06 giugno 2013
Carla Zuppetti e l’opera incompiuta
Mercoledì scorso 5 giugno 2013, nel corso di una commovente cerimonia religiosa nella chiesa della Missione Cattolica Italiana di Berna, una folta rappresentanza delle istituzioni italiane in Svizzera e numerosi rappresentanti svizzeri hanno reso l’estremo saluto a Carla Zuppetti, deceduta inaspettatamente il 1° giugno 2013. Da meno di un anno era Ambasciatrice d'Italia in Svizzera e nel Liechtenstein.
La conoscevo appena, ma dal primo incontro avuto con lei all'inizio del suo mandato, mi era sembrata buona conoscitrice dei problemi bilaterali Italia-Svizzera, consapevole delle difficoltà e ciononostante ottimista e determinata.
Sono convinto che se la morte non l’avesse stroncata improvvisamente, avrebbe avviato a soluzione almeno alcuni dei problemi più seri delle relazioni italo-svizzere. Non le è riuscito e toccherà al suo successore, speriamo presto, continuare il lavoro da lei appena cominciato e ricercare le soluzioni più idonee non solo alle questioni riguardanti la fiscalità e il frontalierato, ma anche a quelle concernenti la politica linguistica e culturale degli italiani residenti in Svizzera, l’ammodernamento dei servizi consolari, i rapporti della collettività italiana con gli organismi di rappresentanza, ecc.
Sincere condoglianze alla famiglia Zuppetti (gl)
05 giugno 2013
Frontalieri italiani nuovamente alla ribalta
Su queste colonne ho manifestato più volte la mia difficoltà a comprendere il ritardo da parte italiana nella ripresa del negoziato con la Svizzera per trovare finalmente soluzioni soddisfacenti sia sul tema dell’evasione fiscale del passato (modello Rubik) e sia sul tema dei frontalieri. Per provocare almeno la volontà di una ripresa, nel 2011 i ticinesi avevano bloccato una parte dei ristorni dell’imposta alla fonte prelevata ai frontalieri. Ora sono nuovamente tentati di fare altrettanto, visto che finora nulla di significativo è avvenuto nel frattempo.
Sembrerebbe che l’Italia, che pure non si muove in acque
tranquille, almeno economicamente, non abbia alcun interesse né ai soldi
svizzeri che potrebbe incassare accettando, magari con opportuni ritocchi, il
modello Rubik, né a ripristinare i buoni rapporti col Ticino ridiscutendo lo
stato dei rapporti bilaterali soprattutto in materia di frontalierato.
Accuse ticinesi

Di fronte a queste e ad altre simili accuse non si tratta di
dare ragione all'una o all'altra parte, ma di riavviare urgentemente il dialogo
per trovare le soluzioni appropriate e giuste. Da parte sua il Consiglio di
Stato (governo) ticinese prenderà posizione ufficiale solo in settembre, dopo
aver esaminato nel dettaglio la situazione. E da parte italiana, quando
arriverà una presa di posizione? Si attendono forse nuovamente le dure reazioni
del Ticino?
Al riguardo alcune dichiarazioni di membri autorevoli del
governo ticinese non lasciano dubbi: dopo l’accurato esame della situazione
durante l’estate, il Consiglio di Stato (governo) ticinese intende intervenire con
decisione presso il Consiglio federale perché intervenga con fermezza sul
governo italiano. Secondo Norman Gobbi (Lega dei Ticinesi), «Noi abbiamo più
frontalieri di tutta la Svizzera tedesca, ma Berna non se ne accorge, lo
dimentica. (…) Noi l’ascia di guerra non l’abbiamo messa via e sottolineo che questa
non è una tematica partitica, qui non c’è destra o sinistra, ma tra Svizzera e
Italia vi sono due sistemi economici diversi, per certi versi incompatibili. A
fronte di un sistema liberale ticinese e svizzero, dall'altra parte ce n’è uno
corporativo e medievale (…)».
Attenzione alle conseguenze
In questo clima di attesa e di diffidenza, è emerso purtroppo
che quella che sembrava una ghiotta opportunità per il futuro delle aziende
ticinesi, l’Expo 2015 di Milano, rischia di diventare un evento fieristico e
basta. Solo il 13% delle imprese ticinesi pensa di parteciparvi, molte sono
ancora incerte. Se questa sorta di boicottaggio avvenisse sarebbe un brutto
segnale non solo per i rapporti tra la Lombardia e il Ticino, ma anche fra
l’Italia e la Svizzera.
Non va infatti dimenticato che proprio la Svizzera è stata
il primo Paese invitato ufficialmente a partecipare all'Expo 2015 e il suo
padiglione figurerà accanto a quello italiano. Nelle intenzioni degli
organizzatori si pensava al rafforzamento delle relazioni bilaterali
italo-svizzere e al coinvolgimento del Ticino per un’azione promozionale per le
imprese ticinesi e svizzere nel settore dell’alimentazione con ricadute
importanti sul lungo periodo.
Come mai le imprese ticinesi, contro il loro stesso
interesse, sembrano mostrare scarso interesse all’Expo? Da un recente studio sembrerebbe
la conseguenza oltre che di una scarsa informazione, anche di insufficienti
garanzie e troppa burocrazia. Ma a pesare sull'incertezza di molte aziende a
partecipare è difficile non vedere anche il clima generale che si respira negli
ambienti imprenditoriali ticinesi di fronte agli ostacoli che incontrano
ogniqualvolta cercano di penetrare nel mercato italiano.
Per questo e per mille altre ragioni, è auspicabile che i
rapporti bilaterali si rafforzino e si sviluppino in un clima di reciproco
rispetto, non dimenticando mai, da una parte e dall'altra, che in Svizzera
vivono e lavorano più di mezzo milione di italiani, che hanno tutto l’interesse
a guardare con serenità e affetto a entrambe le patrie.
Giovanni Longu
Berna, 5 giugno 2013
Berna, 5 giugno 2013
Svizzera: esempio di democrazia diretta
In Italia, con l’avvento di Grillo e del Movimento 5 Stelle, si è avviata un’interessante discussione sulla democrazia diretta, per poi disperderla sulla controversia circa la validità e l’utilità della «rete». In pratica, si è cercato inizialmente di far coincidere la prima con l’espressione sempre più ampia attraverso la rete informatica per poi affermare che la comunicazione in rete non è facilmente intelligibile, anzi è contraddittoria, molto volatile e manipolabile. Alcuni personaggi sono stati in brevissimo tempo esaltati ed esecrati dalla stessa rete. Evidentemente la democrazia diretta è ben altra cosa, anche se la rete è sicuramente un potente mezzo d’informazione e di formazione dell’opinione pubblica soprattutto giovanile.
L’ultima parola al popolo
Un esempio di democrazia diretta è rappresentato dalla
Svizzera che proprio fra pochi giorni, il 9 giugno, chiamerà nuovamente alle
urne i propri cittadini per votare su una serie di questioni d’importanza
nazionale, cantonale e comunale. Gli svizzeri lo fanno talmente sovente che
all'estero, anche in Italia, molti stentano a capirne il perché. Eppure la
risposta è semplice: gli svizzeri amano la democrazia diretta, ossia la
partecipazione del popolo come ultima istanza alla presa di decisioni
importanti per il Paese, a prescindere dal tasso di partecipazione effettiva. Recarsi
tre-quattro volte l’anno a votare su questioni federali, cantonali e comunali,
anche se non sempre di primaria importanza per il Paese, per gli svizzeri è un
diritto sacrosanto, costituzionale e inalienabile, al quale nemmeno coloro che
non lo esercitano sono disposti a rinunciare.
