19 agosto 2015

1965-2015: l’insegnamento di Mattmark


Nel cinquantesimo anniversario della tragedia di Mattmark si stanno svolgendo numerose manifestazioni non solo nel Vallese e prossimamente nei luoghi della catastrofe, ma anche in diverse parti d’Italia, a testimonianza della gravità di quella disgrazia del 1965 e del ricordo che si deve alle vittime. Del resto è ancora nella memoria di molti (sopravvissuti, soccorritori, giornalisti) ciò che avvenne alle 17.30 del 30 agosto di cinquant’anni fa in prossimità della diga idroelettrica in fase di completamento a Mattmark, nell’alta valle di Saas, in Vallese: lo stacco improvviso di una parte imponente del ghiacciaio Allalin sovrastante spazzò via in pochi minuti un intero cantiere operativo (macchinari, magazzini, officine, dormitorio, mensa, ecc.), uccidendo 88 lavoratori, 56 dei quali italiani, 23 svizzeri, 4 spagnoli, 2 austriaci, 2 tedeschi e un apolide.
Tragedia senza precedenti
Lapide a ricordo della tragedia del 30 agosto 1965 (foto gl)
L’eco della disgrazia superò in poche ore non solo i confini del Vallese, ma anche quelli svizzeri. La copertura mediatica fu straordinaria. Si trattava della più grave disgrazia sul lavoro avvenuta in Svizzera. Nemmeno ai tempi delle costruzioni delle ferrovie erano morti in una volta così tanti lavoratori. Inevitabilmente cominciarono subito anche le polemiche sulla sicurezza di quel cantiere e del lavoro in generale. Soprattutto da parte italiana fu sollevata la questione delle responsabilità e sulla stampa, specialmente in quella di sinistra, vennero lanciate precise accuse ai responsabili del cantiere, ma anche agli organi di vigilanza.
Non intendo riprendere la polemica se il cantiere era sistemato in luogo sicuro, se il ghiacciaio era sufficientemente monitorato, se i responsabili del cantiere erano più preoccupati di terminare i lavori in tempo per non dover pagare penali o della sicurezza dei lavoratori, se… se… ecc. Ne accenno soltanto perché mi capita di leggere qua e là ricostruzioni alquanto imprecise (ad esempio sulla localizzazione e la funzione di quel cantiere, sui lavori che vi si svolgevano, ecc.) che non aiutano certo a far luce su alcuni aspetti che non sono stati mai completamente chiariti.

La verità e il contesto migratorio
 Purtroppo «la verità» completa su quanto accaduto non si saprà mai (nemmeno quando saranno noti tutti gli atti del processo, in parte ancora coperti dal segreto) a causa dei molteplici fattori che possono avervi influito e del peso di ciascuno di essi. Quanto poi alle responsabilità personali dirette, credo che i risultati delle perizie e soprattutto le sentenze dei tribunali abbiano scagionato ampiamente (anche se forse non completamente) i responsabili del cantiere e dei lavori. Se poi ci siano state delle sottovalutazioni dei pericoli, errori di calcolo, omissioni, considerazioni di ordine più economico che umano (sicurezza dei lavoratori) nella collocazione del cantiere (non certo piazzato «ad occhio») e nei dispositivi di sicurezza, nel monitoraggio del ghiacciaio, nell’uso degli esplosivi, ecc. è materia opinabile, ma non prova di colpevolezza.


Gran parte della roccia che si vede in questa foto era ricoperta
di ghiaccio fino al giorno della tragedia del 1965 (foto gl)
Personalmente prendo atto dell’esito dei processi e delle conclusioni di molti studi, secondo cui quanto avvenuto era, almeno nella maniera improvvisa in cui è avvenuto, pressoché imprevedibile. Del resto, fino al momento della disgrazia, secondo le testimonianze di sopravvissuti, i lavori procedevano regolarmente e persino il brillamento delle mine (forse una concausa del distacco del ghiacciaio) avveniva senza preoccuparsi di possibili conseguenze sulla tenuta del ghiacciaio (comunque monitorato). Il fatto che di tanto in tanto precipitasse a valle qualche blocco di ghiaccio era ritenuto normale dalla maggioranza degli operatori di bulldozer e caterpillar, che altrimenti si sarebbero astenuti.
Preferisco tentare di individuare di quella tragedia l’impatto avuto nell’evoluzione dell’immigrazione italiana in Svizzera, che in quegli anni si trovava a una svolta.

L’immigrazione italiana del dopoguerra

Occorre anzitutto ricordare che dal dopoguerra la Svizzera si trovava in pieno boom economico e richiedeva molti lavoratori anche dall’estero, per diverse ragioni soprattutto italiani (altro che immigrazione clandestina, come ancora qualche sprovveduto scrive!). Gli italiani erano presenti in gran parte delle attività economiche, stagionali e non, ma soprattutto nelle grandi costruzioni infrastrutturali, soprattutto quelle idroelettriche d’alta montagna.
Il sopravvissuto Ilario Bagnariol (a s.) mentre
indica il luogo esatto dove si trovava il cantiere
distrutto dal crollo del ghiacciaio (foto gl)
Quando si rievoca la catastrofe di Mattmark si tende a dimenticare che fino al 1965 gli italiani avevano già partecipato alla costruzione di diverse decine di altre grandi dighe, comprese quelle più alte del mondo (Grande Dixence e Mauvoisin, rispettivamente di 285 e 250 metri, nel Vallese). Gli italiani erano non solo ancora presenti in gran numero in questo tipo di costruzioni, ma erano ritenuti in certa misura anche indispensabili. Ne è prova il fatto che nonostante le misure restrittive sull’ingresso degli stranieri, il governo dovette proseguire nella pratica liberale di concedere alle imprese che ne facevano richiesta tutti i permessi d'ingresso dei lavoratori stranieri di cui avevano bisogno.
Nel mese di agosto 1964 risultavano registrati in Svizzera 1.064.000 stranieri, compresi stagionali e frontalieri, ossia il 18% della popolazione residente. La popolazione straniera era dominata dagli italiani (oltre il 60%), dopo aver toccato tra il 1961 e il 1962 oltre il 70%.
Occorre però anche ricordare che la presenza massiccia di così tanti italiani da tempo suscitava nella popolazione sentimenti di paura di essere invasi e sommersi dagli stranieri (inforestierimento). Pochi svizzeri probabilmente sapevano che essi svolgevano generalmente lavori sgraditi agli autoctoni perché pesanti, pericolosi, stagionali. In verità, lo sapevano anche pochi politici italiani, persino tra quelli che gridarono allo scandalo dopo i processi di Mattmark. Per i primi governi del dopoguerra era certamente più importante sapere che l’emigrazione italiana aveva trovato nuovi sbocchi che occuparsi delle reali condizioni di vita e di lavoro degli espatriati.

I movimenti xenofobi
In Italia, il problema migratorio divenne tema di dibattito politico solo quando la Svizzera decise, negli anni ’50 e ’60, di non lasciare spazio alla propaganda comunista tra gli immigrati e di espellere gli attivisti più in vista. In concreto, tuttavia, si faceva ben poco per rasserenare il clima di reciproca ostilità che si stava creando tra svizzeri e stranieri (italiani). Anche in Svizzera si faceva ben poco, ma a riscaldare gli animi avrebbero provveduto ben presto, soprattutto dopo l’approvazione dell’Accordo fra la Svizzera e l’Italia relativo all’emigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera del 1964, i movimenti xenofobi. Questi erano convinti, in generale, che gli stranieri erano troppi e che le concessioni fatte all’Italia erano eccessive. Occorreva, secondo loro, bloccare l’incremento e il pericolo di «inforestierimento».
 Con questi obiettivi, proprio in risposta all’Accordo del 1964, il Partito democratico svizzero del Cantone di Zurigo il 15 dicembre 1964 aveva lanciato la prima iniziativa popolare xenofoba del dopoguerra «contro l’inforestierimento», che verrà depositata con 59.164 firme valide il 30 giugno 1965. L’iniziativa non sarà sottoposta al voto popolare perché ritirata dal comitato d'iniziativa nel 1968 dopo un dibattito in Parlamento in cui il Consiglio federale aveva dato assicurazioni in merito alla politica restrittiva richiesta. Ne verranno però lanciate altre, una in particolare, quella nota come «iniziativa Schwarzenbach» che rischiò nel 1970 di essere accolta dall’elettorato svizzero. L’inforestierimento e la xenofobia dominarono il dibattito politico per oltre un decennio, ma nessuna delle iniziative anti-stranieri ebbe il sopravvento. Perché?

