15 maggio 2013

Italia-Svizzera: integrazione e cittadinanza (prima parte)


Chiunque abbia o abbia avuto esperienze migratorie si può ben rendere conto dell’importanza e della delicatezza della discussione in atto in Italia sulla cittadinanza degli immigrati, soprattutto di quelli di seconda generazione. Un tema che non può essere risolto con una semplice modifica legislativa, ma va discusso e approfondito sotto molteplici aspetti, senza farne tuttavia un oggetto di scontro ideologico sui diritti fondamentali o sui principi di civiltà. Bisognerebbe affrontarlo con un certo pragmatismo. Occorrerebbe cioè domandarsi se le singole misure proposte siano adeguate, opportune e socialmente sostenibili.

Anzitutto mi pare essenziale un chiarimento terminologico, cominciando dal termine «diritto». E’ vero infatti che ogni essere umano ha fin dalla nascita una serie di diritti «naturali», ma non quello di cittadinanza, se non in una forma generica come capacità ad averne una. Anche la famosa «Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino» del 1789 (elaborata durante la Rivoluzione francese) esprime questa distinzione. Considerare dunque come una sorta di diritto naturale il riconoscimento della cittadinanza italiana a chi nasce in Italia è una forzatura senza fondamento.
Nelle società moderne e democratiche la fonte del diritto è essenzialmente la Costituzione e le leggi. Vien da chiedersi, con riferimento all'Italia, perché finora nessuna proposta di legge è giunta alla discussione e approvazione finale. Probabilmente perché nessuna risultava chiara e adeguata alla situazione. Temo che faranno la stessa fine le nuove proposte che, stando a fonti giornalistiche, vorrebbero addirittura introdurre una sorta di «jus soli», ossia il diritto di cittadinanza automatica per chi nasce sul territorio nazionale da genitori rispondenti ad alcuni requisiti.

Politica d’integrazione
Il tema della cittadinanza nei confronti degli stranieri domiciliati in Italia e soprattutto di quelli di seconda generazione, ossia nati in Italia, è tuttavia ineludibile per ragioni politiche e di opportunità. Anzitutto per ragioni politiche, perché nessuno Stato democratico può tollerare a lungo andare una quota eccessiva di stranieri (dotati generalmente di meno diritti dei cittadini). Ma soprattutto per ragioni di opportunità: è di gran lunga preferibile per una società fondata sul consenso e sulla collaborazione poter contare sul contributo della (quasi) totalità dei suoi componenti piuttosto che escluderne una parte, rischiando persino di privarsi di apporti importanti e di alimentare il dissenso.
Per risolvere il problema credo anzitutto ch'esso vada considerato all'interno di una moderna politica migratoria che l’Italia ancora non ha. Purtroppo molti Stati, tra cui la Svizzera e da qualche decennio anche l’Italia, hanno pensato unicamente a regolamentare gli ingressi con le varie leggi sull'immigrazione, introducendo contingenti, controlli e misure di polizia. La Svizzera da alcuni decenni ha imparato con grandi benefici che un’efficace politica migratoria, pur continuando a tenere sotto controllo i flussi (contrastando ad esempio ogni forma di immigrazione clandestina), deve fondarsi soprattutto sull'accoglienza e sull'integrazione degli immigrati.
Per questa ragione ho apprezzato molto nel nuovo governo italiano l’istituzione di un ministero dell’integrazione. A chi ne contesta l’opportunità bisognerebbe rispondere che l’integrazione è importante per gli immigrati, ma soprattutto per l’Italia. In un Paese non possono convivere a lungo pacificamente persone di serie A e di serie B. Tanto vale che siano tutte di serie A, ossia persone che si sentano accettate, rispettate e stimate, sebbene temporaneamente prive dei diritti politici.

