Chiunque abbia o abbia avuto esperienze migratorie si può ben rendere conto dell’importanza e della delicatezza della discussione in atto in Italia sulla cittadinanza degli immigrati, soprattutto di quelli di seconda generazione. Un tema che non può essere risolto con una semplice modifica legislativa, ma va discusso e approfondito sotto molteplici aspetti, senza farne tuttavia un oggetto di scontro ideologico sui diritti fondamentali o sui principi di civiltà. Bisognerebbe affrontarlo con un certo pragmatismo. Occorrerebbe cioè domandarsi se le singole misure proposte siano adeguate, opportune e socialmente sostenibili.
Anzitutto mi pare essenziale
un chiarimento terminologico, cominciando dal termine «diritto». E’ vero infatti
che ogni essere umano ha fin dalla nascita una serie di diritti «naturali», ma
non quello di cittadinanza, se non in una forma generica come capacità ad
averne una. Anche la famosa «Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino»
del 1789 (elaborata durante la Rivoluzione francese) esprime questa
distinzione. Considerare dunque come una sorta di diritto naturale il
riconoscimento della cittadinanza italiana a chi nasce in Italia è una
forzatura senza fondamento.
Nelle società moderne e democratiche la fonte del diritto è
essenzialmente la Costituzione e le leggi. Vien da chiedersi, con riferimento
all'Italia, perché finora nessuna proposta di legge è giunta alla discussione e
approvazione finale. Probabilmente perché nessuna risultava chiara e adeguata
alla situazione. Temo che faranno la stessa fine le nuove proposte che, stando
a fonti giornalistiche, vorrebbero addirittura introdurre una sorta di «jus
soli», ossia il diritto di cittadinanza automatica per chi nasce sul territorio nazionale da genitori rispondenti ad alcuni requisiti.
Politica d’integrazione
Il tema della cittadinanza nei confronti degli stranieri
domiciliati in Italia e soprattutto di quelli di seconda generazione, ossia
nati in Italia, è tuttavia ineludibile per ragioni politiche e di opportunità.
Anzitutto per ragioni politiche, perché nessuno Stato democratico può tollerare
a lungo andare una quota eccessiva di stranieri (dotati generalmente di meno
diritti dei cittadini). Ma soprattutto per ragioni di opportunità: è di gran
lunga preferibile per una società fondata sul consenso e sulla collaborazione
poter contare sul contributo della (quasi) totalità dei suoi componenti
piuttosto che escluderne una parte, rischiando persino di privarsi di apporti
importanti e di alimentare il dissenso.
Per risolvere il problema credo anzitutto ch'esso vada
considerato all'interno di una moderna politica migratoria che l’Italia ancora non
ha. Purtroppo molti Stati, tra cui la Svizzera e da qualche decennio anche
l’Italia, hanno pensato unicamente a regolamentare gli ingressi con le varie
leggi sull'immigrazione, introducendo contingenti, controlli e misure di
polizia. La Svizzera da alcuni decenni ha imparato con grandi benefici che
un’efficace politica migratoria, pur continuando a tenere sotto controllo i
flussi (contrastando ad esempio ogni forma di immigrazione clandestina), deve fondarsi
soprattutto sull'accoglienza e sull'integrazione degli immigrati.
Per questa ragione ho apprezzato molto nel nuovo governo
italiano l’istituzione di un ministero dell’integrazione. A chi ne contesta
l’opportunità bisognerebbe rispondere che l’integrazione è importante per gli
immigrati, ma soprattutto per l’Italia. In un Paese non possono convivere a
lungo pacificamente persone di serie A e di serie B. Tanto vale che siano tutte
di serie A, ossia persone che si sentano accettate, rispettate e stimate, sebbene
temporaneamente prive dei diritti politici.
Integrazione e cittadinanza
Una buona integrazione è anche una condizione fondamentale
per divenire a tutti gli effetti cittadini nella pienezza dei diritti anche
politici. In Svizzera si è molto discusso nei decenni passati se la
naturalizzazione, ossia l’acquisizione della cittadinanza, sia da considerare
più un punto di arrivo che un punto di partenza. Oggi sembra che non sussistano
dubbi nel considerare l’integrazione, almeno in una misura essenziale, come la
principale condizione per la naturalizzazione.
Cecile Kyenge, ministra per l'integrazione |
Lungi da me dare suggerimenti alla ministra per
l’integrazione Cecile Kyenge, ma conoscendo entrambe le situazioni,
quella svizzera e quella italiana, non ho dubbi nel ritenere preferibile per
l’Italia che si elabori dapprima e si implementi poi una condivisa ed efficace
politica migratoria incentrata sull'integrazione. Tutto il resto (modificare
leggi, cancellare reati, ecc.) sarà più facile.
Puntare invece, come sembrerebbe da certa stampa, sull'introduzione
dello «jus soli» per chi nasce sul territorio
nazionale mi pare un azzardo destinato a sollevare violente opposizioni (e
data la situazione italiana non sarebbe proprio il caso!). Posso aggiungere che
in Svizzera si è già tentata questa strada (un caso forse più unico che raro nella
storia moderna delle politiche migratorie nazionali) e si è persino giunti ad
adottare una legge federale che consentiva ai Cantoni (sovrani in materia di
diritti civili) di applicare sul loro territorio il diritto di cittadinanza
alla nascita (sia pure a certe condizioni). Ebbene, in forza di quella legge
non c’è mai stata a quanto sembra alcuna naturalizzazione, per cui quella legge
è stata abrogata.
Cittadinanza facilitata
Ciò che in Italia mi pare auspicabile è la facilitazione
dell’acquisizione della cittadinanza italiana per i figli di stranieri già
residenti stabilmente da un certo numero di anni e ritenuti in certa misura
integrati. Per ottenere la cittadinanza di questi stranieri di seconda
generazione potrebbe bastare, ad esempio, una semplice richiesta, visto
che tutte le altre condizioni sono già adempiute dai genitori. In questo modo,
forse, si potrebbero ritenere soddisfatti sia coloro che ritengono «giusto» che
chi nasce in Italia venga considerato cittadino italiano, ma anche coloro che
sono decisamente contrari alla concessione «automatica» della cittadinanza a
chiunque nasca in Italia. Tanto più che in certi casi la cittadinanza italiana,
diversa da quella del padre o della madre, potrebbe non essere desiderata o
gradita.
Giovanni Longu
Berna, 15.05.2013
Berna, 15.05.2013
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