L’insegnamento di Mattmark
La diga di Mattmark, "in terra", misura alla base 370 m,
è alta 120 m ed è lunga, al coronamento, ben 780 m.
Con il suo volume di 10.500.000 metri cubi è la più
voluminosa della Svizzera (foto gl)
La catastrofe di Mattmark fu certamente una delle disgrazie più gravi di tutta la storia dell’emigrazione italiana, la più tragica avvenuta in Svizzera e come tale merita di essere sempre ricordata. Credo tuttavia ch’essa meriti di essere ricordata anche perché, forse, ha prodotto nell’animo di molti svizzeri l’antidoto più efficace contro la xenofobia.
 Mentre in Italia la tragedia aveva innescato un fiume di inutili polemiche antisvizzere, in Svizzera aveva suscitato un’enorme ondata di commozione, solidarietà e rispetto nei confronti dei lavoratori stranieri, specialmente italiani, che rischiavano quotidianamente la vita per il benessere di questo Paese. Se prima, a condizionare l’idea di molti svizzeri sugli stranieri era principalmente il loro numero ritenuto eccessivo, dopo la tragedia di Mattmark s’impose in primo piano l’umanità spesso tragica di questi lavoratori che con la loro dedizione arricchivano la Svizzera, avendo tutto sommato poco in cambio.
Molti svizzeri faranno tesoro della celebre frase di Max Frisch: «Abbiamo chiamato braccia… e vennero uomini». Gli immigrati cominciavano ad essere visti non più soltanto come macchine umane, come «forza lavoro», numeri, ma come persone, con radici culturali e sociali, con sentimenti e aspirazioni ad una vita familiare e sociale «normale».
A questa svolta contribuì anche il Consiglio federale, che non mancò di esprimere non solo le condoglianze alle famiglie delle vittime e tutta la solidarietà del popolo svizzero, ma anche la riconoscenza a tutti i lavoratori stranieri impegnati in una «feconda attività nel nostro Paese». Il consigliere federale Friedrich Wahlen, facendosi in qualche modo portavoce di un sentimento ormai molto diffuso, ebbe a dire: «tutto il popolo svizzero prova per voi grande stima e viva riconoscenza».
Le buone intenzioni diventeranno con gli anni realtà: la politica immigratoria del governo terrà sempre più conto delle esigenze degli immigrati, le condizioni di sicurezza dei cantieri saranno rafforzate, le iniziative xenofobe saranno respinte, l’integrazione dei giovani di seconda generazione diventerà dagli anni ’70 pratica corrente, gli italiani saranno visti sempre più con simpatia, l’italianità sarà sempre più considerata elemento essenziale della coesione nazionale. Mattmark rappresenta una pietra miliare di questo processo virtuoso.
Giovanni Longu
Berna, 19.08.2015


 

05 agosto 2015

Stravolgimento di sensi (seconda parte)


Tra le tante parole ed espressioni che negli ultimi tempi sono usate con un significato diverso e almeno in parte stravolto rispetto a quello originario, le tre seguenti mi appaiono particolarmente interessanti.

Competenza
In senso giuridico la competenza di una persona è il suo potere decisionale. In questo senso si parla di «autorità competente». Per il senso comune, tuttavia, la competenza è legata soprattutto alle conoscenze e alle capacità umane, organizzative e gestionali di una persona ritenuta «competente» (che sa, che conosce l’ambito in cui opera). Perciò si ritiene comunemente che una persona, per esempio ai vertici di una azienda pubblica o privata, debba avere non solo il potere, ma anche le capacità richieste dalla funzione che esercita.
Nella pubblica amministrazione, invece, la scelta di un dirigente spesso non avviene in base alle sue capacità, ma a convenienze ed equilibri politici e persino all'appartenenza a cerchie ristrette dell’autorità di nomina, secondo logiche compensative risalenti al Medioevo.
Ho sempre ritenuto deleteria la scelta dei dirigenti pubblici in base al colore politico piuttosto che alle loro capacità personali. In queste condizioni risulta infatti assai difficile esigere efficienza e responsabilità. Ritengo che, soprattutto nel pubblico, capacità e responsabilità personali siano caratteristiche imprescindibili. L’efficienza di uno Stato si misura più sulla qualità della sua amministrazione o burocrazia che sulla qualità della sua classe politica.

Democrazia
Tutti i dizionari importanti ricordano l’origine di questo termine, dal greco, col significato di «governo del popolo». Oggi, purtroppo, nemmeno in Svizzera dove vige ancora un residuo di «democrazia diretta» (perché il popolo più volte l’anno è chiamato a scegliere e a decidere) il termine è usato in maniera convinta. C’è sì molta fiducia nelle istituzioni – fatto raro ormai in numerosi Paesi occidentali – ma molti cittadini ritengono che la voce del popolo non sempre arriva chiara e forte nelle stanze del potere.
E in Italia? Lo stato della democrazia è sicuramente peggiore perché oltre alla mancanza di ascolto delle voci (spesso lamentose) del popolo manca quasi completamente la fiducia nelle istituzioni. Del resto, se l’esempio viene dall’alto, non si vede come si possa avere fiducia in un Parlamento dove deputati e senatori, dimentichi degli elettori che li hanno eletti, passano con estrema facilità da un gruppo (partito) all'altro e votano non senza vincolo di mandato (come vorrebbe la Costituzione), ma secondo la disciplina imposta dal partito.
Lo Stato, che dovrebbe essere l’espressione della democrazia, è visto sempre più dai cittadini come un’organizzazione a sé stante, spesso oppressiva ma soprattutto distante dagli interessi del popolo. Quale fiducia possono avere nello Stato i giovani senza lavoro, i disoccupati, le persone povere o a rischio di povertà, i piccoli imprenditori, i meridionali che si sentono sempre più abbandonati, ecc.? Se questa è democrazia…!

Unione europea
Quando nel 1957, con i Trattati di Roma, si decise la costituzione della Comunità economica europea (CEE), cominciò a diffondersi l’idea che il sogno bimillenario di un’Europa unita poteva diventare realtà. Poco più di un secolo prima, Victor Hugo, ispirandosi agli unici due modelli allora esistenti, gli Stati Uniti d’America e la Svizzera, aveva preconizzato per l’Europa che Stati originariamente sovrani e spesso in guerra tra loro si sarebbero confederati e avrebbero garantito ai propri cittadini una salda democrazia: «Giorno verrà in cui voi tutte, Nazioni del Continente, senza perdere le vostre qualità peculiari e la vostra gloriosa individualità, vi fonderete strettamente in una unità superiore e costituente la fraternità europea…».
Dopo quindici anni di esperienze positive, nel 1973 la CEE dei sei Stati fondatori (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) cominciò ad accogliere nuove adesioni (Danimarca, Irlanda e Gran Bretagna). Bastò tuttavia la crisi petrolifera del 1973 per mettere in evidenza la fragilità politica dell’istituzione comunitaria. Ciononostante, la CEE continuò ad ampliarsi fino a comprendere gli attuali 28 Stati membri, divenendo via via un mercato sempre più vasto con regole sempre più vincolanti.
Nel 1992, per dare un forte segnale del cambiamento che intendeva attuare successivamente, col Trattato di Maastricht la CEE decise di cambiare nome e di chiamarsi Unione europea (UE). Prima e dopo Maastricht la CEE/UE adeguò in una prospettiva unitaria i suoi principali organismi. Insomma sembrava che finalmente la politica orientata al bene comune dei cittadini avesse preso il sopravvento sul mercato e sugli interessi nazionali. Illusione!
La crisi greca ha messo in luce non solo la situazione deprecabile della Grecia, ma anche la profonda crisi dell’UE, che vede allontanarsi, verrebbe giusto da dire «alle calende greche» (!), la realizzazione del sogno di molte generazioni di una «unione» europea, rispettosa dei diritti dei cittadini e protesa al loro sviluppo in tutti i sensi. Gli egoismi nazionali sembrano prevalere e impedire quella cessione di sovranità (non necessariamente intera) indispensabile per costituire un vero Stato federale, gli Stati uniti d’Europa. In questa situazione l’euroscetticismo dilagante dovrebbe far riflettere. (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 5.8.2015

22 luglio 2015

Stravolgimento di sensi (prima parte)


Di molte parole esistono un senso o significato proprio e uno o più sensi o significati figurati. Nel tempo, molte parole cambiano il significato proprio e finiscono per affermarsi sensi figurati o cambiano la «qualità» di ciò che era inteso originariamente. Per esempio il termine «benessere», da «stare bene, sentirsi bene» nell'anima e nel corpo è diventato ormai sinonimo di «possedere»: l’oggetto del benessere non è più (soprattutto) una condizione psicologica ma il possesso di ricchezze materiali. Specialmente nel linguaggio politico e in quello comune attinente alla politica è facile incontrare termini utilizzati ormai in un senso (completamente) diverso da quello originale. Di seguito indicherò a titolo di esempio alcune parole o espressioni utilizzate, ormai, con significati diversi da quelli originari

Austerità
Un tempo l’aggettivo «austero» veniva usato per caratterizzare una persona sobria, misurata, rigorosa, integra, onesta, affidabile, talvolta persino severa, inflessibile, intransigente (al contrario della persona smoderata, sregolata, intemperante, corrotta). Lo si usava anche per designare una politica di bilancio di uno Stato «restrittiva» o «di rigore», fatta di tagli alle spese pubbliche (senza pregiudicare i servizi) per contenere o ridurre il deficit.
L’austerità era una virtù. Ora non sembra più tale (almeno a livello pubblico) e, nell’Unione europea, sono molti i governanti che non vedono l’ora di uscire dal regime dell’austerità per imboccare finalmente la via della crescita. Come se in uno Stato (come in una famiglia) ci potesse essere crescita, nuovi acquisti, nuovi investimenti… con i conti non in regola e un debito fuori controllo. Pochi sembrano rendersi conto che uno Stato (come una persona) per rimettersi in forze deve prendere qualche medicina. Anche il premier Alexis Tsipras per far ripartire la Grecia e non lasciarla sprofondare nei debiti ha dovuto bere «l’amaro calice dell’austerità» (Il Sole 24 ore).

Corruzione ed evasione
Un tempo, sentirsi dare del «corrotto» era semplicemente infamante e bastava per mettersi da parte. Oggi, se tutti i corrotti e corruttori si mettessero da parte, in circolazione resterebbero in pochi. Quanto poi agli evasori, da quando si è sparsa la voce che la pressione fiscale in Italia è eccessiva, si continui pure a considerare peccato l’evasione, ma non c’è nessuno, credo, che sia disposto a considerarsi peccatore. Questo spiega perché da decenni si continui a parlare di lotta alla corruzione e all’evasione, ma senza risultati apprezzabili.
Recentemente il premier italiano Matteo Renzi ha affermato che «corruzione ed evasione in Italia valgono 160 miliardi». Mi domando: e allora cosa aspetta a estirpare o almeno a cercare di estirpare questi due tumori maligni galoppanti? Come fa a chiedere all’Europa di allentare il rigore quando non è nemmeno in grado di recuperare in Italia un po’ di miliardi dalla dilagante corruzione ed evasione? Forse gli manca il necessario consenso. Vorrei però sbagliarmi, perché lo stesso Renzi ha dichiarato recentemente che la lotta all’evasione sarà fatta (a cominciare da quando non è dato sapere!) «con una procedura innovativa, con lo scambio di banche dati e l’information technology». Staremo a vedere.

