06 giugno 2013

Carla Zuppetti e l’opera incompiuta



Mercoledì scorso 5 giugno 2013, nel corso di una commovente cerimonia religiosa nella chiesa della Missione Cattolica Italiana di Berna, una folta rappresentanza delle istituzioni italiane in Svizzera e numerosi rappresentanti svizzeri hanno reso l’estremo saluto a Carla Zuppetti, deceduta inaspettatamente il 1° giugno 2013. Da meno di un anno era Ambasciatrice d'Italia in Svizzera e nel Liechtenstein.


La conoscevo appena, ma dal primo incontro avuto con lei all'inizio del suo mandato, mi era sembrata buona conoscitrice dei problemi bilaterali Italia-Svizzera, consapevole delle difficoltà e ciononostante ottimista e determinata.
Sono convinto che se la morte non l’avesse stroncata improvvisamente, avrebbe avviato a soluzione almeno alcuni dei problemi più seri delle relazioni italo-svizzere. Non le è riuscito e toccherà al suo successore, speriamo presto, continuare il lavoro da lei appena cominciato e ricercare le soluzioni più idonee non solo alle questioni riguardanti la fiscalità e il frontalierato, ma anche a quelle concernenti la politica linguistica e culturale degli italiani residenti in Svizzera, l’ammodernamento dei servizi consolari, i rapporti della collettività italiana con gli organismi di rappresentanza, ecc.
Sincere condoglianze alla famiglia Zuppetti (gl)

05 giugno 2013

Frontalieri italiani nuovamente alla ribalta


Su queste colonne ho manifestato più volte la mia difficoltà a comprendere il ritardo da parte italiana nella ripresa del negoziato con la Svizzera per trovare finalmente soluzioni soddisfacenti sia sul tema dell’evasione fiscale del passato (modello Rubik) e sia sul tema dei frontalieri. Per provocare almeno la volontà di una ripresa, nel 2011 i ticinesi avevano bloccato una parte dei ristorni dell’imposta alla fonte prelevata ai frontalieri. Ora sono nuovamente tentati di fare altrettanto, visto che finora nulla di significativo è avvenuto nel frattempo.
Sembrerebbe che l’Italia, che pure non si muove in acque tranquille, almeno economicamente, non abbia alcun interesse né ai soldi svizzeri che potrebbe incassare accettando, magari con opportuni ritocchi, il modello Rubik, né a ripristinare i buoni rapporti col Ticino ridiscutendo lo stato dei rapporti bilaterali soprattutto in materia di frontalierato.

Accuse ticinesi
Leggendo la stampa ticinese, si resta alquanto impressionati dalle accuse (evidentemente tutte da provare e documentare) che vengono mosse all'Italia. Ne cito solo alcune giusto per rendere l’idea: L’Italia continua a considerare la Svizzera un paradiso fiscale e pertanto continua a inserirla nelle cosiddette black list, che comportano notevoli difficoltà alle imprese svizzere; la reciprocità nell'applicazione degli accordi bilaterali non aziende ticinesi sono discriminate nei concorsi pubblici; nel Ticino, invece, arrivano quotidianamente «lavoratori distaccati» e «padroncini» sfruttando i vantaggi degli accordi con l’Unione Europea e sconvolgendo il mercato del lavoro locale; i ristorni all'Italia non vanno a finire direttamente nelle casse dei Comuni di frontiera; l’Italia non dà alcuna garanzia sulla realizzazione della ferrovia Mendrisio-Varese/Malpensa nella tratta fra Stabio (Ticino) e Arcisate (Varese), nonostante i reciproci accordi internazionali di terminare l’opera nei tempi previsti (2014); ecc. ecc.
esiste o è tutta a favore dell’Italia; di fatto le
Di fronte a queste e ad altre simili accuse non si tratta di dare ragione all'una o all'altra parte, ma di riavviare urgentemente il dialogo per trovare le soluzioni appropriate e giuste. Da parte sua il Consiglio di Stato (governo) ticinese prenderà posizione ufficiale solo in settembre, dopo aver esaminato nel dettaglio la situazione. E da parte italiana, quando arriverà una presa di posizione? Si attendono forse nuovamente le dure reazioni del Ticino?
Al riguardo alcune dichiarazioni di membri autorevoli del governo ticinese non lasciano dubbi: dopo l’accurato esame della situazione durante l’estate, il Consiglio di Stato (governo) ticinese intende intervenire con decisione presso il Consiglio federale perché intervenga con fermezza sul governo italiano. Secondo Norman Gobbi (Lega dei Ticinesi), «Noi abbiamo più frontalieri di tutta la Svizzera tedesca, ma Berna non se ne accorge, lo dimentica. (…) Noi l’ascia di guerra non l’abbiamo messa via e sottolineo che questa non è una tematica partitica, qui non c’è destra o sinistra, ma tra Svizzera e Italia vi sono due sistemi economici diversi, per certi versi incompatibili. A fronte di un sistema liberale ticinese e svizzero, dall'altra parte ce n’è uno corporativo e medievale (…)».

