pari»
Celio
invitava quindi a evitare polemiche inutili e dannose, nell’interesse di tutti,
e a ricondurre la discussione entro i termini di un accordo che deve regolare
un «fatto economico» concernente due parti che vanno considerate «sullo stesso
livello».
Così
argomentava: «Io considero il lavoro straniero in Svizzera come un fatto
economico, una compenetrazione di economie, l'una ricca di braccia, l'altra di
attrezzature e di capacità produttiva. Non facciamo, per la dignità stessa dei
lavoratori, del lavoro italiano in Svizzera, un fatto di carità, o di
assistenza internazionale. Mettiamo le due parti sullo stesso livello, e
discutiamo da pari a pari, senza speculazioni sullo stato di necessità dei
contraenti».
Giovanni
Longu
Berna, 12. 02. 2014
Berna, 12. 02. 2014
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