Ripresa
Il termine significa propriamente «nuovo inizio» dopo una qualunque interruzione (del lavoro, dell’insegnamento, ecc.), ma anche «accelerazione» (in un veicolo) o semplicemente «miglioramento» di attività mai (completamente) interrotta. Con quest’ultimo significato si sente dire sempre più spesso e con toni talvolta trionfalistici da esponenti del governo che in Italia è finalmente iniziata la «ripresa», attribuendosene il merito.
Intanto andrebbe aggiunto, correttamente, che la «ripresa» non c’è solo in Italia, ma in quasi tutti gli Stati europei e che in Italia è anzi ancora particolarmente debole. Più che di merito si dovrebbe parlare forse di un demerito del governo se la ripresa arriva solo ora (mentre in altri Stati è già in atto da tempo), se riguarda solo poche attività economiche, se non riesce ad assorbire entro limiti fisiologici l’enorme disoccupazione generale e specialmente giovanile e se non è ancora sufficiente per ristabilire nel Paese un clima di fiducia nel futuro.
Sarebbe inoltre auspicabile che il governo italiano chiarisse meglio il senso esatto di questa «ripresa»: ri-presa di che cosa; da che punto; grazie a che cosa; è sostenibile, a costo zero o fa aumentare ulteriormente il debito pubblico? Non ho mai capito perché in particolare i vertici dello Stato (Giorgio Napolitano è stato un esempio!) sembrino aver paura di dire (tutta) la verità, non ammettano sbagli, non sappiano indicare (e proporre alla discussione pubblica) obiettivi veramente raggiungibili e metodi praticabili da sottoporre a verifica entro un tempo determinato, dimentichino sistematicamente di essere al servizio dei cittadini. Per essere credibile, un governo serio dovrebbe sempre fornire dati veritieri sulla sue prestazioni, mettendoli a confronto con dati precedenti e soprattutto con gli indicatori internazionali o almeno europei. (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 22.07.2015

14 luglio 2015

150 anni fa la conquista del Cervino


150 anni fa, il 14 luglio 1865, la vetta della più celebre montagna alpina, il Cervino, venne raggiunta per la prima volta da una squadra internazionale di alpinisti: quattro inglesi, un francese e due svizzeri. Perché non vi era nessun italiano? La risposta a questa domanda e la storia di questa conquista è stata più volte raccontata in queste settimane di rievocazioni. Una storia, per chi ama l’alpinismo e in genere la montagna, al tempo stesso gloriosa e tragica con risvolti politici.

Tentativi infruttuosi fino al 1865
Il Cervino visto da Zermatt (foto gl)
Il Cervino (in italiano) o Matterhorn (in tedesco) è una delle montagne più alte (4478 m s.l.m.) delle Alpi. E’ stata anche una delle ultime cime sopra i 4 mila metri ad essere conquistata. Fino al 1865 tutti i tentativi erano falliti, da qualunque versante fosse partita l’impresa. Per oltre mezzo secolo tutti gli alpinisti che tentarono l’impresa (soprattutto britannici, svizzeri, francesi e italiani) dovettero arrendersi senza nemmeno raggiungere quota 4000 m. Solo nel 1863, partendo dal versante italiano, un gruppo di alpinisti, di cui faceva parte anche il valdostano Jean-Antoine Carrel, sotto la guida del britannico Edwar Whymper, riuscì a raggiungere la quota di 4.050 m. Quanto bastava per far ritenere ad entrambi la conquista della montagna forse più bella dell’arco alpino ormai a portata di mano.
Per la conquista del Cervino, tuttavia, dal 1861, l’anno dell’Unità d’Italia, al naturale orgoglio di ogni scalatore nel raggiungere le vette ancora inesplorate, si aggiunse una motivazione politica. Essendo rimasta una delle poche cime non ancora raggiunte e trovandosi sul confine italo-svizzero, il giovane Regno d’Italia non nascondeva le ambizioni di conquistarla per primo, partendo proprio dalla parete sud che guarda Breuil-Cervinia (Italia), che in quel momento sembrava la parete meno difficile, soprattutto rispetto alla parete nord che guarda Zermatt (Svizzera). Le altre due pareti non venivano ancora prese in considerazione, né la parete est che guarda il ghiacciaio del Gorner (Svizzera), né la parete ovest rivolta verso la Dent d'Hérens (frontiera italo-svizzera).

La conquista
I due alpinisti Whymper e Carrel, pur essendo legati da reciproca stima, dopo il tentativo del 1863, studiarono separatamente il percorso ottimale per raggiungere la vetta. La separazione dei due alpinisti fu dovuta, tuttavia, più che a una comprensibile competizione tra loro al fatto che Carrel venne incaricato nel 1864 dal potente ministro italiano della finanze Quintino Sella, appassionato di alpinismo, di preparare una scalata a cui avrebbe preso parte lui stesso, desideroso di piantare per primo in vetta al Cervino il tricolore dell’Italia unita. Il ministro, in pieno spirito postrisorgimentale riteneva che si dovesse contrastare la supremazia britannica nelle «nostre Alpi».
Il Cervino visto dal Gornergrat (foto gl)
In effetti, nel giugno-luglio 1865 il valdostano Carrel era quasi pronto per l’ascesa insieme al ministro italiano quando a sua insaputa il concorrente Whymper, sospettando le mosse dell’avversario, organizzò in tutta fretta (!) una spedizione lungo la cresta della montagna tra la parete est e la parete nord (cresta dell’Hörnli) sul versante svizzero, ch’egli riteneva più facile da scalare. Facevano parte della spedizione, oltre a Whymper, la guida francese Michel Croz, le guide svizzere Taugwalder padre e figlio, e i britannici Lord Francis Douglas, Douglas Robert Hadow e Charles Hudson. Partiti da Zermatt il mattino presto del 13 luglio, il giorno seguente alle ore 13.40 Whymper e compagni raggiunsero per primi la vetta del Cervino. Il mito della sua invincibilità era stato sconfitto.

La tragedia

Lapide ricordo delle due guide Taugwalder
nel cimitero di Zermatt (foto gl)
Le insidie della montagna e forse anche la sottovalutazione dei rischi non lasciarono molto tempo ai conquistatori per godere il primato raggiunto. Infatti, durante la discesa, in cordata, in seguito alla scivolata di uno dei sette e alla rottura della corda a cui erano legati, ben quattro di essi precipitarono a valle per centinaia di metri. Il corpo di uno di essi non fu mai ritrovato. Solo in tre si salvarono, lo stesso Whymper e le due guide di Zermatt Taugwalder. Giunti a valle, non ci furono particolari celebrazioni, anche perché Whymper, descrivendo la tragedia, affermò subito di non avere alcuna responsabilità nell'accaduto, lasciando invece aperta la via del dubbio sul comportamento delle due guide svizzere, poi scagionate dalle indagini ufficiali.
Purtroppo quelle quattro non furono né le prime né le ultime vittime legate alla scalata del Cervino. La montagna incantata, dalle forme quasi perfette, che sprigionano curiosità e un’attrazione incredibile, è stata purtroppo fatale in questi ultimi 150 anni a circa 500 escursionisti, spesso impreparati. La bellezza del Cervino è godibile anche di lontano, per esempio da Zermatt, dal Gornergrat o da Breuil-Cervinia.

Giovanni Longu
Berna, 14 luglio 2015

07 luglio 2015

La bella gioventù svizzera


In genere, l’espressione «la bella gioventù» fa pensare a un’epoca passata, che il tempo ha provveduto a ripulire dagli aspetti negativi, per esaltare la spensieratezza, la gioia di vivere, le prime amicizie di un’infanzia e una giovinezza vissute senza (grandi) problemi. Spesso, ma non sempre, questa espressione fa riferimento a una precisa classe sociale, la borghesia, che voleva e poteva assicurare alle nuove generazioni uno sviluppo felice e senza difficoltà almeno materiali. La bella gioventù aveva un (facile) accesso non solo ai divertimenti e all’esercizio di molti sport, ma anche alla formazione, alla cultura in generale e al mondo del lavoro.

Amarezza e sfiducia
Oggi la stessa espressione è utilizzata spesso con un filo di amarezza per esprimere il disagio e la sfiducia che nutrono moltissimi giovani in alcune società europee rispetto al loro futuro e al futuro dei loro Paesi. I protagonisti del film spagnolo di Jaime Rosales, Hermosa juventud, presentato l’anno scorso al festival di Cannes, sono tipici rappresentanti di una gioventù senza illusioni e sfiduciata: una giovane coppia di ventenni, innamorati e desiderosi di farsi strada, devono lottare per sopravvivere. Il Manifesto commentava: «La bella gioventù affonda nell’Europa precaria».
Il solo dato sulla disoccupazione giovanile (attorno al 40%) in alcuni Paesi europei, Italia compresa, dà l’idea dell’atteggiamento che possono avere i giovani oggi nei confronti del loro futuro lavorativo, reddituale e pensionistico, ma anche della politica e delle istituzioni in generale.