Attenzione alle conseguenze
In questo clima di attesa e di diffidenza, è emerso purtroppo che quella che sembrava una ghiotta opportunità per il futuro delle aziende ticinesi, l’Expo 2015 di Milano, rischia di diventare un evento fieristico e basta. Solo il 13% delle imprese ticinesi pensa di parteciparvi, molte sono ancora incerte. Se questa sorta di boicottaggio avvenisse sarebbe un brutto segnale non solo per i rapporti tra la Lombardia e il Ticino, ma anche fra l’Italia e la Svizzera.
Non va infatti dimenticato che proprio la Svizzera è stata il primo Paese invitato ufficialmente a partecipare all'Expo 2015 e il suo padiglione figurerà accanto a quello italiano. Nelle intenzioni degli organizzatori si pensava al rafforzamento delle relazioni bilaterali italo-svizzere e al coinvolgimento del Ticino per un’azione promozionale per le imprese ticinesi e svizzere nel settore dell’alimentazione con ricadute importanti sul lungo periodo.
Come mai le imprese ticinesi, contro il loro stesso interesse, sembrano mostrare scarso interesse all’Expo? Da un recente studio sembrerebbe la conseguenza oltre che di una scarsa informazione, anche di insufficienti garanzie e troppa burocrazia. Ma a pesare sull'incertezza di molte aziende a partecipare è difficile non vedere anche il clima generale che si respira negli ambienti imprenditoriali ticinesi di fronte agli ostacoli che incontrano ogniqualvolta cercano di penetrare nel mercato italiano.
Per questo e per mille altre ragioni, è auspicabile che i rapporti bilaterali si rafforzino e si sviluppino in un clima di reciproco rispetto, non dimenticando mai, da una parte e dall'altra, che in Svizzera vivono e lavorano più di mezzo milione di italiani, che hanno tutto l’interesse a guardare con serenità e affetto a entrambe le patrie.

Giovanni Longu
Berna, 5 giugno 2013

Svizzera: esempio di democrazia diretta


In Italia, con l’avvento di Grillo e del Movimento 5 Stelle, si è avviata un’interessante discussione sulla democrazia diretta, per poi disperderla sulla controversia circa la validità e l’utilità della «rete». In pratica, si è cercato inizialmente di far coincidere la prima con l’espressione sempre più ampia attraverso la rete informatica per poi affermare che la comunicazione in rete non è facilmente intelligibile, anzi è contraddittoria, molto volatile e manipolabile. Alcuni personaggi sono stati in brevissimo tempo esaltati ed esecrati dalla stessa rete. Evidentemente la democrazia diretta è ben altra cosa, anche se la rete è sicuramente un potente mezzo d’informazione e di formazione dell’opinione pubblica soprattutto giovanile.

L’ultima parola al popolo
Un esempio di democrazia diretta è rappresentato dalla Svizzera che proprio fra pochi giorni, il 9 giugno, chiamerà nuovamente alle urne i propri cittadini per votare su una serie di questioni d’importanza nazionale, cantonale e comunale. Gli svizzeri lo fanno talmente sovente che all'estero, anche in Italia, molti stentano a capirne il perché. Eppure la risposta è semplice: gli svizzeri amano la democrazia diretta, ossia la partecipazione del popolo come ultima istanza alla presa di decisioni importanti per il Paese, a prescindere dal tasso di partecipazione effettiva. Recarsi tre-quattro volte l’anno a votare su questioni federali, cantonali e comunali, anche se non sempre di primaria importanza per il Paese, per gli svizzeri è un diritto sacrosanto, costituzionale e inalienabile, al quale nemmeno coloro che non lo esercitano sono disposti a rinunciare.
Data la frequenza, per taluni eccessiva, delle votazioni (in aggiunta alle elezioni), la partecipazione è spesso al di sotto del 50 per cento degli aventi diritto di voto. Al riguardo va tuttavia osservato che quando si tratta di decisioni importanti e molto controverse la partecipazione solitamente aumenta. Quando invece l’esito della votazione (sotto l’influsso dei sondaggi) appare scontato, generalmente la partecipazione scende. Altre volte, nel caso di modifiche costituzionali, anche una bassa partecipazione è compensata dalla doppia maggioranza del popolo e dei Cantoni richiesta per questo tipo di oggetti.