Integrazione e cittadinanza
Una buona integrazione è anche una condizione fondamentale per divenire a tutti gli effetti cittadini nella pienezza dei diritti anche politici. In Svizzera si è molto discusso nei decenni passati se la naturalizzazione, ossia l’acquisizione della cittadinanza, sia da considerare più un punto di arrivo che un punto di partenza. Oggi sembra che non sussistano dubbi nel considerare l’integrazione, almeno in una misura essenziale, come la principale condizione per la naturalizzazione.
Cecile Kyenge, ministra per l'integrazione
Lungi da me dare suggerimenti alla ministra per l’integrazione Cecile Kyenge, ma conoscendo entrambe le situazioni, quella svizzera e quella italiana, non ho dubbi nel ritenere preferibile per l’Italia che si elabori dapprima e si implementi poi una condivisa ed efficace politica migratoria incentrata sull'integrazione. Tutto il resto (modificare leggi, cancellare reati, ecc.) sarà più facile.
Puntare invece, come sembrerebbe da certa stampa, sull'introduzione dello «jus soli» per chi nasce sul territorio nazionale mi pare un azzardo destinato a sollevare violente opposizioni (e data la situazione italiana non sarebbe proprio il caso!). Posso aggiungere che in Svizzera si è già tentata questa strada (un caso forse più unico che raro nella storia moderna delle politiche migratorie nazionali) e si è persino giunti ad adottare una legge federale che consentiva ai Cantoni (sovrani in materia di diritti civili) di applicare sul loro territorio il diritto di cittadinanza alla nascita (sia pure a certe condizioni). Ebbene, in forza di quella legge non c’è mai stata a quanto sembra alcuna naturalizzazione, per cui quella legge è stata abrogata.

Cittadinanza facilitata
Ciò che in Italia mi pare auspicabile è la facilitazione dell’acquisizione della cittadinanza italiana per i figli di stranieri già residenti stabilmente da un certo numero di anni e ritenuti in certa misura integrati. Per ottenere la cittadinanza di questi stranieri di seconda generazione potrebbe bastare, ad esempio, una semplice richiesta, visto che tutte le altre condizioni sono già adempiute dai genitori. In questo modo, forse, si potrebbero ritenere soddisfatti sia coloro che ritengono «giusto» che chi nasce in Italia venga considerato cittadino italiano, ma anche coloro che sono decisamente contrari alla concessione «automatica» della cittadinanza a chiunque nasca in Italia. Tanto più che in certi casi la cittadinanza italiana, diversa da quella del padre o della madre, potrebbe non essere desiderata o gradita.
Giovanni Longu
Berna, 15.05.2013

Roma ancora tentenna su Rubik



Per l’Italia il «modello Rubik» sembra davvero un rompicapo… e rischia di provocare danni irreversibili. Il governo Letta è ancora fermo ai blocchi di partenza. Eppure i «Saggi» di Napolitano lo hanno detto molto chiaramente: «Si propone al Governo di valutare l'opportunità di riprendere i negoziati bilaterali con la Svizzera per un accordo di trasparenza ai fini della tassazione dei redditi transfrontalieri di natura finanziaria, alla luce dei recenti sviluppi sul fronte della fiscalità internazionale (in particolare, degli accordi conclusi dagli Stati Uniti con vari paesi europei) sullo scambio di informazioni, nonché delle raccomandazioni del G8 e del G20 su questa materia; in parallelo, il Governo può attivarsi in sede UE affinché l’Unione stessa negozi un tale accordo, in nome di tutti gli Stati membri».