La Svizzera fa eccezione

In questo panorama che comprende parecchi Stati europei, la Svizzera sembra fare eccezione: i segnali positivi provenienti dal mondo giovanile prevalgono nettamente sugli aspetti negativi. I giovani residenti in Svizzera sono generalmente ottimisti e valutano positivamente le istituzioni. Forse perché vivono in un contesto economicamente più favorevole, essi si mostrano, contrariamente ai giovani di altri Paesi europei, molto positivi rispetto al proprio futuro professionale.
E’ quanto emerge da un’inchiesta condotta recentemente su scala nazionale tra i giovani diciassettenni. Pur osservando divergenze inevitabili in un Paese plurilingue e multiculturale, è impressionante la convergenza di opinioni su alcune questioni fondamentali e rispetto alle sfide politiche della Svizzera.
«Attaccati alla Svizzera a prescindere dalla loro nazionalità - si legge in un comunicato della Commissione federale per l’infanzia e la gioventù, che ha commissionato l’inchiesta - i giovani diciassettenni dimostrano di avere molta fiducia nelle istituzioni (scuola, Consiglio federale, polizia) e il 91 per cento è fiducioso di ottenere la formazione professionale scelta».
In Svizzera, inoltre, non si osserva alcuna rottura generazionale tra giovani e adulti: le opinioni dei giovani non divergono significativamente da quelle del resto della popolazione, salvo su qualche punto. Per esempio, se il mondo degli adulti ritiene la disoccupazione il maggior problema della Svizzera (pur avendo un tasso di disoccupati bassissimo), tra i diciassettenni solo i ticinesi la pensano allo stesso modo, mentre per un quinto dei giovani il maggior problema è l’immigrazione.

Fiducia nelle istituzioni
La fiducia nella capacità della scuola di offrire una formazione solida e un futuro professionale degno di questo nome non è solo un importante riconoscimento da parte dei diretti interessati della validità dell’istituzione scolastica svizzera, ma anche un forte segnale di ottimismo di una generazione di giovani che può guardare con fiducia al proprio futuro, ma anche al futuro di questo Paese confrontato con alcuni temi scottanti quali i rapporti con l’Unione europea (UE) e l’immigrazione.
Anche su questi ultimi temi la convergenza dei giovani che hanno partecipato all’inchiesta è impressionante: ben il 77 per cento dei diciassettenni è contro l’adesione all’UE, sebbene il 66 per cento consideri la libera circolazione delle persone un bene per la Svizzera. Quanto agli immigrati, circa il 60 per cento dei giovani interpellati ritiene che gli immigrati costituiscano una risorsa per l’economia e un arricchimento per la società.

Investire maggiormente nella formazione
Da un’altra inchiesta sui giovani quindicenni risulta ancora un aspetto positivo della gioventù svizzera: essa è complessivamente più serena di dieci anni fa e ha sempre meno a che fare con la giustizia. Il consumo di alcool, tabacco e cannabis si è più che dimezzato, i furti sono calati notevolmente, come pure le aggressioni e altri reati.
Sarebbe interessante, a questo punto, poter confrontare i dati svizzeri con quelli di altri Paesi, per esempio dell’Italia, ma sarebbe comunque ancor più confortante sapere che ovunque in Europa si comincia a investire maggiormente, anzi prioritariamente, sui giovani e sulla formazione.

Giovanni Longu
Berna, 7.7.2015

24 giugno 2015

Immigrati o profughi? La confusione continua!


La questione dei profughi in fuga dai teatri di guerra e dalle regioni in cui la fame e la miseria uccidono non meno delle guerre rischia di diventare ingestibile, soprattutto in Italia, anche perché le idee al riguardo sono molto confuse e senza prospettive. Lo si vede anche dalla terminologia utilizzata in Italia persino negli interventi ufficiali. Si parla indifferentemente di «migranti», «profughi», «richiedenti l’asilo», «persone che scappano dalla guerra», di «emergenza umanitaria», ecc. e non si parla mai delle fasi successive a quella della prima accoglienza.

Confusione deleteria
Trovo anzitutto deleteria la confusione terminologica. Finché si continua a parlare di migranti ci sarà sempre qualcuno che obietterà che in questo momento in Italia non ce n’è bisogno perché «non c’è lavoro nemmeno per gli italiani», «non si possono privilegiare gli extracomunitari rispetto ai cittadini disoccupati», «uno Stato non può garantire vitto e alloggio gratis a chi riesce a metter piede in Italia, quando ci sono tanti italiani sfrattati, senza alloggio, senza reddito, che vivono in stato di povertà, costretti ad affollare le mense della Caritas» e altre obiezioni simili.
Spesso poi, si sa, dalle parole si passa ai fatti e i «migranti» vengono respinti, isolati, emarginati, trattati come gli appestati di una volta, sfruttati, ma anche assoldati dalla malavita e dal crimine organizzato. Questo in Italia. A livello europeo si va anche oltre. Qualche Stato, come l’Ungheria, pensa di blindare le frontiere con muri alti quattro metri, altri Paesi intensificano i controlli alle frontiere bloccando chi non ha i documenti in regola, sorvegliano giorno e notte valichi un tempo non presidiati, dichiarano chiaro e tondo che «non possono» accogliere altri profughi perché ne hanno fin troppi.
E’ la prova provata che non si tratta di «migranti» nel senso abituale del termine. Tanto più che gli emigrati/immigrati sono quasi sempre «chiamati» e impiegati in attività lavorative per le quali la forza lavoro indigena è insufficiente, mentre i «migranti» che approdano a Lampedusa o sono soccorsi in mare nessuno li ha chiamati, anche se sono in cerca di un’occupazione.

Meglio chiamarli «profughi»
Gli emigrati/immigrati per motivi di lavoro, inoltre, sono assicurati, ogni Stato richiedente cerca di trattenerli, almeno finché c’è il lavoro, garantisce loro gli stessi diritti degli indigeni, e cerca di integrarli nella società in cui vivono. Quali Stati europei, invece, sono disposti a garantire ai «migranti» gli stessi diritti dei propri cittadini, a dare loro la possibilità di accedere liberamente al mercato del lavoro e, soprattutto, a integrarli? Quale Stato europeo ha adottato nei loro confronti una politica d’integrazione?
Papa Francesco tra nomadi e profughi
Ritengo pertanto preferibile non chiamarli più «migranti» nel senso di «emigrati/immigrati», ma di chiamarli «profughi», «richiedenti l’asilo», «bisognosi». Quanti cercano di fuggire dalle guerre, quanti fuggono perché perseguitati e minacciati di morte, ma anche quanti cercano di sfuggire alla miseria, micidiale talvolta non meno della guerra, sono e vanno considerasti «profughi». In quanto tali hanno il sacrosanto diritto di essere accolti e l’Italia e gli altri Paesi europei hanno l’obbligo fondato sul diritto internazionale e sul diritto umanitario di accoglierli.
So che le obiezioni al riguardo sono tante e non di poco conto (non sono tutti bisognosi, non fuggono tutti dalla guerra, non sono tutti perseguitati, molti sono clandestini, ecc.), ma almeno in un primo tempo non si può derogare al dovere dell’accoglienza e della solidarietà umana. I bisognosi (e i profughi sono tutti in linea generale bisognosi) vanno rifocillati, vestiti, curati, sistemati in alloggi decenti, rispettati come persone.

Polemica insensata di Salvini
Almeno in questa prima fase nemmeno Matteo Salvini dovrebbe avere niente da ridire, per cui non capisco la sua polemica col papa Francesco, reo di aver chiesto ai credenti di pregare «per tanti fratelli e sorelle che cercano rifugio lontano dalla loro terra, che cercano una casa dove poter vivere senza timore, perché siano sempre rispettati nella loro dignità» e di chiedere perdono «per le istituzioni e le persone che chiudono le loro porte a gente che cerca una famiglia , che cerca di essere custodita». Non era forse nel suo diritto farlo? Oltretutto il contesto era chiaro: egli parlava a pochi giorni dalla ricorrenza della «Giornata mondiale del rifugiato» (sabato 20 giugno). Parlava di «rifugiati» e di profughi, di «migrazioni forzate», non di emigrati e immigrati volontari e tantomeno di clandestini.
Il politico Salvini, invece, avrebbe tutto il diritto e persino il dovere di criticare il governo italiano e l’Europa sull'assenza di politiche per il dopo la prima accoglienza; ma nemmeno lui sembra avere idee chiare e proposte condivisibili. Non le ha perché è, a mio parere, come molti altri politici e benpensanti europei, un rappresentante di una vecchia politica conservatrice e miope, che s’illude di poter conservare ancora a lungo i privilegi acquisiti non sempre in modo lecito (si pensi al colonialismo, alle speculazioni finanziarie, all'impiego sconsiderato delle risorse, ecc.) e di abbandonare al loro destino quanti aspirano a un po’ più di benessere e di sicurezza.
Salvini, come del resto molti altri politici italiani ed europei, sembra non accorgersi che il mondo sta cambiando inesorabilmente, che le risorse mondiali si andranno necessariamente ridistribuendo e che sarebbe un disastro culturale e umano se ciò avvenisse senza un minimo di umanità, di solidarietà e di fratellanza.
Giovanni Longu
Berna 24.06.2015


17 giugno 2015

La Svizzera napoleonica e il Congresso di Vienna


Uno dei grandi anniversari ricordati in Svizzera quest’anno è il Congresso di Vienna (1815), che ha ridisegnato la geografia dell’Europa dopo gli sconvolgimenti causati dalla furia di Napoleone. Le conseguenze sono state importanti e durature anche per la Svizzera. La ricorrenza merita pertanto di essere ricordata.

La Svizzera durante il «protettorato» francese
Dopo la disfatta di Marignano del 1515, i Cantoni svizzeri dovettero non solo rinunciare ai sogni di conquista (soprattutto verso sud), ma anche accettare una sorta di «protettorato» francese che sarebbe durato fino al 1792, quando il governo francese decise di licenziare i mercenari svizzeri al suo servizio e rinviarli senza soldo alle loro case.
Fino a quel momento la neutralità svizzera, sebbene imposta, era garantita dalla Francia, anche dopo lo scoppio della rivoluzione francese (1789). Divenne un problema per i Cantoni svizzeri quando nel 1793 le principali Potenze europee cominciarono a coalizzarsi contro la Francia rivoluzionaria. La vecchia Confederazione prese subito la decisione saggia di non schierarsi con nessuna delle Potenze belligeranti e per precauzione fece schierare 1300 soldati lungo il confine basilese, dove il pericolo sembrava maggiore. Invano, come si vedrà più avanti.