Astensionismo e fiducia nelle istituzioni
Il fenomeno dell’astensionismo, a differenza di quel che rappresenta in Italia, pur essendo denunciato da più parti, non appare preoccupante, a mio modo di vedere soprattutto per due ragioni. Anzitutto perché nei casi in cui è in votazione ritenuto «molto importante» dall’opinione pubblica, l’elettorato si mobilita e partecipa più numeroso. Inoltre perché i cittadini svizzeri sono consapevoli di essere generalmente ben governati e di vivere in un sistema politico e istituzionale generale equilibrato e stabile. La fiducia nelle istituzioni in Svizzera è sempre molto alta, soprattutto se confrontata alla situazione italiana.
E’ interessante osservare che nella storia della democrazia diretta svizzera, tra i temi in votazione più «importanti» e «controversi» ci sono sempre stati quelli riguardanti l’immigrazione e l’asilo. L’ormai famosa votazione popolare del 1970 sul ridimensionamento del fenomeno migratorio auspicato da Schwarzenbach (quando i migranti erano soprattutto italiani!) sfiorò col 74,7% il record di partecipazione (79,7%) registrato nel 1947 nella votazione sull'introduzione dell’assicurazione vecchiaia e superstiti, e mai più superato in seguito.

Richiedenti l’asilo e governo del popolo
Dal 1970 in poi, quasi tutte le votazioni riguardanti temi dell’immigrazione e dell’asilo hanno segnato tassi di partecipazione relativamente alti, ma tendenzialmente in diminuzione. Ciò non significa che questi temi non abbiano più presa nell'opinione pubblica. Con un po’ di pazienza se ne potrà avere una conferma (o una smentita) il prossimo 9 giugno quando i cittadini svizzeri voteranno su un ulteriore inasprimento della legge sull'asilo (introduzione di misure più severe per il riconoscimento del diritto d’asilo in Svizzera), dopo quello già approvato in votazione popolare nel 2006. Come allora, anche stavolta i pronostici sono per una netta approvazione dei provvedimenti, sostenuti dal Consiglio federale e dal Parlamento. In fondo, non si vuole affatto limitare il diritto d’asilo, ma si vogliono contrastare gli abusi.
Un altro tema in votazione il 9 giugno, eminentemente politico, riguarda l’iniziativa dell’Unione democratica di centro (in realtà di destra) denominata «Elezione del Consiglio federale da parte del Popolo». Si tratta di un tema vecchio quasi quanto la Confederazione, più volte discusso e sottoposto a votazione popolare, ma sempre bocciato. In genere, quando si tratta di modifiche istituzionali profonde, gli svizzeri sono piuttosto diffidenti e cauti, preferiscono il certo all’incerto. Lo dimostreranno con ogni probabilità anche prossimamente.

Giovanni Longu
Berna, 5 giugno 2013

29 maggio 2013

Italia-Svizzera: integrazione e cittadinanza (terza parte)


L'integrazione è misurabile?

Nel precedente articolo «Per una politica d’integrazione efficace» del 22.5.2013 ho accennato a un sistema di «indicatori dell'integrazione della popolazione con passato migratorio», elaborato dall’Ufficio federale di statistica (UST). Mi pare opportuno tornare sull'argomento nel tentativo di aggiungere qualche elemento di concretezza in più all'attuale discussione (in Italia particolarmente viva ma anche fortemente ideologica) sulla cittadinanza e sull'integrazione dei giovani stranieri. 
Da quanto si apprende dai media, ad esempio, per i fautori della cittadinanza automatica «jus soli» sembra data per scontata l’integrazione dei figli di stranieri nati in Italia. Ma questa presunzione è suffragata da costatazioni documentate? E’stato fatto uno studio approfondito sul grado d’integrazione degli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia e dei loro figli?

L'esempio della Svizzera
Poiché i problemi sia della cittadinanza e sia dell’integrazione degli stranieri sono stati discussi e vissuti in Svizzera prima che in Italia, può essere quantomeno interessante accennare al sistema di verifica e di misurazione dell’integrazione applicato in Svizzera seguendo una serie di indicatori specifici. Evidentemente l’integrazione è considerata misurabile.
Prima di parlare di tali indicatori, è bene precisare che in Svizzera, da oltre un secolo Paese d’immigrazione, oggi si parla praticamente solo di «integrazione» e non più, come avveniva fino pochi decenni fa, di «assimilazione» degli stranieri residenti stabilmente. Non si tratta solo di un cambiamento terminologico, ma di un vero e proprio cambiamento di mentalità, sancito ormai dalla Legge federale del 2005 sugli stranieri (LStr) e dall’Ordinanza del 2007 sull’integrazione degli stranieri (OintS).