Data la frequenza, per taluni eccessiva, delle votazioni (in
aggiunta alle elezioni), la partecipazione è spesso al di sotto del 50 per
cento degli aventi diritto di voto. Al riguardo va tuttavia osservato che
quando si tratta di decisioni importanti e molto controverse la partecipazione
solitamente aumenta. Quando invece l’esito della votazione (sotto l’influsso
dei sondaggi) appare scontato, generalmente la partecipazione scende. Altre
volte, nel caso di modifiche costituzionali, anche una bassa partecipazione è
compensata dalla doppia maggioranza del popolo e dei Cantoni richiesta per
questo tipo di oggetti.
Astensionismo e fiducia nelle istituzioni
Il fenomeno dell’astensionismo, a differenza di quel che
rappresenta in Italia, pur essendo denunciato da più parti, non appare
preoccupante, a mio modo di vedere soprattutto per due ragioni. Anzitutto
perché nei casi in cui è in votazione ritenuto «molto importante» dall’opinione
pubblica, l’elettorato si mobilita e partecipa più numeroso. Inoltre perché i
cittadini svizzeri sono consapevoli di essere generalmente ben governati e di
vivere in un sistema politico e istituzionale generale equilibrato e stabile.
La fiducia nelle istituzioni in Svizzera è sempre molto alta, soprattutto se
confrontata alla situazione italiana.
E’ interessante osservare che nella storia della democrazia diretta
svizzera, tra i temi in votazione più «importanti» e «controversi» ci sono
sempre stati quelli riguardanti l’immigrazione e l’asilo. L’ormai famosa votazione
popolare del 1970 sul ridimensionamento del fenomeno migratorio auspicato
da Schwarzenbach (quando i migranti erano soprattutto italiani!) sfiorò col
74,7% il record di partecipazione (79,7%)
registrato nel 1947 nella votazione sull'introduzione dell’assicurazione
vecchiaia e superstiti, e mai più superato in seguito.
Richiedenti l’asilo e governo del popolo
Dal 1970
in poi, quasi tutte le votazioni riguardanti temi
dell’immigrazione e dell’asilo hanno segnato tassi di partecipazione relativamente
alti, ma tendenzialmente in diminuzione. Ciò non significa che questi temi non
abbiano più presa nell'opinione pubblica. Con un po’ di pazienza se ne potrà
avere una conferma (o una smentita) il prossimo 9 giugno quando i cittadini
svizzeri voteranno su un ulteriore inasprimento della legge sull'asilo
(introduzione di misure più severe per il riconoscimento del diritto d’asilo in
Svizzera), dopo quello già approvato in votazione popolare nel 2006. Come
allora, anche stavolta i pronostici sono per una netta approvazione dei
provvedimenti, sostenuti dal Consiglio federale e dal Parlamento. In fondo, non
si vuole affatto limitare il diritto d’asilo, ma si vogliono contrastare gli
abusi.
Un altro tema in votazione il 9 giugno, eminentemente
politico, riguarda l’iniziativa dell’Unione democratica di centro (in realtà di
destra) denominata «Elezione del Consiglio federale da parte del Popolo».
Si tratta di un tema vecchio quasi quanto la Confederazione, più volte discusso
e sottoposto a votazione popolare, ma sempre bocciato. In genere, quando si
tratta di modifiche istituzionali profonde, gli svizzeri sono piuttosto
diffidenti e cauti, preferiscono il certo all’incerto. Lo dimostreranno con ogni
probabilità anche prossimamente.
Giovanni Longu
Berna, 5 giugno 2013
Berna, 5 giugno 2013
29 maggio 2013
Italia-Svizzera: integrazione e cittadinanza (terza parte)
L'integrazione è misurabile?
Nel precedente articolo «Per una politica d’integrazione efficace» del 22.5.2013 ho accennato a un sistema di «indicatori dell'integrazione della popolazione con passato migratorio», elaborato dall’Ufficio federale di statistica (UST). Mi pare opportuno tornare sull'argomento nel tentativo di aggiungere qualche elemento di concretezza in più all'attuale discussione (in Italia particolarmente viva ma anche fortemente ideologica) sulla cittadinanza e sull'integrazione dei giovani stranieri.
Da
quanto si apprende dai media, ad esempio, per i fautori della cittadinanza automatica
«jus soli» sembra data per scontata l’integrazione dei figli di stranieri nati
in Italia. Ma questa presunzione è suffragata da costatazioni documentate? E’stato
fatto uno studio approfondito sul grado d’integrazione degli stranieri regolarmente
soggiornanti in Italia e dei loro figli?
L'esempio della Svizzera
Poiché i problemi sia della cittadinanza e sia
dell’integrazione degli stranieri sono stati discussi e vissuti in Svizzera prima
che in Italia, può essere quantomeno interessante accennare al sistema di verifica
e di misurazione dell’integrazione applicato in Svizzera seguendo una serie di indicatori
specifici. Evidentemente l’integrazione è considerata misurabile.
Prima di parlare di tali indicatori, è bene precisare che in
Svizzera, da oltre un secolo Paese d’immigrazione, oggi si parla praticamente
solo di «integrazione» e non più, come avveniva fino pochi decenni fa, di «assimilazione»
degli stranieri residenti stabilmente. Non si tratta solo di un cambiamento
terminologico, ma di un vero e proprio cambiamento di mentalità, sancito ormai
dalla Legge federale del 2005 sugli stranieri (LStr) e dall’Ordinanza del 2007 sull’integrazione
degli stranieri (OintS).
Obiettivi e strumenti d’integrazione
L’integrazione non è più concepita come un processo
unidirezionale dello straniero che deve assorbire i valori e persino i
comportamenti tipici della società ospite, giungendo nei casi estremi ma non
rari fino alla perdita totale della propria cultura d’origine e all’assunzione
della cultura del gruppo d’inserimento. Oggi l’integrazione è vista come un processo
dinamico bidirezionale che, se esige dagli stranieri la volontà di integrarsi nella società, presuppone da parte
della popolazione svizzera un atteggiamento di apertura nei confronti degli
stranieri. Se è vero che gli stranieri devono familiarizzarsi con la
realtà sociale e con le condizioni di vita in
Svizzera e a questo fine devono imparare una lingua nazionale, entrambe le
parti hanno il dovere «del rispetto reciproco e della tolleranza» (cfr.
LStr. articolo 4).
Anche gli obiettivi
dell’integrazione sono diversi rispetto alla vecchia concezione. A beneficiare
del processo integrativo non è più solo la società ospite, ma sono anche gli
stessi stranieri, che raggiungono così il pieno riconoscimento della loro «possibilità
di partecipare alla vita economica, sociale e culturale della società», ossia
la garanzia delle «pari opportunità di partecipazione alla società svizzera»
(cfr. LStr. articolo 4, capoverso 2 e OintS
articolo 2, capoverso 1).
Compito dello Stato
Ma qual è il compito dello
Stato e in genere delle istituzioni in materia d’integrazione? L’ordinanza
sopraccitata è precisa. «L’integrazione è un compito trasversale svolto
dalle autorità federali, cantonali e comunali assieme alle organizzazioni non
governative, comprese le parti sociali e le associazioni degli stranieri».
