Tra le tante parole ed
espressioni che negli ultimi tempi sono usate con un significato diverso e
almeno in parte stravolto rispetto a quello originario, le tre seguenti mi
appaiono particolarmente interessanti.
Competenza
In senso giuridico la
competenza di una persona è il suo potere decisionale. In questo senso si parla
di «autorità competente». Per il senso comune, tuttavia, la competenza è legata
soprattutto alle conoscenze e alle capacità umane, organizzative e gestionali
di una persona ritenuta «competente» (che sa, che conosce l’ambito in cui
opera). Perciò si ritiene comunemente che una persona, per esempio ai vertici
di una azienda pubblica o privata, debba avere non solo il potere, ma anche le
capacità richieste dalla funzione che esercita.
Nella pubblica
amministrazione, invece, la scelta di un dirigente spesso non avviene in base
alle sue capacità, ma a convenienze ed equilibri politici e persino
all'appartenenza a cerchie ristrette dell’autorità di nomina, secondo logiche
compensative risalenti al Medioevo.
Ho sempre ritenuto
deleteria la scelta dei dirigenti pubblici in base al colore politico piuttosto
che alle loro capacità personali. In queste condizioni risulta infatti assai
difficile esigere efficienza e responsabilità. Ritengo che, soprattutto nel
pubblico, capacità e responsabilità personali siano caratteristiche
imprescindibili. L’efficienza di uno Stato si misura più sulla qualità della
sua amministrazione o burocrazia che sulla qualità della sua classe politica.
Democrazia
Tutti i dizionari
importanti ricordano l’origine di questo termine, dal greco, col significato di
«governo del popolo». Oggi, purtroppo, nemmeno in Svizzera dove vige
ancora un residuo di «democrazia diretta» (perché il popolo più volte l’anno è
chiamato a scegliere e a decidere) il termine è usato in maniera convinta. C’è
sì molta fiducia nelle istituzioni – fatto raro ormai in numerosi Paesi
occidentali – ma molti cittadini ritengono che la voce del popolo non sempre
arriva chiara e forte nelle stanze del potere.
E in Italia? Lo stato
della democrazia è sicuramente peggiore perché oltre alla mancanza di ascolto
delle voci (spesso lamentose) del popolo manca quasi completamente la fiducia
nelle istituzioni. Del resto, se l’esempio viene dall’alto, non si vede come si
possa avere fiducia in un Parlamento dove deputati e senatori, dimentichi degli
elettori che li hanno eletti, passano con estrema facilità da un gruppo
(partito) all'altro e votano non senza vincolo di mandato (come vorrebbe la
Costituzione), ma secondo la disciplina imposta dal partito.
Lo Stato, che dovrebbe
essere l’espressione della democrazia, è visto sempre più dai cittadini come
un’organizzazione a sé stante, spesso oppressiva ma soprattutto distante dagli
interessi del popolo. Quale fiducia possono avere nello Stato i giovani senza
lavoro, i disoccupati, le persone povere o a rischio di povertà, i piccoli
imprenditori, i meridionali che si sentono sempre più abbandonati, ecc.? Se
questa è democrazia…!
Unione europea
Quando nel 1957, con i Trattati di Roma, si decise la
costituzione della Comunità economica europea (CEE), cominciò a
diffondersi l’idea che il sogno bimillenario di un’Europa unita poteva
diventare realtà. Poco più di un secolo prima, Victor Hugo, ispirandosi
agli unici due modelli allora esistenti, gli Stati Uniti d’America e la
Svizzera, aveva preconizzato per l’Europa che Stati originariamente sovrani e
spesso in guerra tra loro si sarebbero confederati e avrebbero garantito ai
propri cittadini una salda democrazia: «Giorno verrà in cui voi tutte,
Nazioni del Continente, senza perdere le vostre qualità peculiari e la vostra
gloriosa individualità, vi fonderete strettamente in una unità superiore e
costituente la fraternità europea…».
Dopo quindici anni di esperienze positive, nel 1973 la CEE
dei sei Stati fondatori (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi
Bassi) cominciò ad accogliere nuove adesioni (Danimarca,
Irlanda e Gran Bretagna). Bastò tuttavia la crisi petrolifera del 1973 per mettere
in evidenza la fragilità politica dell’istituzione comunitaria. Ciononostante, la
CEE continuò ad ampliarsi fino a comprendere gli attuali 28 Stati membri,
divenendo via via un mercato sempre più vasto con regole sempre più vincolanti.
Nel 1992, per dare un forte
segnale del cambiamento che intendeva attuare successivamente, col Trattato
di Maastricht la CEE decise di cambiare nome e di chiamarsi Unione
europea (UE). Prima e dopo Maastricht la CEE/UE adeguò in una
prospettiva unitaria i suoi principali organismi. Insomma sembrava che
finalmente la politica orientata al bene comune dei cittadini avesse preso il
sopravvento sul mercato e sugli interessi nazionali. Illusione!
La crisi greca ha messo in luce non solo la situazione
deprecabile della Grecia, ma anche la profonda crisi dell’UE, che vede
allontanarsi, verrebbe giusto da dire «alle calende greche» (!), la
realizzazione del sogno di molte generazioni di una «unione» europea,
rispettosa dei diritti dei cittadini e protesa al loro sviluppo in tutti i
sensi. Gli egoismi nazionali sembrano prevalere e impedire quella cessione di
sovranità (non necessariamente intera) indispensabile per costituire un vero
Stato federale, gli Stati uniti d’Europa. In questa situazione
l’euroscetticismo dilagante dovrebbe far riflettere. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 5.8.2015
Berna, 5.8.2015
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