Obiettivi e strumenti d’integrazione
L’integrazione non è più concepita come un processo unidirezionale dello straniero che deve assorbire i valori e persino i comportamenti tipici della società ospite, giungendo nei casi estremi ma non rari fino alla perdita totale della propria cultura d’origine e all’assunzione della cultura del gruppo d’inserimento. Oggi l’integrazione è vista come un processo dinamico bidirezionale che, se esige dagli stranieri la volontà di integrarsi nella società, presuppone da parte della popolazione svizzera un atteggiamento di apertura nei confronti degli stranieri. Se è vero che gli stranieri devono familiarizzarsi con la realtà sociale e con le condizioni di vita in Svizzera e a questo fine devono imparare una lingua nazionale, entrambe le parti hanno il dovere «del rispetto reciproco e della tolleranza» (cfr. LStr. articolo 4).
Anche gli obiettivi dell’integrazione sono diversi rispetto alla vecchia concezione. A beneficiare del processo integrativo non è più solo la società ospite, ma sono anche gli stessi stranieri, che raggiungono così il pieno riconoscimento della loro «possibilità di partecipare alla vita economica, sociale e culturale della società», ossia la garanzia delle «pari opportunità di partecipazione alla società svizzera» (cfr. LStr. articolo 4, capoverso 2 e OintS articolo 2, capoverso 1).

Compito dello Stato
Ma qual è il compito dello Stato e in genere delle istituzioni in materia d’integrazione? L’ordinanza sopraccitata è precisa. «L’integrazione è un compito trasversale svolto dalle autorità federali, cantonali e comunali assieme alle organizzazioni non governative, comprese le parti sociali e le associazioni degli stranieri». (OintS, art. 2, capoverso 2). Tale compito viene svolto soprattutto favorendo l’integrazione degli stranieri «in primo luogo mediante le strutture ordinarie quali segnatamente la scuola, la formazione professionale, il mondo del lavoro e le strutture della sicurezza sociale e della sanità pubblica», tenendo conto delle «esigenze speciali di donne, bambini e giovani» e adottando eventualmente, ma «solo a titolo di sostegno complementare», «misure specifiche per stranieri» (OintS, art. 2, capoverso 3).
Qualcuno potrebbe obiettare che fin qui si tratta solo di principi, di indicazioni più o meno vincolanti, forse di buone intenzioni. Ma il sistema d’integrazione svizzero funziona per davvero? La risposta a questa domanda fondamentale non può essere un semplice sì o no, ma dev'essere necessariamente articolata, sul presupposto che gli obiettivi dell’integrazione siano verificabili. Ebbene, grazie al sistema di 67 «indicatori dell'integrazione della popolazione con passato migratorio», elaborato dall'UST su mandato del Consiglio federale è possibile rispondere al quesito in modo puntuale e mirato.

Indicatori dell’integrazione
Gli indicatori sono stati infatti elaborati tenendo conto di molteplici variabili iniziali (nazionalità, luogo di nascita, età, formazione, ecc.), degli obiettivi che la politica federale si propone di raggiungere mediante il processo integrativo e della condizione reale della popolazione con un passato migratorio (ossia immigrati di prima generazione, sia stranieri che svizzeri, e loro discendenti diretti o seconda generazione). Questi indicatori concernono i vari ambiti dell'integrazione: l'aiuto sociale e la povertà, la criminalità, la sicurezza, il razzismo e la discriminazione, la cultura, la religione e i media, l'educazione e la formazione, la famiglia e la demografia, la lingua, l'abitazione, il mercato del lavoro, la politica, la salute e lo sport.
Si tratta, ben’inteso di elementi che non rivestono tutti la stessa importanza, ma sono sicuramente utili per descrivere la situazione e stabilire il grado d’integrazione di singole categorie di persone, specialmente i giovani di seconda generazione, anche se le generalizzazioni sono sempre problematiche. Si pensi, ad esempio, alle conoscenze linguistiche. Esse rappresentano un fattore essenziale per una buona riuscita del processo d'integrazione nella società, nella formazione, nel mercato del lavoro, nella carriera professionale, ecc. Un altro indicatore, la partecipazione al mercato del lavoro, rappresenta anch’esso «una condizione essenziale – secondo l’UST - per l'integrazione nella società poiché permette di soddisfare autonomamente i bisogni primari e di partecipare ad altri ambiti della vita».

Concretezza e affidabilità
In concreto, per determinare il «grado d’integrazione» si mettono a confronto le differenze (e le similitudini) tra le situazioni dei vari sottogruppi che compongono la società, in particolare tra la popolazione senza passato migratorio (ossia svizzeri e stranieri di terza generazione) e i due sottogruppi costituiti dalle persone con passato migratorio di prima generazione e da quelle di seconda generazione.
Data la concretezza e l’affidabilità dei risultati ottenuti con metodo statistico dall'UST, questi indicatori costituiscono una base solida non solo per rispondere a domande generali sull'integrazione degli stranieri, ma anche per la definizione delle politiche d’integrazione da parte delle autorità competenti, per lavori di ricerca scientifica e per azioni mirate nel campo dell'integrazione.
Giusto per fare qualche esempio e senza entrare nei dettagli, desidero accennare ad alcuni risultati raggiunti dall'UST osservando la popolazione «con passato migratorio».