(OintS, art. 2, capoverso 2). Tale compito viene svolto soprattutto favorendo l’integrazione
degli stranieri «in primo luogo mediante le strutture ordinarie quali
segnatamente la scuola, la formazione professionale, il mondo del lavoro e le
strutture della sicurezza sociale e della sanità pubblica», tenendo conto delle
«esigenze speciali di donne, bambini e giovani» e adottando eventualmente, ma
«solo a titolo di sostegno complementare», «misure specifiche per stranieri»
(OintS, art. 2, capoverso 3).
Qualcuno potrebbe obiettare che fin qui si tratta solo di
principi, di indicazioni più o meno vincolanti, forse di buone intenzioni. Ma
il sistema d’integrazione svizzero funziona per davvero? La risposta a questa
domanda fondamentale non può essere un semplice sì o no, ma dev'essere
necessariamente articolata, sul presupposto che gli obiettivi dell’integrazione
siano verificabili. Ebbene, grazie al sistema di 67 «indicatori dell'integrazione della popolazione con passato
migratorio», elaborato dall'UST su mandato del Consiglio federale è
possibile rispondere al quesito in modo puntuale e mirato.
Indicatori dell’integrazione
Gli indicatori sono stati infatti elaborati tenendo conto di
molteplici variabili iniziali (nazionalità, luogo di nascita, età, formazione, ecc.),
degli obiettivi che la politica federale si propone di raggiungere mediante il processo
integrativo e della condizione reale della popolazione con un passato
migratorio (ossia immigrati di prima generazione, sia stranieri che svizzeri, e
loro discendenti diretti o seconda generazione). Questi indicatori concernono i
vari ambiti dell'integrazione: l'aiuto sociale e la povertà, la criminalità, la
sicurezza, il razzismo e la discriminazione, la cultura, la religione e i
media, l'educazione e la formazione, la famiglia e la demografia, la lingua,
l'abitazione, il mercato del lavoro, la politica, la salute e lo sport.
Si tratta, ben’inteso di elementi che non rivestono tutti la
stessa importanza, ma sono sicuramente utili per descrivere la situazione e
stabilire il grado d’integrazione di singole categorie di persone, specialmente
i giovani di seconda generazione, anche se le generalizzazioni sono sempre
problematiche. Si pensi, ad esempio, alle conoscenze linguistiche. Esse
rappresentano un fattore essenziale per una buona riuscita del processo
d'integrazione nella società, nella formazione, nel mercato del lavoro, nella
carriera professionale, ecc. Un altro indicatore, la partecipazione al mercato
del lavoro, rappresenta anch’esso «una condizione essenziale – secondo l’UST - per
l'integrazione nella società poiché permette di soddisfare autonomamente i
bisogni primari e di partecipare ad altri ambiti della vita».
Concretezza e affidabilità
In concreto, per determinare il «grado d’integrazione» si
mettono a confronto le differenze (e le similitudini) tra le situazioni dei
vari sottogruppi che compongono la società, in particolare tra la popolazione
senza passato migratorio (ossia svizzeri e stranieri di terza generazione) e i
due sottogruppi costituiti dalle persone con passato migratorio di prima generazione
e da quelle di seconda generazione.
Data la concretezza e l’affidabilità dei risultati ottenuti con
metodo statistico dall'UST, questi indicatori costituiscono una base solida non
solo per rispondere a domande generali sull'integrazione degli stranieri, ma
anche per la definizione delle politiche d’integrazione da parte delle autorità
competenti, per lavori di ricerca scientifica e per azioni mirate nel campo
dell'integrazione.
Giusto per fare
qualche esempio e senza entrare nei dettagli, desidero accennare ad alcuni
risultati raggiunti dall'UST osservando la popolazione «con passato
migratorio».
Alcuni esempi
Nel campo della formazione di grado universitario, in
base ai dati più recenti risulta che gli stranieri della seconda generazione occupano
una posizione nettamente inferiore (16,9%) sia rispetto a quella degli svizzeri
nati in Svizzera (26,6%) o all'estero (28,8%) e sia rispetto agli stranieri
nati all'estero (31,3%). Questi ultimi esprimono la tendenza più recente della
politica svizzera d’immigrazione a preferire immigrati altamente qualificati.
Anche rispetto alle lingue parlate le differenze tra
i gruppi di popolazione sono rilevanti. Nel 2010, l 'uso di 2 o 3 lingue
nazionali era da due a tre volte maggiore presso la popolazione con passato
migratorio di seconda generazione (28,7%) rispetto a quello della
popolazione senza passato migratorio (12,0%). Il 70,0% della popolazione con
passato migratorio di prima generazione ricorre invece a una sola
lingua nazionale come lingua principale.
Anche riguardo alle condizioni di vita materiale e alla
povertà sono state osservate differenze significative tra le persone nate in
Svizzera e quelle nate all'estero. Le persone nate all'estero dispongono
generalmente di redditi inferiori alle persone nate in Svizzera. La difficoltà
ad arrivare a fine mese è molto più elevata anche per gli stranieri nati in
Svizzera che per gli svizzeri. Inoltre, per le persone nate all'estero è più
alto il rischio di povertà.
Nel settore della «partecipazione al mercato del lavoro»,
malgrado una partecipazione pressoché analoga per le persone con e senza
passato migratorio, l'UST ha costatato differenze significative per quanto
concerne ad esempio il livello gerarchico: per la popolazione senza passato
migratorio si contava il 35,5% di salariati con funzione dirigenziale, per la
popolazione con passato migratorio il 30,5%.
In conclusione, gli esempi citati lasciano facilmente
intendere che qualsiasi politica finalizzata all'integrazione non può
prescindere dall'osservazione precisa della situazione e dalla messa in campo di
strumenti e risorse adeguate a eliminare le differenze e garantire effettivamente
anche agli stranieri pari opportunità di accesso e di partecipazione nei vari
ambiti della società (fine).
Giovanni Longu
Berna, 29.05.2013
Berna, 29.05.2013
22 maggio 2013
Italia-Svizzera: integrazione e cittadinanza (seconda parte)
Nel precedente articolo su «Italia-Svizzera: integrazione e cittadinanza» (prima parte) del 15.5.20139 sostenevo che l’integrazione è la «principale condizione per la naturalizzazione», ossia per l’acquisizione della cittadinanza anche degli stranieri di seconda generazione. Per questo auspicavo per l’Italia un’efficace politica migratoria incentrata sull'integrazione. Mi suggeriscono queste considerazioni l’attuale dibattito sullo «jus soli», ma soprattutto la storia migratoria svizzera.
Per una politica d'integrazione efficace
La Svizzera è stata un Paese
d’emigrazione ben prima dell’Italia. Fino al 1888 il suo saldo migratorio era
negativo, ma anche nei decenni successivi si è continuato ad emigrare. Dalla
fine dell’Ottocento, tuttavia, la Svizzera è divenuta un Paese d’immigrazione e
ha dovuto confrontarsi col problema di un’alta percentuale di stranieri (attualmente
23,3%) sul suo territorio. Per cercare di risolverlo, da alcuni decenni ha
adottato con successo una politica d’integrazione che sta dando i suoi frutti
già nella seconda generazione di stranieri ma soprattutto in quelle successive.