Echi della rivoluzione francese in Svizzera
Intanto, i venti della rivoluzione francese, erano giunti anche in Svizzera, ma incontrarono un formidabile ostacolo nel conservatorismo di molti Cantoni che si reggevano su un’applicazione rigida e pesante del principio di autorità ereditato da una mentalità medievale. Il risultato fu un periodo di grande instabilità, durante il quale successe di tutto: proteste contadine, sommosse, divisioni, creazioni di mini-repubbliche, repressioni.
Waterloo, monumento sul luogo della sconfitta
definitiva di Napoleone Bonaparte (foto gl)
Molti svizzeri, avvertendo il fascino delle nuove idee provenienti dalla Francia e sintetizzate nel motto «liberté, égalité, fraternité», credettero di poter approfittare del momento favorevole per svincolarsi da quel sistema di potere, spesso oppressivo, che teneva unita in qualche modo la vecchia Confederazione. Quasi ovunque la restaurazione dei poteri centrali di origine medievale finì per imporsi. Per esempio, le «feste della fratellanza» organizzate nel 1791 nella Svizzera romanda furono represse duramente dai bernesi, che in quel periodo occupavano il Paese di Vaud. Anche altrove ogni tentativo di ribellione finiva per essere represso con la forza.
Per evitare il contagio delle idee illuministe provenienti dalla Francia e diffuse in Svizzera anche da illustri personaggi come Jean-Jacques Rousseau e Albrecht von Haller, si cercò di contrapporvi i valori «svizzeri». Non è perciò un caso che verso la fine del XVIII secolo si (ri)scoprirono e diffusero in tutta la Confederazione i cosiddetti «miti di fondazione», ossia le «storie» di Guglielmo Tell, del Grütli, di Morgarten, ecc. In fondo, si voleva significare che gli svizzeri avevano nella loro tradizione i modelli a cui ispirarsi. Oltretutto, ai miti dell’uguaglianza e della fraternità ben pochi credevano. Il risultato di queste riscoperte fu tuttavia modesto, almeno nell'immediato.
Anche la Francia rivoluzionaria cominciò a preoccuparsi del deteriorarsi della situazione svizzera non tanto perché le stessero a cuore le sorti della vicina Confederazione, quanto perché una Svizzera «neutrale» le era indispensabile per motivi economici, poiché tutt'intorno le Potenze coalizzate avevano costituito un blocco economico. L’unica possibilità di superarlo era quella di approvvigionarsi dei beni mancanti attraverso la Svizzera. Per questo fece in modo, fin dal 1793, che la Svizzera restasse neutrale e, in quest’ottica, lo stesso anno truppe francesi occuparono il Giura.

Occupazione francese della Svizzera
Gli interessi della Francia nei confronti della Svizzera non riguardavano tuttavia solo la rottura dell’accerchiamento economico, ma andavano ben oltre. La Svizzera infatti rappresentava una posizione chiave nel massiccio alpino per le comunicazioni nord-sud e sicuramente anche le altre grandi Potenze continentali avrebbero cercato prima o poi di occuparla. Se fosse stata occupata dall’una o dall’altra Potenza, avrebbe segnato anche la fine della sua indipendenza. Perciò la Svizzera fece di tutto per mantenersi assolutamente neutrale nei confronti di tutti i belligeranti. Questi, almeno inizialmente, mantennero nei suoi confronti un atteggiamento prudente, anche perché la scomparsa di questo Paese neutrale e in qualche modo garante di quel fragile equilibrio che esisteva in quel momento tra le grandi Potenze avrebbe potuto creare uno sconvolgimento generale in Europa.
Monumento ai caduti nel Grauholz, eretto nel 1886:
una colonna spezzata che porta alla base la scritta:
«
Seid einig» (siate uniti), tratta dal Guglielmo Tell
di Schiller (foto gl)
Quel precario equilibrio cominciò tuttavia ben presto a rompersi. Infatti, dopo che Napoleone Bonaparte, l’eroe della rivoluzione francese, aveva occupato l’Italia settentrionale (1796-1797), apparve indispensabile assicurarsi un collegamento diretto tra Parigi e Milano attraverso i passi alpini e quindi attraverso la Svizzera.
L’occasione per un intervento militare francese si presentò nel gennaio 1798, quando il Paese di Vaud decise di sottrarsi alla dominazione bernese e proclamò la «Repubblica Lemanica». Per evitare la prevedibile repressione di Berna, la neocostituita repubblica chiese aiuto alla Francia, costringendo le truppe bernesi a ritirarsi senza combattere nella regione di Morat e di Friburgo. L’occupazione di Losanna (28 gennaio 1798) da parte delle truppe francesi fece subito capire quali erano le vere intenzioni della Francia. Infatti l’avanzata dell’esercito francese fu quasi inarrestabile e senza incontrare significative opposizioni. Quando Berna tentò di fermare i francesi fu sconfitta nella battaglia di Grauholz (5 marzo 1798) e i vincitori occuparono la città. La caduta di Berna segnò anche la sorte della vecchia Confederazione.

Dalla Repubblica Elvetica alla Confederazione Svizzera
Napoleone, che non capiva la situazione svizzera di un piccolo territorio diviso in tanti mini-Stati (Cantoni) per altro molto litigiosi, impose una costituzione che decretava la creazione di uno Stato unitario e indivisibile, sul modello francese: la Repubblica Elvetica (1799).
Il modello francese, però, non piaceva agli svizzeri e tra i convinti sostenitori dello Stato unitario centralizzato e i ferventi federalisti scoppiarono interminabili lotte interne. Non appena l’esercito d’occupazione francese venne ritirato dalla Svizzera (1802) scoppiò una sorta di guerra civile, che indusse Napoleone a rioccupare la Svizzera (1803) e a intervenire nuovamente sulla costituzione. Con il cosiddetto «Atto di Mediazione» vennero ripristinati i Cantoni, che riottennero i loro diritti e la Repubblica Elvetica prese il nome di «Confederazione Svizzera». Ai tredici vecchi Cantoni se ne aggiunsero sei nuovi, tra cui il Ticino (con la denominazione di «Repubblica e Cantone Ticino»).
Tra i primi atti della Confederazione in politica estera uno dei più importanti fu la dichiarazione di neutralità, con evidente soddisfazione della Francia ma grande delusione soprattutto della Germania, che contava molto sul sostegno anche militare della Svizzera. Sembra addirittura che lo stato maggiore dell’esercito tedesco preparasse un’invasione del territorio svizzero. Non si arrivò a tanto, ma la Svizzera dovette, ad esempio, ritirare frettolosamente le truppe che teneva schierate lungo il Reno e lasciar passare le truppe della coalizione attraverso l’Altipiano svizzero fino a Ginevra. Non era occupata ma nemmeno totalmente libera, benché continuasse a proclamarsi neutrale.
Nel frattempo Napoleone era stato sconfitto dagli alleati nella battaglia di Lipsia (ottobre 1813), costretto ad abdicare ed esiliato nell’isola d’Elba. L’anno seguente (ottobre 1814), le grandi Potenze si erano riunite a Vienna allo scopo di ripristinare in Europa la situazione territoriale precedente alle guerre napoleoniche. Senonché, Napoleone, riuscito a fuggire, raggiunse nuovamente la Francia e riorganizzò un forte esercito. Solo nella celebre battaglia di Waterloo (18 giugno 1815) fu definitivamente sconfitto e inviato in esilio nella lontanissima isola di Sant’Elena.

La neutralità svizzera frutto del Congresso di Vienna
Il Congresso di Vienna poté concludere i lavori e risistemare la geografia dell’Europa, ripristinando in gran parte la situazione preesistente. Allo scopo di evitare in futuro nuove gravi alterazioni dell’equilibrio faticosamente raggiunto tra le grandi Potenze, vennero rafforzati i piccoli Stati tra la Francia e l’Europa centrale, unendo per esempio il Belgio all'Olanda, Genova alla Sardegna. Anche la Svizzera fu rafforzata e ampliata. Le fu infatti concesso di accogliere nella Confederazione Neuchâtel, Ginevra e il Vallese, che ancora non ne facevano parte. Le grandi Potenze si fecero inoltre garanti della neutralità della Svizzera e dell’inviolabilità del suo territorio. In fondo la neutralità della Svizzera faceva comodo a tutti.
Il Congresso di Vienna (in un dipinto dell’epoca) riconobbe
 la sovranità e la neutralità perpetua della Svizzera
Alcuni storici non sarebbero disposti ad ammettere che le grandi Potenze «garantirono» la neutralità e la sovranità svizzera, preferendo una diversa formulazione che si rifà al testo originario francese in cui si diceva che le Potenze «riconoscono» formalmente la neutralità perpetua della Svizzera. Tuttavia, a parte la linguistica, mi pare evidente che è nell'ambito del Congresso di Vienna che la neutralità svizzera è ritenuta opportuna e giustificata sia nell'interesse della Svizzera e sia nell'interesse della politica europea.
Alla luce dei duecento anni trascorsi da allora non c’è dubbio che la neutralità di questo piccolo Paese nel cuore del vecchio continente abbia giovato sia alla Svizzera che all'Europa. Quanto al futuro, la discussione è aperta.
Giovanni Longu
Berna, 17.06.2015

10 giugno 2015

Marignano e la storia svizzera: 1515-2015


Il 2015 è un anno di grandi anniversari per la Svizzera. Quelli maggiormente ricordati sono, in ordine cronologico: la vittoria di Morgarten (1315), che determinò l’affrancamento dei Cantoni primitivi dalla sudditanza asburgica; la conquista dell’Argovia (1415), una chiara testimonianza dello spirito di conquista dei primi Cantoni; la disfatta di Marignano (1515), che segnò la fine dei sogni di conquista degli «Svizzeri»; il Congresso di Vienna (1815), che garantì l’indipendenza e l’integrità territoriale della Svizzera, ma le impose la neutralità perpetua; l’accerchiamento della Svizzera durante la prima guerra mondiale, dopo l’entrata in guerra dell’Italia (1915); la fine della seconda guerra mondiale (1945), che ha posto la Svizzera di fronte all’esigenza di nuove aperture e collaborazioni internazionali, ecc.