Alcuni esempi
Nel campo della formazione di grado universitario, in base ai dati più recenti risulta che gli stranieri della seconda generazione occupano una posizione nettamente inferiore (16,9%) sia rispetto a quella degli svizzeri nati in Svizzera (26,6%) o all'estero (28,8%) e sia rispetto agli stranieri nati all'estero (31,3%). Questi ultimi esprimono la tendenza più recente della politica svizzera d’immigrazione a preferire immigrati altamente qualificati.
Anche rispetto alle lingue parlate le differenze tra i gruppi di popolazione sono rilevanti. Nel 2010, l'uso di 2 o 3 lingue nazionali era da due a tre volte maggiore presso la popolazione con passato migratorio di seconda generazione (28,7%) rispetto a quello della popolazione senza passato migratorio (12,0%). Il 70,0% della popolazione con passato migratorio di prima generazione ricorre invece a una sola lingua nazionale come lingua principale.
Anche riguardo alle condizioni di vita materiale e alla povertà sono state osservate differenze significative tra le persone nate in Svizzera e quelle nate all'estero. Le persone nate all'estero dispongono generalmente di redditi inferiori alle persone nate in Svizzera. La difficoltà ad arrivare a fine mese è molto più elevata anche per gli stranieri nati in Svizzera che per gli svizzeri. Inoltre, per le persone nate all'estero è più alto il rischio di povertà.
Nel settore della «partecipazione al mercato del lavoro», malgrado una partecipazione pressoché analoga per le persone con e senza passato migratorio, l'UST ha costatato differenze significative per quanto concerne ad esempio il livello gerarchico: per la popolazione senza passato migratorio si contava il 35,5% di salariati con funzione dirigenziale, per la popolazione con passato migratorio il 30,5%.

In conclusione, gli esempi citati lasciano facilmente intendere che qualsiasi politica finalizzata all'integrazione non può prescindere dall'osservazione precisa della situazione e dalla messa in campo di strumenti e risorse adeguate a eliminare le differenze e garantire effettivamente anche agli stranieri pari opportunità di accesso e di partecipazione nei vari ambiti della società (fine).

Giovanni Longu
Berna, 29.05.2013

22 maggio 2013

Italia-Svizzera: integrazione e cittadinanza (seconda parte)


Nel precedente articolo su «Italia-Svizzera: integrazione e cittadinanza» (prima parte) del 15.5.20139 sostenevo che l’integrazione è la «principale condizione per la naturalizzazione», ossia per l’acquisizione della cittadinanza anche degli stranieri di seconda generazione. Per questo auspicavo per l’Italia un’efficace politica migratoria incentrata sull'integrazione. Mi suggeriscono queste considerazioni l’attuale dibattito sullo «jus soli», ma soprattutto la storia migratoria svizzera.

Per una politica d'integrazione efficace
La Svizzera è stata un Paese d’emigrazione ben prima dell’Italia. Fino al 1888 il suo saldo migratorio era negativo, ma anche nei decenni successivi si è continuato ad emigrare. Dalla fine dell’Ottocento, tuttavia, la Svizzera è divenuta un Paese d’immigrazione e ha dovuto confrontarsi col problema di un’alta percentuale di stranieri (attualmente 23,3%) sul suo territorio. Per cercare di risolverlo, da alcuni decenni ha adottato con successo una politica d’integrazione che sta dando i suoi frutti già nella seconda generazione di stranieri ma soprattutto in quelle successive.
L’Italia è stata molto più a lungo, per oltre un secolo, un Paese d’emigrazione di massa e solo da pochi decenni conosce il fenomeno inverso dell’immigrazione. Pur avendo (ancora) una bassa percentuale di stranieri, non c’è dubbio che anche in Italia gli immigrati (compresi i clandestini) costituiscono un serio problema che va ben gestito, con una efficace politica migratoria incentrata sull'integrazione. Quella tradizionale basata specialmente su misure di ordine pubblico e sul controllo delle frontiere dovrebbe essere quantomeno integrata e sostanziata con misure finalizzate all’integrazione degli stranieri presenti sul territorio.