L’Italia è stata molto più a
lungo, per oltre un secolo, un Paese d’emigrazione di massa e solo da pochi
decenni conosce il fenomeno inverso dell’immigrazione. Pur avendo (ancora) una bassa
percentuale di stranieri, non c’è dubbio che anche in Italia gli immigrati
(compresi i clandestini) costituiscono un serio problema che va ben gestito,
con una efficace politica migratoria incentrata sull'integrazione. Quella tradizionale
basata specialmente su misure di ordine pubblico e sul controllo delle
frontiere dovrebbe essere quantomeno integrata e sostanziata con misure
finalizzate all’integrazione degli stranieri presenti sul territorio.
Politica migratoria
italiana
La politica migratoria
italiana si basa essenzialmente sul «Testo
unico sull’immigrazione» del 1998 e successive modifiche e integrazioni. In
esso sono contenute le principali disposizioni «sull'ingresso, il soggiorno e
l'allontanamento dal territorio dello Stato», sul riconoscimento dei «diritti e
doveri dello straniero» e sulle finalità della politica d’integrazione
degli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia.
Nella parte riguardante l’immigrazione si tratta per
lo più di disposizioni amministrative e penali introdotte
specialmente dalla famosa legge Bossi-Fini del 1999 e dal decreto legge sulla
sicurezza del 2008. Esse regolano in particolare il controllo delle frontiere, l’ingresso
nel territorio nazionale («consentito allo straniero in possesso di
passaporto valido o documento equipollente e del visto d'ingresso…»), la
gestione delle «quote massime di stranieri da ammettere nel territorio dello
Stato», il contrasto delle «immigrazioni
clandestine», l’espulsione («per gravi motivi di ordine pubblico o sicurezza
nazionale», ma anche per ragioni amministrative), ecc.
Politica d’integrazione
Nella parte riferibile a una vera e propria politica
d’integrazione, il Testo unico contiene alcune affermazioni di principio, che se
attuate risulterebbero anche molto efficaci. Si parla ad esempio di un «accordo
di integrazione» che lo straniero deve sottoscrivere al momento della presentazione
della domanda di rilascio del permesso di soggiorno per il conseguimento di «specifici
obiettivi di integrazione» nel periodo di validità del permesso di soggiorno.
Nonostante venga precisato che in questo contesto «si
intende con integrazione quel processo finalizzato a promuovere la convivenza
dei cittadini italiani e di quelli stranieri, nel rispetto dei valori sanciti
dalla Costituzione italiana, con il reciproco impegno a partecipare alla vita
economica, sociale e culturale della società», non è dato capire quali siano o
possano essere concretamente gli «obiettivi specifici» dell’accordo e quali
siano in definitiva gli obiettivi finali dell’integrazione.
Ci sono tuttavia nel Testo unico altre espressioni che contribuiscono
a dare un’idea più precisa di questi obiettivi. Ad esempio là dove si parla di «interventi pubblici volti a favorire le relazioni
familiari, l'inserimento sociale e l'integrazione culturale degli stranieri
residenti in Italia, nel rispetto delle diversità e delle identità culturali
delle persone, purché non confliggenti con l'ordinamento giuridico» (art. 3,
comma 3).
Ancor più esplicito è l’articolo
42, in
cui si precisano alcune «misure di integrazione sociale» quali: «la diffusione di
ogni informazione utile al positivo inserimento degli stranieri nella società
italiana in particolare riguardante i loro diritti e i loro doveri, le diverse
opportunità di integrazione e crescita personale e comunitaria offerte dalle
amministrazioni pubbliche e dall'associazionismo…» e ancora: «l'organizzazione
di corsi di formazione, ispirati a criteri di convivenza in una società multiculturale e di prevenzione di comportamenti discriminatori,
xenofobi o razzisti, destinati agli operatori degli organi e uffici pubblici e
degli enti privati che hanno rapporti abituali con stranieri o che esercitano
competenze rilevanti in materia di immigrazione».
Come si vede, il Testo unico
sull’immigrazione può essere considerato una buona base di partenza per
realizzare sul terreno gli obiettivi dell’integrazione. Si tratta di mettere in
pratica tutte le misure indicate, coinvolgendo non solo gli enti pubblici (oggi
in particolare il Ministero dell’integrazione), ma anche le associazioni
professionali, istituzioni ecclesiastiche, associazioni ed enti privati attivi
nell'assistenza e nell'integrazione degli immigrati.
Politica migratoria
svizzera
Come detto, la Svizzera ha
una lunga storia, fra l’altro interessantissima, di emigrazione e immigrazione.
Per molti decenni ha sofferto per la partenza di molti suoi figli come
mercenari e come lavoratori emigranti, fra l’altro anche in Italia, poi verso
la fine dell’Ottocento è divenuta un Paese di immigrazione. Per lungo tempo la
sua politica migratoria è consistita quasi esclusivamente nel controllo delle
frontiere e nella gestione dei flussi immigratori attraverso accordi
internazionali e leggi specifiche sull’ingresso e il soggiorno degli stranieri.
Solo dagli anni Settanta del secolo scorso ha intrapreso la strada di una
sempre più mirata politica d’integrazione.
I due testi fondamentali della nuova politica migratoria
svizzera sono la legge federale del 2005 sugli
stranieri e l’ordinanza del 2007 sull’integrazione degli stranieri.
Alcuni articoli in particolare meritano di essere espressamente menzionati.
Anzitutto l’articolo 4 della legge, intitolato «Integrazione»:
«1. L’integrazione mira alla convivenza della popolazione
residente indigena e di quella straniera, sulla base dei valori sanciti dalla
Costituzione federale, nonché sulla base del rispetto reciproco e della
tolleranza.
2. L’integrazione è volta a garantire agli stranieri che risiedono legalmente e a lungo termine in Svizzera la possibilità di partecipare alla vita economica, sociale e culturale della società.
3. L’integrazione presuppone la volontà degli stranieri di integrarsi nella società e un atteggiamento di apertura da parte della popolazione svizzera.
4. Occorre che gli stranieri si familiarizzino con la realtà sociale e le condizioni di vita in Svizzera, segnatamente imparando una lingua nazionale».
2. L’integrazione è volta a garantire agli stranieri che risiedono legalmente e a lungo termine in Svizzera la possibilità di partecipare alla vita economica, sociale e culturale della società.
3. L’integrazione presuppone la volontà degli stranieri di integrarsi nella società e un atteggiamento di apertura da parte della popolazione svizzera.
4. Occorre che gli stranieri si familiarizzino con la realtà sociale e le condizioni di vita in Svizzera, segnatamente imparando una lingua nazionale».
L’ordinanza è ancora più
esplicita e all’articolo 2 precisa:
1. L’obiettivo dell’integrazione è di garantire agli stranieri pari opportunità di partecipazione alla società svizzera.
2. L’integrazione è un compito trasversale svolto dalle autorità federali, cantonali e comunali assieme alle organizzazioni non governative, comprese le parti sociali e le associazioni degli stranieri.
3. L’integrazione avviene in primo luogo mediante le strutture ordinarie quali segnatamente la scuola, la formazione professionale, il mondo del lavoro e le strutture della sicurezza sociale e della sanità pubblica. È tenuto conto delle esigenze speciali di donne, bambini e giovani. Misure specifiche per stranieri sono adottate solo a titolo di sostegno complementare».
1. L’obiettivo dell’integrazione è di garantire agli stranieri pari opportunità di partecipazione alla società svizzera.
2. L’integrazione è un compito trasversale svolto dalle autorità federali, cantonali e comunali assieme alle organizzazioni non governative, comprese le parti sociali e le associazioni degli stranieri.