Lungo processo identitario svizzero
Ho citato solo alcuni eventi che hanno segnato la storia svizzera o qualche aspetto rilevante della politica federale. A ben vedere, sono collegati da un sottile ma decisivo filo rosso: l’avvio e lo sviluppo di quel processo identitario svizzero sui cui risultati talvolta ci s’interroga perplessi. Per alcuni, infatti, restano ancora poco chiari i suoi contenuti soprattutto alla luce di un processo analogo di dimensione europea, ma anche nel quadro delle politiche sociali interne alla stessa Svizzera.
Battaglia di Marignano: dettaglio di un dipinto attribuito al
Maestro de la Ratière (da Wikipedia)
Probabilmente in questa ricerca di chiarezza si commette l’errore di pretendere di poter determinare, ossia fissare nel tempo e nello spazio, una caratteristica che per sua natura non è statica ma dinamica, in continua evoluzione. L’identità di un popolo, infatti, non può essere definita una volta per sempre, ma ne segue l’evoluzione storica, economica e culturale secondo dinamiche interne ed esterne, spesso, come nel caso svizzero, particolarmente complesse.
In questo processo di formazione dell’identità svizzera, la disfatta di Marignano del 1515 ha segnato sicuramente una tappa fondamentale. Per capirne l’importanza è opportuno ricordare che l’intero processo, per altro non ancora finito, abbraccia un arco di tempo molto lungo di almeno sette secoli. Se il suo inizio si colloca, come da tradizione, nel 1291 (col mitico Patto del Grütli), la battaglia di Marignano interviene nella prima fase storica, quando la «Confederazione dei tredici Cantoni» (costituita dai tre Cantoni primitivi Uri, Svitto e Untervaldo, dai cinque nuovi Cantoni aggregatisi fino al 1481, e poi ancora da altri cinque aggiuntisi fino al 1513) era ancora in forte espansione.

Gli «Svizzeri» e il Ducato di Milano
Sebbene la vecchia Confederazione non costituisse un vero e proprio Stato unitario in senso moderno, ma piuttosto un complicato sistema di alleanze di Stati indipendenti, essa riusciva a gestire in comune una serie di territori sottomessi (alcuni dei quali si trovavano in territorio «italiano» e già appartenuti al Ducato di Milano) e persino un esercito comune, oltre alle numerose milizie «mercenarie» che dipendevano direttamente dai vari Cantoni.
Per capire l’importanza della sconfitta di Marignano occorre anche ricordare che da decenni l’esercito «svizzero» era ritenuto uno dei più potenti dell’epoca, quasi sempre vittorioso negli scontri con altri eserciti comparabili, e pertanto oltremodo temibile. Secondo uno studioso dell’epoca, lo storico e uomo politico fiorentino Niccolò Machiavelli (1469-1527), gli «Svizzeri» erano tuttavia temibili non tanto in quanto «invincibili», bensì in quanto capaci, se l’avessero voluto, di conquistare e aggiungere nuove terre a un proprio Stato, che intanto non avevano.
Machiavelli alludeva all’anomalia degli «Svizzeri» che, per quanto disponessero di un potente esercito, non pensavano, almeno in quel momento, a costituire uno Stato unitario (pur senza rinunciare a estendere i domini dei singoli Cantoni), ma si limitavano a mettere il proprio esercito a disposizione di chi era disposto a pagare di più. Si trattava pur sempre di un esercito «mercenario», perché, sempre secondo Machiavelli, «Li Svizzeri non si moveranno se non hanno danari»).
In quel momento l’esercito «svizzero» (meglio sarebbe chiamarlo «esercito dei Cantoni») era assoldato da Massimiliano Sforza (1493-1530) duca di Milano, non per scelta di costui, ma perché furono gli Svizzeri, nel 1512, a scacciare da Milano gli occupanti francesi e metterlo a capo del Ducato, garantendogli «protezione» e, naturalmente, garantendo anche i territori «svizzeri» conquistati o acquistati o comunque ottenuti nell’attuale Cantone Ticino e appartenuti al Ducato di Milano.

La disfatta di Marignano
Senonché, i francesi al comando del re Francesco I, sentendosi per così dire spodestati, tre anni più tardi, nel 1515, tornarono in forze nei pressi di Milano, più precisamente a Marignano (oggi Melegnano) a una quindicina di chilometri a sud est di Milano, dove ad attenderli c’era l’esercito «svizzero» forte di 20.000 uomini (un numero piuttosto consistente per quell’epoca). Lo scontro, tra il 13 e 14 settembre 1515, fu inevitabile e durissimo. In venti ore di combattimenti, l’esercito svizzero fu sopraffatto, non solo per la superiorità numerica di quello francese (forte di 30.000 francesi più 9000 mercenari lanzichenecchi e 12.000 veneziani), ma anche perché i francesi e loro alleati disponevano della cavalleria e di una moderna artiglieria, che gli svizzeri non avevano.
Battaglia di Marignano: dipinto di Ferdinand Hodler (da 
Nei combattimenti caddero sul campo non meno di 10.000 soldati svizzeri e 6000 francesi. Si parlò di una «battaglia dei giganti», ma si trattò di un eccidio senza precedenti che indignò tra gli altri uno dei partecipanti, il cappellano degli svizzeri Ulrich Zwingli (che sarà uno dei grandi protagonisti della Riforma protestante), talmente sconvolto da quella carneficina che invitò gli svizzeri a dire basta alle guerre fratricide.
Sulla battaglia di Marignano è stata allestita una mostra (che resterà aperta fino al 28 giugno!) presso il Museo nazionale di Zurigo: «1515 Marignano». Essa ha diversi pregi, ma soprattutto quello di aver saputo ambientare quell’evento militare nel contesto delle politiche territoriali delle potenze europee dell’epoca, fortemente interessate al dominio del ricco Ducato di Milano.

Cause e conseguenze
Sulle cause della sconfitta di Marignano si è discusso molto, ma apparve da subito evidente che l’armamento militare degli svizzeri (essenzialmente «picche» ed armi da taglio) era ormai inadeguato rispetto alle nuove tecniche di combattimento di fanteria e cavalleria sostenute dall’artiglieria. Recentemente, anche il Consigliere federale Johannn Scheider-Amman vi ha visto una sorta di punizione «per mancata innovazione».
Oggi tuttavia si sottolineano anche altre cause, ad esempio la divisione intervenuta tra i Cantoni in merito a una proposta di tregua avanzata da Francesco I prima della battaglia finale. Essa prevedeva una consistente indennità in denaro in cambio della restituzione di alcuni territori conquistati dagli «Svizzeri» dopo il 1503 (con l’esclusione dunque dei territori conquistati prima, ossia Leventina, Blenio, Riviera e Bellinzona). Alcuni Cantoni (ad esempio Berna, Soletta, Zurigo) erano favorevoli, altri (tra cui Svitto e Uri) contrari. Evidentemente non esisteva unanimità tra i Cantoni nemmeno nelle questioni più serie di politica estera.
Anche sul dopo Marignano si è discusso e si continua a discutere, soprattutto in merito al presunto inizio della neutralità svizzera come conseguenza diretta della disfatta militare. Pur non condividendo tale affermazione, non c’è dubbio che quella disavventura abbia indotto molti intellettuali e uomini politici della vecchia Confederazione a ripensare radicalmente la politica di espansione praticata fino a quel momento dai Cantoni e a chiederne la fine.
Credo che sia questa rinuncia, per quanto forzata, la principale conseguenza positiva di quella sconfitta, anche perché di fatto procurò alla Svizzera una sorta di «pace perpetua», che le garantì nessun altro spargimento di sangue importante e condizioni favorevoli di sviluppo per diversi secoli. Inoltre, quasi tutti i Cantoni capirono che il servizio mercenario (mettersi a disposizione di chiunque fosse disposto a pagarli meglio di altri) ormai non rendeva più (anche perché le grandi potenze stavano sviluppando un tipo di esercito diverso, sempre più sostenuto dall’artiglieria, mentre gli svizzeri rimanevano fermi alla centralità della fanteria).

Il «protettorato» francese
Tanto valeva mettersi al servizio di un solo signore, che in quel momento non poteva essere che il vincitore di Marignano Francesco I. Per far accettare più facilmente questa prospettiva, il re di Francia offrì agli svizzeri sconfitti condizioni di pace piuttosto benevole. Infatti non dovevano pagare danni di guerra, anzi venivano indennizzati; non dovevano cedere alcun territorio (salvo qualcuno di recente conquista), ma fu loro garantito di potersi tenere gran parte dei territori conquistati o acquistati a sud del Gottardo. Non tutti Cantoni erano propensi a questo nuovo orientamento della politica federale, ma tutti finirono per accettare quella sorta di «protettorato» francese, che sarebbe durato fino al 1792. Era lo scotto da pagare in cambio della pace.
Si può discutere, in senso accademico, se non esistessero alternative. In effetti, secondo il pensiero di Machiavelli, l’unica alternativa valida sarebbe stata la costituzione di uno Stato unitario in grado di sottomettere a un’unica volontà le voci discordanti di tanti Cantoni. Ma i tempi evidentemente non erano ancora maturi per un passo del genere. Solo nel 1848 i Cantoni decideranno di rinunciare almeno in parte alla propria sovranità e darsi una costituzione unitaria nel quadro di una Confederazione.
Giovanni Longu
Berna 10.06.2015

03 giugno 2015

L’UNITRE di Soletta nel cuore dell’UE (seconda parte)


Dopo l’esplorazione dei punti più celebri della città di Bruxelles nella mattinata del secondo giorno del viaggio turistico-culturale organizzato dall’UNITRE di Soletta, il pomeriggio è stato dedicato alla visita di due località storiche con significati e importanza diversi: Marcinelle e Waterloo.