Politica migratoria italiana
La politica migratoria italiana si basa essenzialmente sul «Testo unico sull’immigrazione» del 1998 e successive modifiche e integrazioni. In esso sono contenute le principali disposizioni «sull'ingresso, il soggiorno e l'allontanamento dal territorio dello Stato», sul riconoscimento dei «diritti e doveri dello straniero» e sulle finalità della politica d’integrazione degli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia.
Nella parte riguardante l’immigrazione si tratta per lo più di disposizioni amministrative e penali introdotte specialmente dalla famosa legge Bossi-Fini del 1999 e dal decreto legge sulla sicurezza del 2008. Esse regolano in particolare il controllo delle frontiere, l’ingresso nel territorio nazionale («consentito allo straniero in possesso di passaporto valido o documento equipollente e del visto d'ingresso…»), la gestione delle «quote massime di stranieri da ammettere nel territorio dello Stato», il contrasto delle «immigrazioni clandestine», l’espulsione («per gravi motivi di ordine pubblico o sicurezza nazionale», ma anche per ragioni amministrative), ecc.

Politica d’integrazione
Nella parte riferibile a una vera e propria politica d’integrazione, il Testo unico contiene alcune affermazioni di principio, che se attuate risulterebbero anche molto efficaci. Si parla ad esempio di un «accordo di integrazione» che lo straniero deve sottoscrivere al momento della presentazione della domanda di rilascio del permesso di soggiorno per il conseguimento di «specifici obiettivi di integrazione» nel periodo di validità del permesso di soggiorno.
Nonostante venga precisato che in questo contesto «si intende con integrazione quel processo finalizzato a promuovere la convivenza dei cittadini italiani e di quelli stranieri, nel rispetto dei valori sanciti dalla Costituzione italiana, con il reciproco impegno a partecipare alla vita economica, sociale e culturale della società», non è dato capire quali siano o possano essere concretamente gli «obiettivi specifici» dell’accordo e quali siano in definitiva gli obiettivi finali dell’integrazione.
Ci sono tuttavia nel Testo unico altre espressioni che contribuiscono a dare un’idea più precisa di questi obiettivi. Ad esempio là dove si parla di «interventi pubblici volti a favorire le relazioni familiari, l'inserimento sociale e l'integrazione culturale degli stranieri residenti in Italia, nel rispetto delle diversità e delle identità culturali delle persone, purché non confliggenti con l'ordinamento giuridico» (art. 3, comma 3).
Ancor più esplicito è l’articolo 42, in cui si precisano alcune «misure di integrazione sociale» quali: «la diffusione di ogni informazione utile al positivo inserimento degli stranieri nella società italiana in particolare riguardante i loro diritti e i loro doveri, le diverse opportunità di integrazione e crescita personale e comunitaria offerte dalle amministrazioni pubbliche e dall'associazionismo…» e ancora: «l'organizzazione di corsi di formazione, ispirati a criteri di convivenza in una società multiculturale e di prevenzione di comportamenti discriminatori, xenofobi o razzisti, destinati agli operatori degli organi e uffici pubblici e degli enti privati che hanno rapporti abituali con stranieri o che esercitano competenze rilevanti in materia di immigrazione».
Come si vede, il Testo unico sull’immigrazione può essere considerato una buona base di partenza per realizzare sul terreno gli obiettivi dell’integrazione. Si tratta di mettere in pratica tutte le misure indicate, coinvolgendo non solo gli enti pubblici (oggi in particolare il Ministero dell’integrazione), ma anche le associazioni professionali, istituzioni ecclesiastiche, associazioni ed enti privati attivi nell'assistenza e nell'integrazione degli immigrati.

Politica migratoria svizzera
Come detto, la Svizzera ha una lunga storia, fra l’altro interessantissima, di emigrazione e immigrazione. Per molti decenni ha sofferto per la partenza di molti suoi figli come mercenari e come lavoratori emigranti, fra l’altro anche in Italia, poi verso la fine dell’Ottocento è divenuta un Paese di immigrazione. Per lungo tempo la sua politica migratoria è consistita quasi esclusivamente nel controllo delle frontiere e nella gestione dei flussi immigratori attraverso accordi internazionali e leggi specifiche sull’ingresso e il soggiorno degli stranieri. Solo dagli anni Settanta del secolo scorso ha intrapreso la strada di una sempre più mirata politica d’integrazione.
I due testi fondamentali della nuova politica migratoria svizzera sono la legge federale del 2005 sugli stranieri e l’ordinanza del 2007 sull’integrazione degli stranieri. Alcuni articoli in particolare meritano di essere espressamente menzionati. Anzitutto l’articolo 4 della legge, intitolato «Integrazione»:
«1. L’integrazione mira alla convivenza della popolazione residente indigena e di quella straniera, sulla base dei valori sanciti dalla Costituzione federale, nonché sulla base del rispetto reciproco e della tolleranza.
2. L’integrazione è volta a garantire agli stranieri che risiedono legalmente e a lungo termine in Svizzera la possibilità di partecipare alla vita economica, sociale e culturale della società.
3. L’integrazione presuppone la volontà degli stranieri di integrarsi nella società e un atteggiamento di apertura da parte della popolazione svizzera.
4. Occorre che gli stranieri si familiarizzino con la realtà sociale e le condizioni di vita in Svizzera, segnatamente imparando una lingua nazionale».
L’ordinanza è ancora più esplicita e all’articolo 2 precisa:
1. L’obiettivo dell’integrazione è di garantire agli stranieri pari opportunità di partecipazione alla società svizzera.
2. L’integrazione è un compito trasversale svolto dalle autorità federali, cantonali e comunali assieme alle organizzazioni non governative, comprese le parti sociali e le associazioni degli stranieri.
3. L’integrazione avviene in primo luogo mediante le strutture ordinarie quali segnatamente la scuola, la formazione professionale, il mondo del lavoro e le strutture della sicurezza sociale e della sanità pubblica. È tenuto conto delle esigenze speciali di donne, bambini e giovani. Misure specifiche per stranieri sono adottate solo a titolo di sostegno complementare».