3. L’integrazione avviene in primo luogo mediante le strutture ordinarie quali segnatamente la scuola, la formazione professionale, il mondo del lavoro e le strutture della sicurezza sociale e della sanità pubblica. È tenuto conto delle esigenze speciali di donne, bambini e giovani. Misure specifiche per stranieri sono adottate solo a titolo di sostegno complementare».
Sistema di indicatori e di verifiche
Come si può osservare, gli
articoli citati definiscono in modo chiaro non solo gli obiettivi
dell’integrazione, ma anche gli strumenti e le modalità di realizzazione. Ma
quali sono i risultati? La chiarezza delle leggi e l’indicazione degli
strumenti di applicazione non bastano infatti a definire una buona politica. Per
questo è indispensabile una verifica ed è interessante osservare che, proprio
in riferimento all’efficacia della politica migratoria svizzera, l’Ufficio
federale di statistica ha elaborato e attuato un sistema di «indicatori
dell’integrazione».
In un prossimo articolo
presenterò alcuni risultati interessanti sicuramente per una valutazione della
politica d’integrazione svizzera e forse per un confronto con la situazione
italiana, anche se le popolazioni straniere nei due Paesi sono assai diverse.
Giovanni Longu
Berna, 22.05.2013
Berna, 22.05.2013
15 maggio 2013
Italia-Svizzera: integrazione e cittadinanza (prima parte)
Chiunque abbia o abbia avuto esperienze migratorie si può ben rendere conto dell’importanza e della delicatezza della discussione in atto in Italia sulla cittadinanza degli immigrati, soprattutto di quelli di seconda generazione. Un tema che non può essere risolto con una semplice modifica legislativa, ma va discusso e approfondito sotto molteplici aspetti, senza farne tuttavia un oggetto di scontro ideologico sui diritti fondamentali o sui principi di civiltà. Bisognerebbe affrontarlo con un certo pragmatismo. Occorrerebbe cioè domandarsi se le singole misure proposte siano adeguate, opportune e socialmente sostenibili.
Anzitutto mi pare essenziale
un chiarimento terminologico, cominciando dal termine «diritto». E’ vero infatti
che ogni essere umano ha fin dalla nascita una serie di diritti «naturali», ma
non quello di cittadinanza, se non in una forma generica come capacità ad
averne una. Anche la famosa «Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino»
del 1789 (elaborata durante la Rivoluzione francese) esprime questa
distinzione. Considerare dunque come una sorta di diritto naturale il
riconoscimento della cittadinanza italiana a chi nasce in Italia è una
forzatura senza fondamento.
Nelle società moderne e democratiche la fonte del diritto è
essenzialmente la Costituzione e le leggi. Vien da chiedersi, con riferimento
all'Italia, perché finora nessuna proposta di legge è giunta alla discussione e
approvazione finale. Probabilmente perché nessuna risultava chiara e adeguata
alla situazione. Temo che faranno la stessa fine le nuove proposte che, stando
a fonti giornalistiche, vorrebbero addirittura introdurre una sorta di «jus
soli», ossia il diritto di cittadinanza automatica per chi nasce sul territorio nazionale da genitori rispondenti ad alcuni requisiti.
Politica d’integrazione
Il tema della cittadinanza nei confronti degli stranieri
domiciliati in Italia e soprattutto di quelli di seconda generazione, ossia
nati in Italia, è tuttavia ineludibile per ragioni politiche e di opportunità.
Anzitutto per ragioni politiche, perché nessuno Stato democratico può tollerare
a lungo andare una quota eccessiva di stranieri (dotati generalmente di meno
diritti dei cittadini). Ma soprattutto per ragioni di opportunità: è di gran
lunga preferibile per una società fondata sul consenso e sulla collaborazione
poter contare sul contributo della (quasi) totalità dei suoi componenti
piuttosto che escluderne una parte, rischiando persino di privarsi di apporti
importanti e di alimentare il dissenso.
Per risolvere il problema credo anzitutto ch'esso vada
considerato all'interno di una moderna politica migratoria che l’Italia ancora non
ha. Purtroppo molti Stati, tra cui la Svizzera e da qualche decennio anche
l’Italia, hanno pensato unicamente a regolamentare gli ingressi con le varie
leggi sull'immigrazione, introducendo contingenti, controlli e misure di
polizia. La Svizzera da alcuni decenni ha imparato con grandi benefici che
un’efficace politica migratoria, pur continuando a tenere sotto controllo i
flussi (contrastando ad esempio ogni forma di immigrazione clandestina), deve fondarsi
soprattutto sull'accoglienza e sull'integrazione degli immigrati.
Per questa ragione ho apprezzato molto nel nuovo governo
italiano l’istituzione di un ministero dell’integrazione. A chi ne contesta
l’opportunità bisognerebbe rispondere che l’integrazione è importante per gli
immigrati, ma soprattutto per l’Italia. In un Paese non possono convivere a
lungo pacificamente persone di serie A e di serie B. Tanto vale che siano tutte
di serie A, ossia persone che si sentano accettate, rispettate e stimate, sebbene
temporaneamente prive dei diritti politici.
Integrazione e cittadinanza
Una buona integrazione è anche una condizione fondamentale
per divenire a tutti gli effetti cittadini nella pienezza dei diritti anche
politici. In Svizzera si è molto discusso nei decenni passati se la
naturalizzazione, ossia l’acquisizione della cittadinanza, sia da considerare
più un punto di arrivo che un punto di partenza. Oggi sembra che non sussistano
dubbi nel considerare l’integrazione, almeno in una misura essenziale, come la
principale condizione per la naturalizzazione.
![]() |
Cecile Kyenge, ministra per l'integrazione |
Lungi da me dare suggerimenti alla ministra per
l’integrazione Cecile Kyenge, ma conoscendo entrambe le situazioni,
quella svizzera e quella italiana, non ho dubbi nel ritenere preferibile per
l’Italia che si elabori dapprima e si implementi poi una condivisa ed efficace
politica migratoria incentrata sull'integrazione. Tutto il resto (modificare
leggi, cancellare reati, ecc.) sarà più facile.
Puntare invece, come sembrerebbe da certa stampa, sull'introduzione
dello «jus soli» per chi nasce sul territorio
nazionale mi pare un azzardo destinato a sollevare violente opposizioni (e
data la situazione italiana non sarebbe proprio il caso!). Posso aggiungere che
in Svizzera si è già tentata questa strada (un caso forse più unico che raro nella
storia moderna delle politiche migratorie nazionali) e si è persino giunti ad
adottare una legge federale che consentiva ai Cantoni (sovrani in materia di
diritti civili) di applicare sul loro territorio il diritto di cittadinanza
alla nascita (sia pure a certe condizioni). Ebbene, in forza di quella legge
non c’è mai stata a quanto sembra alcuna naturalizzazione, per cui quella legge
è stata abrogata.