Marcinelle e l’emigrazione italiana
Marcinelle, una cittadina sconosciuta fino all’8 agosto 1956, da quella data ha acquistato suo malgrado
Marcinelle, le due torri di accesso alla miniera (foto gl)
una notorietà straordinaria. Quel giorno, in un terribile incendio scoppiato in una miniera di carbone perirono 262 minatori di cui 136 italiani. Era la più grave disgrazia toccata all'emigrazione italiana in Europa. La notizia si sparse come un baleno nel mondo intero.
La miniera rimase ancora in attività una decina d’anni, poi venne definitivamente chiusa e abbandonata. Solo la memoria di quel tragico evento rimaneva viva e ogni anno si commemoravano i morti. Fu così che negli anni 2000 il sito fu riconvertito in area museale dominata dalle due torri dei pozzi di accesso alla miniera, in uno dei quali si verificò la tragedia. Il sito oggi fa parte del Patrimonio mondiale dell’UNESCO come straordinario esempio di archeologia industriale.
Alcuni anni fa la data dell’8 agosto è stata dichiarata in Italia «Giornata del sacrificio del lavoro italiano nel mondo» sia per ricordare quel tragico evento e sia per stimolare una riflessione sull'emigrazione più o meno forzata di milioni di italiani, molti dei quali morti sul lavoro.
Distante una settantina di chilometri da Bruxelles, è sembrato opportuno visitare questo luogo della memoria, resa ancora viva e drammatica dall'infrastruttura rimasta com'era allora e da una ricca documentazione, anche in italiano (sotto forma di suoni, filmati e riproduzioni di giornali, fotografie), di quanto accaduto.

Waterloo nel bicentenario della sconfitta di Napoleone
Sulla via del ritorno a Bruxelles, con una piccola deviazione, il gruppo si è portato nei luoghi della famosa battaglia di Waterloo del 18 giugno 1815, in cui Napoleone Bonaparte fu definitivamente sconfitto da una coalizione dei principali Paesi europei al comando del duca di Wellington. Lo scontro tra l’esercito francese e quello degli alleati durò soltanto 8 ore ma fu, secondo alcune fonti, uno dei più sanguinosi del XIX secolo con oltre 47.000 tra morti e feriti.
Waterloo, la collina con la statua del leone (foto gl)
A ricordo della battaglia, nel 1820 venne eretta la statua di un leone in cima a una collina artificiale, ai piedi della quale sorge un grande edificio a forma cilindrica. Al suo interno si trova un enorme dipinto circolare raffigurante alcune scene della battaglia, lungo tutta la parete di 110 metri per un’altezza di 12 metri.
Il «panorama» della battaglia di Waterloo è uno dei pochi superstiti di questo genere di dipinti circolari in auge nell’Ottocento. Ne esistono ancora una ventina, tre dei quali in Svizzera: il Panorama di Thun (38 x 7,5 metri), che è il più antico del mondo, il Panorama Burbaki di Lucerna (112 x 10) e quello della battaglia di Morat (esposto in occasione dell’Esposizione nazionale del 2002 e ancora in cerca di una destinazione definitiva).
La visita a Waterloo non fu dettata solo dalla curiosità legata al nome o dalla coincidenza con le imminenti celebrazioni del bicentenario della battaglia (si parla di ricostruzioni storiche con oltre 6.000 figuranti, 300 cavalieri e 100 cannoni), ma soprattutto dalle ripercussioni che l’evento ebbe sulla storia europea (Restaurazione) e sulla storia svizzera. Non va infatti dimenticato che il Congresso di Vienna, avviato lo stesso anno, sganciò definitivamente la Svizzera dall’influenza francese, riconobbe la sovranità della Confederazione dei 22 Cantoni e impose la neutralità perpetua di questo Paese.

Brugge …
Municipio di Brugge (foto gl)
Il terzo giorno del viaggio è stato dedicato alla visita di due città storiche della regione fiamminga del Belgio: Brugge (Bruges, in francese) e Gent (Gand in francese). Purtroppo il tempo piovigginoso e il cielo coperto hanno impedito di godere appieno le bellezze di questi due gioielli urbanistici delle Fiandre. La bravura della guida e la curiosità dei partecipanti hanno comunque consentito di ripercorrere la storia di queste città divenute importanti per la manifattura (grazie alle potenti corporazioni) e i commerci fin dal Medioevo, soprattutto dopo l’anno 1000, quando in Europa cominciarono a nascere e a svilupparsi i grandi Comuni, che spesso si autoproclamavano «liberi», cioè indipendenti.
Brugge, chiamata anche la «Venezia del Nord» per i numerosi canali che l’attraversano, ma forse anche per gli antichi splendori di quando era «Repubblica libera» marinara con un porto commerciale molto attivo (il mare nel frattempo si è ritirato), è sicuramente una delle più belle città medievali del Belgio e forse d’Europa. Il suo centro storico è dal 2000 patrimonio mondiale dell’UNESCO. Simbolo della città è la prestigiosa piazza del Burg, dove si affacciano grandi palazzi di origine medievale, il più importante dei quali è il Municipio, in stile gotico, il più antico palazzo pubblico del Belgio.
«Madonna di Bruges»,
di Michelangelo (foto gl)
Un altro complesso di edifici originale di Brugge è il celebre Beghinaggio, risalente alla prima metà del XIII secolo, ma ampliato successivamente. Una trentina di casette affacciate a un ampio cortile, che fino agli inizi del secolo scorso ospitavano le «beghine», donne aderenti ad associazioni religiose non riconosciute dalla Chiesa cattolica, che conducendo una vita di tipo monastico ma senza i tipici voti religiosi.
La popolazione di Brugge, come del resto quella del Belgio, è rimasta tradizionalmente cattolica, per cui le chiese sono numerose e generalmente molto belle. Una in particolare, quella di Nostra Signora, merita di essere qui ricordata non solo perché un bell’esempio gotico ma anche perché in una cappella laterale è conservata la celebre statua marmorea della «Madonna col Bambino» (nota come la «Madonna di Bruges») di Michelangelo, inconfondibile per i lineamenti della Madonna che richiamano facilmente quelli della più nota Pietà conservata in San Pietro a Roma.

… e Gent
Gent, Castello dei conti di Fiandra (foto gl)
Gent è un’altra città storica con un centro ben conservato, che ricorda gli splendori di una città ricca (per secoli rivale di Brugge) e molto popolosa (nel XIV sec. aveva più abitanti di Londra e di tante altre città europee). A partire dall’anno 1000 ebbe un continuo sviluppo urbanistico (corrispondente alla crescente importanza commerciale) attorno al castello dei Conti di Fiandra (fatto costruire nel 1180) fino al XVIII. Espressioni rilevanti di questo sviluppo sono la Torre campanaria (dell’inizio del XIV secolo), simbolo del potere comunale, e la stupenda cattedrale gotica di San Bavone (la parte più antica risale al XIV secolo).
La cattedrale di San Bavone è uno dei massimi esempi di architettura gotica nella variante del cosiddetto stile gotico brabantino (il Brabante è una regione centrale del Belgio). Al suo interno, in una cappella laterale, è conservato il famoso dipinto «L’Agnello Mistico» di Van Eyck (1432), che tuttavia non è stato possibile visitare perché in restauro.

Lussemburgo
Il quarto giorno è dedicato al ritorno in Svizzera, con lunga pausa come da programma a Lussemburgo, città a vocazione europea, che ha dato i natali a uno dei padri fondatori dell’Unione europea, Robert Schuman, e sede di alcune importanti istituzioni dell’UE. Fin dal 1952 è la sede della prima comunità europea, la CECA. Attualmente ospita inoltre la Corte di giustizia dell’Unione europea, la Corte dei conti europea, il Segretariato generale del Parlamento europeo e la Banca europea degli investimenti.
Per motivi di tempo non è stato possibile visitare alcuna di tali istituzioni, ma non si è potuto rinunciare a una breve visita nel centro storico della città, interessante e originale. La città di Lussemburgo è infatti situata su uno sperone roccioso alla confluenza di due fiumi, separata dalla parte bassa da impressionanti strapiombi. La parte più antica che conserva ancora le fortificazioni del XVII secolo è dal 1994 Patrimonio mondiale dell’Unesco. Spiccano per le loro caratteristiche architettoniche il Palazzo granducale e la Camera dei deputati, la cattedrale tardogotica di San Nicola, la Piazza Guillaume dominata dalla statua equestre di Guglielmo II, re dei Paesi Bassi e Granduca di Lussemburgo, e dove si affaccia il Comune in stile neoclassico.
Lussemburgo, foto-ricordo davanti alla statua della granduchessa Charlotte
Interessante l’esperienza vissuta, sia pure per pochi minuti, nella cattedrale dove si stava celebrando la messa. Infatti una parte delle letture è avvenuta in lussemburghese, la predica del celebrante è stata tenuta in francese e il resto della cerimonia in tedesco. Almeno per il plurilinguismo, per non parlare della fiorente attività finanziaria, Lussemburgo rassomiglia molto alla Svizzera. A differenza, invece, del Belgio, dove chi parla fiammingo non parla francese e viceversa, per libera (!) scelta.
Forse stanco dei 1700 chilometri percorsi e delle lunghe camminate, ma certamente arricchito da tante esperienze e nuove conoscenze (da approfondire) il gruppo ha fatto ritorno a casa in serata, pensando magari già dall’indomani ad organizzare i ricchi album fotografici e fissare attraverso le immagini ricordi indelebili di una gita turistico-culturale eccezionale.
Giovanni Longu
Berna, 3.6.2015

27 maggio 2015

L’UNITRE di Soletta nel cuore dell’UE (prima parte)


Al termine di un corso sulle istituzioni dell’Unione europea, che ha suscitato tanto interesse tra gli allievi, quale miglior conclusione di un viaggio nel cuore dell’UE? Così è stato. Dal 14 al 17 maggio scorso (con partenza alle 07.00 in punto da Zuchwil), un folto gruppo di allievi dell’UNITRE di Soletta e di amici della Famiglia Trentina è andato per così dire in «gita scolastica» nei luoghi dove maggiormente pulsa la vita delle istituzioni europee.
Gli unici inconvenienti sono stati l’impossibilità di visitare l’interno dei palazzi, perché in quei giorni festivi o di «ponte» i funzionari europei non lavoravano, e il tempo poco propizio per le foto ricordo. In compenso si è potuto vedere molto più di quanto previsto inizialmente, grazie anche alla costante disponibilità di un moderno autobus per tutti gli spostamenti e alle conoscenze di guide esperte per la scelta degli itinerari.