Sistema di indicatori e di verifiche
Come si può osservare, gli articoli citati definiscono in modo chiaro non solo gli obiettivi dell’integrazione, ma anche gli strumenti e le modalità di realizzazione. Ma quali sono i risultati? La chiarezza delle leggi e l’indicazione degli strumenti di applicazione non bastano infatti a definire una buona politica. Per questo è indispensabile una verifica ed è interessante osservare che, proprio in riferimento all’efficacia della politica migratoria svizzera, l’Ufficio federale di statistica ha elaborato e attuato un sistema di «indicatori dell’integrazione».
In un prossimo articolo presenterò alcuni risultati interessanti sicuramente per una valutazione della politica d’integrazione svizzera e forse per un confronto con la situazione italiana, anche se le popolazioni straniere nei due Paesi sono assai diverse.
Giovanni Longu
Berna, 22.05.2013

15 maggio 2013

Italia-Svizzera: integrazione e cittadinanza (prima parte)


Chiunque abbia o abbia avuto esperienze migratorie si può ben rendere conto dell’importanza e della delicatezza della discussione in atto in Italia sulla cittadinanza degli immigrati, soprattutto di quelli di seconda generazione. Un tema che non può essere risolto con una semplice modifica legislativa, ma va discusso e approfondito sotto molteplici aspetti, senza farne tuttavia un oggetto di scontro ideologico sui diritti fondamentali o sui principi di civiltà. Bisognerebbe affrontarlo con un certo pragmatismo. Occorrerebbe cioè domandarsi se le singole misure proposte siano adeguate, opportune e socialmente sostenibili.

Anzitutto mi pare essenziale un chiarimento terminologico, cominciando dal termine «diritto». E’ vero infatti che ogni essere umano ha fin dalla nascita una serie di diritti «naturali», ma non quello di cittadinanza, se non in una forma generica come capacità ad averne una. Anche la famosa «Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino» del 1789 (elaborata durante la Rivoluzione francese) esprime questa distinzione. Considerare dunque come una sorta di diritto naturale il riconoscimento della cittadinanza italiana a chi nasce in Italia è una forzatura senza fondamento.
Nelle società moderne e democratiche la fonte del diritto è essenzialmente la Costituzione e le leggi. Vien da chiedersi, con riferimento all'Italia, perché finora nessuna proposta di legge è giunta alla discussione e approvazione finale. Probabilmente perché nessuna risultava chiara e adeguata alla situazione. Temo che faranno la stessa fine le nuove proposte che, stando a fonti giornalistiche, vorrebbero addirittura introdurre una sorta di «jus soli», ossia il diritto di cittadinanza automatica per chi nasce sul territorio nazionale da genitori rispondenti ad alcuni requisiti.

Politica d’integrazione
Il tema della cittadinanza nei confronti degli stranieri domiciliati in Italia e soprattutto di quelli di seconda generazione, ossia nati in Italia, è tuttavia ineludibile per ragioni politiche e di opportunità. Anzitutto per ragioni politiche, perché nessuno Stato democratico può tollerare a lungo andare una quota eccessiva di stranieri (dotati generalmente di meno diritti dei cittadini). Ma soprattutto per ragioni di opportunità: è di gran lunga preferibile per una società fondata sul consenso e sulla collaborazione poter contare sul contributo della (quasi) totalità dei suoi componenti piuttosto che escluderne una parte, rischiando persino di privarsi di apporti importanti e di alimentare il dissenso.
Per risolvere il problema credo anzitutto ch'esso vada considerato all'interno di una moderna politica migratoria che l’Italia ancora non ha. Purtroppo molti Stati, tra cui la Svizzera e da qualche decennio anche l’Italia, hanno pensato unicamente a regolamentare gli ingressi con le varie leggi sull'immigrazione, introducendo contingenti, controlli e misure di polizia. La Svizzera da alcuni decenni ha imparato con grandi benefici che un’efficace politica migratoria, pur continuando a tenere sotto controllo i flussi (contrastando ad esempio ogni forma di immigrazione clandestina), deve fondarsi soprattutto sull'accoglienza e sull'integrazione degli immigrati.
Per questa ragione ho apprezzato molto nel nuovo governo italiano l’istituzione di un ministero dell’integrazione. A chi ne contesta l’opportunità bisognerebbe rispondere che l’integrazione è importante per gli immigrati, ma soprattutto per l’Italia. In un Paese non possono convivere a lungo pacificamente persone di serie A e di serie B. Tanto vale che siano tutte di serie A, ossia persone che si sentano accettate, rispettate e stimate, sebbene temporaneamente prive dei diritti politici.