Cittadinanza facilitata
Ciò che in Italia mi pare auspicabile è la facilitazione
dell’acquisizione della cittadinanza italiana per i figli di stranieri già
residenti stabilmente da un certo numero di anni e ritenuti in certa misura
integrati. Per ottenere la cittadinanza di questi stranieri di seconda
generazione potrebbe bastare, ad esempio, una semplice richiesta, visto
che tutte le altre condizioni sono già adempiute dai genitori. In questo modo,
forse, si potrebbero ritenere soddisfatti sia coloro che ritengono «giusto» che
chi nasce in Italia venga considerato cittadino italiano, ma anche coloro che
sono decisamente contrari alla concessione «automatica» della cittadinanza a
chiunque nasca in Italia. Tanto più che in certi casi la cittadinanza italiana,
diversa da quella del padre o della madre, potrebbe non essere desiderata o
gradita.
Giovanni Longu
Berna, 15.05.2013
Berna, 15.05.2013
Roma ancora tentenna su Rubik
Per l’Italia il «modello Rubik» sembra davvero un rompicapo… e rischia di provocare danni irreversibili. Il governo Letta è ancora fermo ai blocchi di partenza. Eppure i «Saggi» di Napolitano lo hanno detto molto chiaramente: «Si propone al Governo di valutare l'opportunità di riprendere i negoziati bilaterali con la Svizzera per un accordo di trasparenza ai fini della tassazione dei redditi transfrontalieri di natura finanziaria, alla luce dei recenti sviluppi sul fronte della fiscalità internazionale (in particolare, degli accordi conclusi dagli Stati Uniti con vari paesi europei) sullo scambio di informazioni, nonché delle raccomandazioni del G8 e del G20 su questa materia; in parallelo, il Governo può attivarsi in sede UE affinché l’Unione stessa negozi un tale accordo, in nome di tutti gli Stati membri».
La proposta dei Saggi
La proposta dei «Saggi» mi pare legittima e utile e viene da
chiedersi perché Roma ancora tentenna. Forse
per paura che dietro una «sanatoria» si nasconda un vero e proprio «condono
tombale» nei confronti degli evasori fiscali che negli scorsi decenni hanno
preferito depositare i loro capitali in Svizzera, evadendo il fisco italiano? Oppure
perché si aspetta che sia l’Unione Europea a risolvere la vertenza non solo per
l’Italia, ma anche per altri Paesi europei che hanno con la Svizzera un
problema analogo? E’ probabile che a entrambe le domande si debba rispondere
sì, ma è certo che quanto più tempo passa tanto più modesto sarà il risultato
in termini monetari per l’Italia.
Semplificando la problematica, si tratta di ridefinire con
l’Italia un accordo complessivo in materia fiscale che ha due risvolti: uno
riguarda il passato e l’altro riguarda il futuro. Mentre per il futuro è
sicuramente corretto che sia l’Unione Europea ad occuparsene per tutti i membri
dell’UE, per quanto riguarda il passato mi sembra difficile che l’UE possa
entrare nei dettagli di ciascun Paese.
Per il futuro si tratta essenzialmente di concordare a
livello europeo uno scambio automatico dei dati fiscali e non sembrano più
sussistere grandi opposizioni nemmeno da parte svizzera. Se infatti fino a
pochi mesi fa il «segreto bancario» svizzero sembrava non negoziabile, ora la
Svizzera non vi si oppone più a patto che la trasparenza riguardi tutti i Paese
europei, compresi Austria e Lussemburgo, dove vige ancora una sorta di segreto
bancario analogo a quello svizzero.
Rubik riguarda il passato
Per quanto riguarda il passato è evidente che ciascun Paese
ha una sua propria vertenza, che andrebbe regolata bilateralmente. Per questo
finora hanno regolato il passato Londra e Vienna, mentre Berlino ha tentato di
regolarlo a livello governativo giungendo persino a un accordo, poi naufragato
a livello parlamentare per l’opposizione dei socialdemocratici (non si sa bene
se perché a loro sembrava indecente o semplicemente per far dispetto alla
Merkel che ha molte probabilità di essere rieletta alle prossime elezioni
tedesche d’autunno. Quanto agli altri due accordi va detto per inciso che
Londra e Vienna già incassano fior di milioni dalla Svizzera.
Pur non essendo uno strenuo difensore del modello Rubik,
credo che il tergiversare di Roma non giovi all’Italia. Del resto, anche la
Germania, che ha meno urgenze di cassa dell’Italia, ha lasciato intendere
tramite il suo ministro degli esteri, che con Berna «resta aperta la via di un’intesa
fiscale» anche se «in questo momento non è possibile dire se verrà ripreso il
piano svizzero Rubik oppure no (…)». Evidentemente il «no» lascia intendere che
anche Berlino aspetta di vedere quali saranno gli sviluppi sul fronte
dell’Unione europea, che è sicuramente interessata a nuovi accordi fiscali con
la Svizzera».
Dal punto di vista svizzero, le idee sembrano chiare e in
questi primi mesi dell’anno eminenti personalità, a cominciare dallo stesso
Presidente della Confederazione, hanno affermato che la Svizzera non accetterà
alcun diktat e tantomeno di «denunciare» persone che, pur avendo esportando
capitali non dichiarati al loro Paese, non hanno violato alcuna legge svizzera.
Berna disponibile al negoziato
Riguardo al modello Rubik, ambienti politici e finanziari sembrano
disponibili a discuterlo e adattarlo alle situazioni specifiche, non a stravolgerlo
o abbandonarlo. Il 25 aprile scorso, in un’intervista al quotidiano svizzero
«Le Temps», il presidente dell’Associazione svizzera dei banchieri (ASB) si è
detto convinto che lo scambio automatico di informazioni è meno efficace
dell’imposta liberatoria alla fonte, ossia il modello Rubik. Ciò che molti non
hanno capito è che esso mira a regolarizzare i fondi depositati in passato
nelle banche svizzere, non i depositi futuri. Per il futuro la Svizzera è
infatti sempre più disponibile a uno scambio automatico di informazioni.
Osservando la lentezza della reazione italiana, francamente
non si capisce perché non siano ancora ripresi i negoziati con la Svizzera.
Eppure è evidente che man mano che passa il tempo c’è il rischio che dei
capitali esportati illecitamente ne restino sempre meno nelle casseforti
svizzere e pertanto che sia anche sempre minore il tesoretto che la Svizzera è
disposta a restituire agli Stati interessati, tra cui l’Italia.
E’ pertanto auspicabile che i negoziati riprendano quanto
prima, anche perché i tempi sembrano favorevoli.
Giovanni Longu
Berna, 15.05.2013
Berna, 15.05.2013
11 maggio 2013
Festa della mamma e riconoscenza sociale
La seconda domenica di maggio è tradizionalmente dedicata alla Festa della mamma. Ben venga almeno una volta l’anno l’occasione di omaggiare non solo le nostre mamme, ma «la mamma» e più in generale «la donna», che da che mondo è mondo incarna l’idea stessa di maternità. Purtroppo anche questa ricorrenza, come quella del 1° maggio dedicata al lavoro, più che un evento da festeggiare dovrebbe essere stimolo alla riflessione sul disagio sociale e sulla crisi delle famiglie.

Mancanza di una vera politica familiare
Anche in Svizzera, dove la situazione è comunque molto
migliore di quella italiana, secondo una recente statistica, in una coppia con
uno o più figli sotto i 25 anni, l’88% dei padri svolge un’attività
professionale a tempo pieno, ma solo il 17% delle madri. Il 61% delle madri
svolge un’attività professionale a tempo parziale, mentre la percentuale dei
padri si ferma al 7,8%. E’ ancora molto diffusa l’opinione che il lavoro fuori
casa delle madri sia solo accessorio e complementare a quello degli uomini e
non un diritto.