Strasburgo: Parlamento europeo (foto gl)
Strasburgo, capitale politica dell’UE
La prima tappa, e non poteva essere altrimenti, è stata Strasburgo, la «capitale politica d’Europa», sede principale del Parlamento europeo e del Consiglio d’Europa. Prima di giungervi, attraversando l’Alsazia, è stato giustamente ricordato che proprio lungo l’asse ideale che collega Basilea ad Anversa (Belgio) si è decisa gran parte della storia moderna dell’Europa occidentale. Purtroppo, fino al 1945, è stata una storia molto insanguinata con milioni di morti e prova ne sono i numerosi cimiteri di guerra disseminati nella regione.
Strasburgo ha svolto un ruolo importante in tutte le vicende storiche europee dalla fine del XVIII secolo in poi. Già il nome è emblematico degli «scambi» non sempre pacifici tra la Germania e la Francia, ma dal dopoguerra è divenuta simbolo di riconciliazione e della nuova Europa unita. Pur essendo stata assegnata definitivamente alla Francia dai trattati di pace, Strasburgo è stata scelta nel 1949 quale sede del Consiglio d’Europa e dal 1952 sede del Parlamento europeo (o meglio dell’Assemblea della prima istituzione europea, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio CECA, creata a Parigi nel 1951 tra i sei Paesi fondatori: Belgio, Francia, Germania occidentale, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi).
Strasburgo, Consiglio d'Europa (foto gl)
Il nostro giro a Strasburgo è iniziato, giustamente, con la visita esterna della sede del Parlamento europeo, un edificio prestigioso non solo per la funzione che svolge, ma anche per il bell'esempio di architettura contemporanea, in acciaio e vetro. Il palazzo, inaugurato nel 1999 è dedicato a Louise Weiss, parlamentare francese, grande sostenitrice dell’unità europea, che nel 1979, in quanto decana, pronunciò il discorso d’apertura della prima sessione del Parlamento europeo eletto a suffragio universale diretto.
Nelle vicinanze sorgono anche due altri palazzi importantissimi per l’affermazione e lo sviluppo dei diritti umani in Europa. Il primo è il palazzo delConsiglio d’Europa o Palazzo d’Europa, inaugurato nel 1977, dopo quasi cinque anni dalla posa della prima pietra (1972) da parte del consigliere federale dell’epoca Pierre Graber. Fino al 1999 fu anche la sede provvisoria del Parlamento europeo. Il secondo è il Palazzo dei diritti dell’uomo, inaugurato nel 1995, dove ha sede la Corte europea dei diritti dell’uomo.


Strasburgo, Cattedrale (foto gl)
Strasburgo e Metz, città storiche
Lasciato il «quartiere europeo», il gruppo si è spostato nel centro storico di Strasburgo, una meraviglia, non per niente considerato dal 1988 patrimonio mondiale dell’Unesco. La cattedrale di Notre-Dame, costruita fra il 1176 e il 1439, in stile gotico, è un gioiello di architettura sia all’esterno (facciata e portali riccamente ornati) che all’interno (pilastri, pulpito, organo monumentale, vetrate, orologio astronomico). Da lontano è riconoscibile la slanciatissima torre di 142 metri, fino al 1874 l’edificio più alto del mondo.
Nel centro storico sono molto ben conservati antichi edifici quali la celebre farmacia del Cervo, la casa Kommerzell, l’antica dogana, la casa dei conciatori di pelli nella Piccola Francia, ecc., che si aprono su piazze stupende (piazza del mercato, piazza Gutenberg). Per la pausa pranzo, certamente molti ne hanno approfittato per assaporare qualche tipica specialità alsaziana come la «tarte flambée» o «Flammenküche».
Nonostante la destinazione finale (Bruxelles) del primo giorno fosse ancora lontana, una sosta a Metz è apparsa irrinunciabile, sia per ricordare l’importanza storica della città, oggetto come Strasburgo delle controversie secolari tra la Germania e la Francia fino al 1945, e sia per visitare il centro storico o almeno la bellissima cattedrale gotica di Santo Stefano.

Bruxelles e l’Europa
Giunti in serata a Bruxelles, una volta sistemati i bagagli in albergo e cenato tutti insieme, a gruppi non si è perso tempo per andare a scoprire la famosa Grand-Place in centro città. Nonostante un’insistente pioggerella, lo spettacolo è stato di quelli che colpiscono a prima vista. Infatti quella che è considerata una delle più belle piazze del mondo (dal 1998 patrimonio mondiale dell’Unesco) è apparsa subito in tutta la sua magnificenza grazie a un sistema d’illuminazione dinamica a colori che si avvale di oltre 1.600 proiettori a LED.
Bruxelles: Foto di gruppo davanti all’Atomium (foto gl)
La mattinata del secondo giorno è stata dedicata a una visita guidata della città, con soste nei punti turisticamente più celebri. La prima è stata quella davanti al celebre Atomium, costruito per l’Esposizione universale di Bruxelles del 1958. Destinato a durare solo sei mesi, è invece divenuto l'attrazione turistica più popolare della città e simbolo della città e del Belgio.
La gigantesca costruzione, alta 102 metri e costituita da 9 sfere (ciascuna del diametro di 18 metri) collegate tra loro, rappresenta i 9 atomi di un cristallo di ferro. Essa è, fra l’altro, emblematica di un’epoca in cui si stavano gettando le fondamenta della costruzione ben più ardita dell’Unione europea (UE), ossia di un sistema atto a tenere uniti e collaboranti gli Stati europei del dopoguerra. Erano già stati costituiti il Consiglio d’Europa e la CECA, e nel 1957 erano stati firmati i Trattati di Roma, che davano inizio alla Comunità economica europea (CEE) e alla Comunità europea dell’energia atomica (Euratom).
Bruxelles, sede della Commissione europea (foto gl)
Da allora ad oggi l’idea europea si è notevolmente sviluppata e anche il numero degli Stati membri dell’UE è aumentato da sei a 28. Bruxelles ha per così dire accompagnato questo sviluppo divenendone in certo senso il cuore pulsante. Com’è noto, infatti, ospita il Consiglio, la Commissione, la seconda sede del Parlamento e molti altri organismi UE. Purtroppo non è stato possibile sostare davanti ai rispettivi palazzi, ma è stato sicuramente utile misurare per così dire l’ampiezza del «quartiere europeo» e osservare sia pure in movimento alcuni edifici, specialmente quello Schuman della Commissione.

Bruxelles e la Grand-Place
Bruxelles, Grand-Place:
Municipio illuminato (foto DP)
A Bruxelles, ovviamente, le cose interessanti da vedere sono moltissime per cui è stata necessaria una scelta, sperando tuttavia di cogliere alcuni aspetti tipici della città. In questo giro alquanto rapido non poteva sfuggire la grandiosità e la bellezza di alcuni parchi pubblici come il Parco del Cinquantenario (sistemato nel 1880 per commemorare il 50° anniversario dell’indipendenza del Belgio), dominato dall'Arco di trionfo, realizzato nel 1905, il susseguirsi di quartieri nuovi che si aggiungono a quelli più vecchi, di piazze e palazzi pubblici, di musei e di semplici facciate evocanti precise tendenze artistiche (ad es. Art Deco), ecc.
Tra i numerosi monumenti architettonici di rilievo non si possono non menzionare il Palazzo reale del XIX secolo, dove però i sovrani non risiedono, il mastodontico Palazzo di Giustizia e la Cattedrale dei santi Michele e Gudula, in stile gotico. A Bruxelles ci sono innumerevoli fontane, ma la più celebre di esse è indubbiamente quella raffigurante un bambino che fa la pipì, il Manneken Pis, una statuetta alta solo 60 cm, assurta a simbolo dell’indipendenza di spirito dei bruxellesi).
Ma a Bruxelles c’è soprattutto la Grand-Place, che di giorno appare in tutta la sua raffinata bellezza. Già esistente nel Medioevo, quando nella vita politica, civile ed economica dominavano le corporazioni, ha conservato quest’origine attraverso i palazzi che la circondano, appartenenti alle corporazioni. La Grand-Place, in passato soprattutto centro di commerci e talvolta teatro di avvenimenti storici, di roghi di eretici e di decapitazioni di nobili, oggi, specialmente d’estate, è una sorta di museo all’aperto, scenario di concerti, rappresentazioni teatrali, eventi particolari.
Più volte distrutta e ricostruita, come rendono testimonianza i diversi stili presenti nei vari palazzi, dal gotico al rinascimentale e al barocco. Su tutti i palazzi domina il Municipio con la Torre alta 96 metri, la cui costruzione originaria risale agli inizi del XIV secolo, e la Maison du Roi, un edificio in stile neogotico. Non solo i bruxellesi amano questa piazza, la «loro» Grand-Place, ma anche i turisti che apprezzano questa specie di salotto all'aperto. (Fine della prima parte)
Giovanni Longu
Berna, 6.5.2015