La proposta dei Saggi
La proposta dei «Saggi» mi pare legittima e utile e viene da chiedersi perché Roma ancora tentenna. Forse
per paura che dietro una «sanatoria» si nasconda un vero e proprio «condono tombale» nei confronti degli evasori fiscali che negli scorsi decenni hanno preferito depositare i loro capitali in Svizzera, evadendo il fisco italiano? Oppure perché si aspetta che sia l’Unione Europea a risolvere la vertenza non solo per l’Italia, ma anche per altri Paesi europei che hanno con la Svizzera un problema analogo? E’ probabile che a entrambe le domande si debba rispondere sì, ma è certo che quanto più tempo passa tanto più modesto sarà il risultato in termini monetari per l’Italia.
Semplificando la problematica, si tratta di ridefinire con l’Italia un accordo complessivo in materia fiscale che ha due risvolti: uno riguarda il passato e l’altro riguarda il futuro. Mentre per il futuro è sicuramente corretto che sia l’Unione Europea ad occuparsene per tutti i membri dell’UE, per quanto riguarda il passato mi sembra difficile che l’UE possa entrare nei dettagli di ciascun Paese.
Per il futuro si tratta essenzialmente di concordare a livello europeo uno scambio automatico dei dati fiscali e non sembrano più sussistere grandi opposizioni nemmeno da parte svizzera. Se infatti fino a pochi mesi fa il «segreto bancario» svizzero sembrava non negoziabile, ora la Svizzera non vi si oppone più a patto che la trasparenza riguardi tutti i Paese europei, compresi Austria e Lussemburgo, dove vige ancora una sorta di segreto bancario analogo a quello svizzero.

Rubik riguarda il passato
Per quanto riguarda il passato è evidente che ciascun Paese ha una sua propria vertenza, che andrebbe regolata bilateralmente. Per questo finora hanno regolato il passato Londra e Vienna, mentre Berlino ha tentato di regolarlo a livello governativo giungendo persino a un accordo, poi naufragato a livello parlamentare per l’opposizione dei socialdemocratici (non si sa bene se perché a loro sembrava indecente o semplicemente per far dispetto alla Merkel che ha molte probabilità di essere rieletta alle prossime elezioni tedesche d’autunno. Quanto agli altri due accordi va detto per inciso che Londra e Vienna già incassano fior di milioni dalla Svizzera.
Pur non essendo uno strenuo difensore del modello Rubik, credo che il tergiversare di Roma non giovi all’Italia. Del resto, anche la Germania, che ha meno urgenze di cassa dell’Italia, ha lasciato intendere tramite il suo ministro degli esteri, che con Berna «resta aperta la via di un’intesa fiscale» anche se «in questo momento non è possibile dire se verrà ripreso il piano svizzero Rubik oppure no (…)». Evidentemente il «no» lascia intendere che anche Berlino aspetta di vedere quali saranno gli sviluppi sul fronte dell’Unione europea, che è sicuramente interessata a nuovi accordi fiscali con la Svizzera».
Dal punto di vista svizzero, le idee sembrano chiare e in questi primi mesi dell’anno eminenti personalità, a cominciare dallo stesso Presidente della Confederazione, hanno affermato che la Svizzera non accetterà alcun diktat e tantomeno di «denunciare» persone che, pur avendo esportando capitali non dichiarati al loro Paese, non hanno violato alcuna legge svizzera.

Berna disponibile al negoziato
Riguardo al modello Rubik, ambienti politici e finanziari sembrano disponibili a discuterlo e adattarlo alle situazioni specifiche, non a stravolgerlo o abbandonarlo. Il 25 aprile scorso, in un’intervista al quotidiano svizzero «Le Temps», il presidente dell’Associazione svizzera dei banchieri (ASB) si è detto convinto che lo scambio automatico di informazioni è meno efficace dell’imposta liberatoria alla fonte, ossia il modello Rubik. Ciò che molti non hanno capito è che esso mira a regolarizzare i fondi depositati in passato nelle banche svizzere, non i depositi futuri. Per il futuro la Svizzera è infatti sempre più disponibile a uno scambio automatico di informazioni.
Osservando la lentezza della reazione italiana, francamente non si capisce perché non siano ancora ripresi i negoziati con la Svizzera. Eppure è evidente che man mano che passa il tempo c’è il rischio che dei capitali esportati illecitamente ne restino sempre meno nelle casseforti svizzere e pertanto che sia anche sempre minore il tesoretto che la Svizzera è disposta a restituire agli Stati interessati, tra cui l’Italia.
E’ pertanto auspicabile che i negoziati riprendano quanto prima, anche perché i tempi sembrano favorevoli.
Giovanni Longu
Berna, 15.05.2013