In questi ultimi anni, i media italiani, troppo attratti dai
giochi spesso indecorosi della politica, hanno sottovalutato e trascurato
(salvo sbattere in prima pagina casi di femminicidio e infanticidio) il
crescente disagio delle famiglie, la piaga della disoccupazione giovanile, i
tanti giovani adulti costretti a stare in casa perché senza lavoro, la carenza di
adeguate strutture di assistenza e di sostegno (consultori, asili nido,
doposcuola, ecc.). La politica familiare sta accumulando gravi ritardi, fatta
eccezione per le detrazioni fiscali per i figli a carico.
La famiglia dovrebbe tornare al centro dell’attenzione e
dell’azione politica, come in diversi articoli prevede la Costituzione
italiana. Ne cito uno per tutti (art. 31): «La Repubblica agevola con misure
economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei
compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la
maternità e l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale
scopo». C’è ancora molto da fare.
La mamma è come un albero grande
Diceva una vecchia poesia (di Francesco Pastonchi) che mia
mamma mi recitava quand’ero bambino: «Una mamma è come un albero grande /
che tutti i suoi frutti dà: / per quanti gliene domandi / sempre uno ne
troverà. / Ti dà il frutto, il fiore e la foglia, / per te di tutto si spoglia,
/ anche i rami si toglierà…». Per questo, credo, nessun figlio dovrebbe mai
sottrarsi al dovere della riconoscenza, ma nemmeno la società. Mettere al mondo
dei figli, accudirli, educarli e farli crescere, è una funzione altamente
sociale e una responsabilità enorme, che comporta soprattutto nelle mamme
grandi sacrifici e rinunce. Per questo esse meritano anche la solidarietà
e la riconoscenza sociale.
Una forma moderna di solidarietà dovrebbe consistere
anzitutto in un ripensamento profondo dell’attuale distribuzione del lavoro
nella società e nell’ambito familiare, cominciando dalla stessa nozione
di «lavoro», riservata abitualmente all’attività professionale fuori casa. Ancora
oggi si esita a considerare «lavoro» l’attività che svolgono in casa le mamme. Persino
il noto giornalista ticinese di origine italiana Michele Fazioli, in un bel
pezzo sul Corriere del Ticino («Piccolo elogio della madre casalinga»), tentenna
tra «madre casalinga» e «madre lavoratrice» e scrive: «la
madre che non lavora, diciamo la casalinga (…) dovrebbe essere valorizzata,
dovrebbe essere riconosciuta come forza produttiva in senso morale ed economico…».
A mio parere, bisognerebbe dire senza esitazione alcuna che anche l’attività
domestica compiuta prevalentemente dalle donne è «lavoro», sebbene non retribuito.
Del resto è quel che fa già da diversi anni l’Ufficio federale di statistica (UST)
quando calcola il valore monetario del lavoro casalingo non remunerato, mettendolo
in relazione con il valore aggiunto lordo totale della Svizzera.
I «lavori domestici»
Ritengo un errore e un difetto che nell'opinione pubblica non
si sia ancora riusciti a rivalutare adeguatamente anche sotto l’aspetto
reddituale l’educazione dei figli, l’assistenza ai membri bisognosi di una
famiglia, le attività per mandare avanti una casa e una famiglia. Eppure basterebbe
pensare al costo di un’attività di assistenza ad un familiare bisognoso,
qualora, invece di essere svolta da una persona di famiglia, generalmente una
donna, venisse affidata a un o una badante. Lo stesso esempio si potrebbe applicare
per analogia a quasi tutte le altre attività svolte dalle donne nell'ambito
familiare (pulizie di casa, cura dei bambini, ecc.).
Un altro aspetto concreto della solidarietà, soprattutto tra
le coppie, sarebbe una nuova e più equa ripartizione dei lavori domestici. Da
una recente statistica risulta che in Svizzera, dove la situazione è per
diversi aspetti migliore di quella italiana, ben tre quarti delle donne viventi
in famiglie composte da coppie con figli di età inferiore a 15 anni assumono da
sole la responsabilità principale per i lavori domestici. E’ vero che oggi si
registra un numero crescente di coppie (soprattutto tra i giovani) che
assicurano la gestione congiunta della casa, ma quando si raggiungerà un giusto
equilibrio?
Ci vorrà sicuramente del tempo perché comporta un
cambiamento di mentalità, ma occorre cominciare subito. Altrimenti ad ogni «festa
della mamma» ci si ritroverà con gli stessi problemi.
Giovanni Longu
Berna, 11 maggio 2013
Berna, 11 maggio 2013
08 maggio 2013
Alla culla della Confederazione
Sabato 27 aprile, nonostante un tempo per nulla primaverile, circa 40 allievi dell’Università delle tre età di Soletta hanno partecipato a una escursione culturale attorno al Lago dei Quattro Cantoni. Al termine di un corso finalizzato a conoscere meglio la Svizzera si è ritenuto utile andare a visitare sia pure velocemente i luoghi che hanno visto nascere la Confederazione.
Evidentemente non è facile rendersi conto delle condizioni
di vita degli uomini e delle donne che abitavano quei posti attorno al 1300, ma
già osservando il territorio, costituito da strette vallate, fitti boschi e
monti incombenti, si possono capire le difficoltà di comunicazione di allora, la
limitatezza degli scambi, l’isolamento di quelle popolazioni abituate da secoli
a contare esclusivamente sulle proprie forze e a vivere in pace.
Tra mito e realtà
Altdorf, Monumento a Guglielmo Tell |
Morgarten e Sempach
Sono invece fatti storici le battaglie di Morgarten,
di cui si è visto un bell'affresco sul municipio di Svitto, e di Sempach,
entrambe vinte dai confederati (ai tre Cantoni primitivi si era aggiunta nel
frattempo Lucerna) contro gli Asburgo che non si rassegnavano a perdere i
territori svizzeri. A ricordo di quest’ultima battaglia (1386), su una collina vicino
alla cittadina omonima, fu edificata una chiesetta.
Monumento a Winkelried |
figura mitica della storia svizzera,
Il Winkelried era ritenuto originario di Stans,
capitale di Nidvaldo, dove nel 1865 venne eretto in suo onore un monumento e
dove esiste anche la presunta casa a lui appartenuta (Winkelriedhaus), oggi
sede Museo della cultura e degli usi del Cantone Nidwaldo. La piazzetta
centrale di Stans è dominata dalla chiesa parrocchiale dedicata a San
Pietro, in stile neorinascimentale, al cui interno si trovano numerosi
riferimenti alla storia svizzera, non sempre pacifica. Nel 1481, per comporre i
forti disaccordi tra i confederati dei primi otto Cantoni svizzeri ed evitare
una probabile guerra civile, proprio a Stans nel corso di un incontro dei vari
rappresentanti intervenne autorevolmente San Nicolao della Flüe,
originario di Flüeli nel Cantone di Obvaldo. A seguito del suo intervento
pacificatore tutti i delegati firmarono un nuovo patto federale, la «Convenzione
di Stans», che vietava qualsiasi aggressione fra Cantoni e obbligava ciascuno a intervenire in soccorso di un Cantone aggredito.
Religiosità diffusa
Una caratteristica di questa regione che durante la gita non
poteva restare inosservata è sicuramente la diffusa religiosità. Impossibile non rilevare, attraversando in autobus
gli abitati o visitando le varie città, gli innumerevoli segni della matrice
cristiana di queste località. Ovunque si notano chiese, monasteri, croci,
cappelle. E se la Confederazione è nata e si è formata in queste regioni
attorno al Lago dei Quattro Cantoni, non deve meravigliare se la Costituzione
federale comincia ancora oggi con l’invocazione «In nome di Dio Onnipotente».
Anche il primo documento federale (1291) conservato nell'Archivio di Svitto comincia:
«Nel nome del Signore, così sia».
Svitto, davanti al Rathaus |
Lucerna
Quando si parla della Svizzera centrale inevitabilmente uno
dei primi pensieri se non il primo va a Lucerna, la città più popolata e
più importante della regione. Anche nella nostra gita ha rappresentato uno dei
momenti principali e non bastano certo poche righe per rievocare le impressioni
provate nella breve visita del centro storico.
Nel centro storico di Lucerna |
Anche Lucerna conserva molti segni della sua origine cristiana
cattolica. Due chiese in particolare meritano di essere qui ricordate, la Chiesa
dei Gesuiti, che fu la prima chiesa svizzera in stile barocco e la Chiesa
di San Leodegario (nota come Hofkirche). Durante la Riforma, Lucerna
rimase cattolica. Nel 1845 guidò una lega di sette Cantoni cattolici e
conservatori (Sonderbund), che volevano separarsi dai Cantoni
protestanti radicali e liberali. L’intervento del generale Dufour, che
sconfisse la lega cattolica, evitò la guerra civile e creò la premessa per
scongiurarla per sempre. Nel 1848 fu infatti costituita la moderna
Confederazione, che garantiva l’autonomia dei Cantoni. Lucerna, concorrente di
Berna per divenirne capitale federale, non fu scelta per questa funzione, ma
divenne ciononostante una delle città svizzere più conosciute a livello
internazionale e una delle principali mete turistiche.
Giovanni Longu
01 maggio 2013
Primo Maggio delle Donne

Donne penalizzate
Che questa concezione sia ancora assai diffusa lo dimostrano
gli effetti della crisi, anche in Italia: i licenziamenti o comunque la perdita
del lavoro colpiscono più le donne degli uomini, i lavori occasionali concernono
soprattutto i giovani e le donne, l’occupazione a tempo parziale è tipicamente
femminile, anche se coinvolge sempre più anche uomini. Per non parlare dei
salari (quelli delle donne sono generalmente più bassi di quelli degli uomini)
e dell’accesso al credito (le imprese femminili incontrano molte più difficoltà
di quelle degli uomini).
In Svizzera la situazione è molto migliore, ma anche in
questo Paese, risparmiato finora dall'acutezza della crisi economica, le donne hanno
di che lamentarsi. Anche qui, ad esempio, i salari delle donne sono
generalmente inferiori a quelli degli uomini e sul mercato del lavoro
incontrano maggiori difficoltà degli uomini. Per le donne fare carriera è molto
più difficile che per gli uomini. Per le donne con famiglia, conciliare
attività professionale e vita familiare è un’impresa sempre più ardua.
Secondo una recente statistica, in una coppia svizzera con
uno o più figli sotto i 25 anni, l’88% dei padri svolge un’attività
professionale a tempo pieno, ma solo il 17% delle madri. Il 61% delle madri svolge
un’attività professionale a tempo parziale, mentre la percentuale dei padri si ferma
al 7,8%.
Lavoro e responsabilità
La giornata del Primo maggio dovrebbe essere un’occasione di
riflessione collettiva sulle problematiche del lavoro, sulla sua scarsità e
precarietà, ma anche sulla sua distribuzione. Ci si dovrebbe anche interrogare
sulle responsabilità della situazione, ma andrebbe evitato di riversarle come
spesso accade unicamente sulla finanza internazionale, sui cosiddetti ma mai
identificati poteri forti, sull'Europa, sul governo.

In questa riflessione può essere utile anche ripensare la
distribuzione del lavoro non solo nella società, ma anche tra uomo e donna. Non
si tratta di escogitare nuove teorie economiche o sindacali, semmai di adeguare
quelle classiche alle nuove esigenze sociali. Si tratta anche di ripensare la
ripartizione del lavoro tra uomo e donna in ambito familiare.
Per una nuova ripartizione del lavoro
Qualche anno fa fu lanciata in Svizzera un’iniziativa
popolare che mirava sostanzialmente al raggiungimento di una diversa «ripartizione
del lavoro» tra uomo e donna. Va detto subito che l’iniziativa non è mai
andata in votazione perché non furono raggiunte le firme necessarie. Mi sembra tuttavia difficile
negare che alcuni obiettivi esprimevano esigenze molto sentite. Ad esempio, si
chiedeva che la Confederazione, cioè lo Stato, adottasse misure affinché
«tutte le donne e tutti gli uomini in età lavorativa possano provvedere al
loro sostentamento mediante un lavoro retribuito svolto a condizioni adeguate,
in particolare attraverso la riduzione degli orari lavorativi e la promozione
di forme differenziate di ripartizione del lavoro», e inoltre: «sia
consentita, senza pregiudizi di ordine sociale e professionale, una ripartizione
paritaria fra i sessi delle attività lavorative non retribuite socialmente
necessarie, come pure dei servizi resi nell'interesse della comunità».

Rivalutare il lavoro domestico
Sarebbe anche ora di smettere di considerare «lavoro» solo
l’attività professionale remunerata e non anche tutta l’attività domestica
compiuta prevalentemente dalle donne. Il fatto che essa non venga remunerata
non sminuisce affatto l’importanza, il valore e la professionalità del lavoro
domestico. E’ semmai un errore e un difetto che non si sia ancora trovata la
maniera e la misura per valutare adeguatamente sotto l’aspetto reddituale l’educazione
dei figli, l’assistenza ai membri bisognosi di una famiglia, le attività per
mandare avanti una casa e una famiglia.
Basterebbe pensare al costo di un’attività di assistenza ad
un familiare bisognoso, qualora, invece di essere svolta da una persona di
famiglia, generalmente una donna, venisse affidata a un o una badante. Lo
stesso esempio si potrebbe applicare per analogia a quasi tutte le altre
attività svolte dalle donne nell'ambito familiare, catalogate abitualmente come
«domestiche».
La contabilizzazione delle attività casalinghe sotto
l’aspetto reddituale, oltre che rispondere a un principio di giustizia,
comporterebbe anche un altro vantaggio non indifferente: le attività domestiche
acquisterebbero di valore e a nessuno verrebbe più in mente di considerarle
meno importanti o addirittura meno utili di quelle cosiddette professionali
svolte fuori casa.
Cambio di mentalità
Mi rendo conto che questo cambio di concezione del lavoro
domestico comporta un vero e proprio cambio di mentalità, ma anche la crisi
spinge in questa direzione. Per fortuna sempre più coppie, soprattutto giovani,
assicurano la gestione congiunta della casa. Il Primo maggio potrebbe essere
una buona occasione per riflettere seriamente anche su questa problematica, comprendendo
anche, perché no, il dibattito in corso sul reddito minimo garantito, sul
reddito esistenziale, sul reddito di cittadinanza, sul quoziente familiare e concetti
simili. Contribuirebbe a un cambio di mentalità sempre più urgente e
necessario.
Giovanni Longu
Berna, 1° maggio 2013
Berna, 1° maggio 2013
Iscriviti a:
Post (Atom)