Integrazione e cittadinanza
Una buona integrazione è anche una condizione fondamentale per divenire a tutti gli effetti cittadini nella pienezza dei diritti anche politici. In Svizzera si è molto discusso nei decenni passati se la naturalizzazione, ossia l’acquisizione della cittadinanza, sia da considerare più un punto di arrivo che un punto di partenza. Oggi sembra che non sussistano dubbi nel considerare l’integrazione, almeno in una misura essenziale, come la principale condizione per la naturalizzazione.
Cecile Kyenge, ministra per l'integrazione
Lungi da me dare suggerimenti alla ministra per l’integrazione Cecile Kyenge, ma conoscendo entrambe le situazioni, quella svizzera e quella italiana, non ho dubbi nel ritenere preferibile per l’Italia che si elabori dapprima e si implementi poi una condivisa ed efficace politica migratoria incentrata sull'integrazione. Tutto il resto (modificare leggi, cancellare reati, ecc.) sarà più facile.
Puntare invece, come sembrerebbe da certa stampa, sull'introduzione dello «jus soli» per chi nasce sul territorio nazionale mi pare un azzardo destinato a sollevare violente opposizioni (e data la situazione italiana non sarebbe proprio il caso!). Posso aggiungere che in Svizzera si è già tentata questa strada (un caso forse più unico che raro nella storia moderna delle politiche migratorie nazionali) e si è persino giunti ad adottare una legge federale che consentiva ai Cantoni (sovrani in materia di diritti civili) di applicare sul loro territorio il diritto di cittadinanza alla nascita (sia pure a certe condizioni). Ebbene, in forza di quella legge non c’è mai stata a quanto sembra alcuna naturalizzazione, per cui quella legge è stata abrogata.

Cittadinanza facilitata
Ciò che in Italia mi pare auspicabile è la facilitazione dell’acquisizione della cittadinanza italiana per i figli di stranieri già residenti stabilmente da un certo numero di anni e ritenuti in certa misura integrati. Per ottenere la cittadinanza di questi stranieri di seconda generazione potrebbe bastare, ad esempio, una semplice richiesta, visto che tutte le altre condizioni sono già adempiute dai genitori. In questo modo, forse, si potrebbero ritenere soddisfatti sia coloro che ritengono «giusto» che chi nasce in Italia venga considerato cittadino italiano, ma anche coloro che sono decisamente contrari alla concessione «automatica» della cittadinanza a chiunque nasca in Italia. Tanto più che in certi casi la cittadinanza italiana, diversa da quella del padre o della madre, potrebbe non essere desiderata o gradita.
Giovanni Longu
Berna, 15.05.2013

Roma ancora tentenna su Rubik



Per l’Italia il «modello Rubik» sembra davvero un rompicapo… e rischia di provocare danni irreversibili. Il governo Letta è ancora fermo ai blocchi di partenza. Eppure i «Saggi» di Napolitano lo hanno detto molto chiaramente: «Si propone al Governo di valutare l'opportunità di riprendere i negoziati bilaterali con la Svizzera per un accordo di trasparenza ai fini della tassazione dei redditi transfrontalieri di natura finanziaria, alla luce dei recenti sviluppi sul fronte della fiscalità internazionale (in particolare, degli accordi conclusi dagli Stati Uniti con vari paesi europei) sullo scambio di informazioni, nonché delle raccomandazioni del G8 e del G20 su questa materia; in parallelo, il Governo può attivarsi in sede UE affinché l’Unione stessa negozi un tale accordo, in nome di tutti gli Stati membri».

La proposta dei Saggi
La proposta dei «Saggi» mi pare legittima e utile e viene da chiedersi perché Roma ancora tentenna. Forse
per paura che dietro una «sanatoria» si nasconda un vero e proprio «condono tombale» nei confronti degli evasori fiscali che negli scorsi decenni hanno preferito depositare i loro capitali in Svizzera, evadendo il fisco italiano? Oppure perché si aspetta che sia l’Unione Europea a risolvere la vertenza non solo per l’Italia, ma anche per altri Paesi europei che hanno con la Svizzera un problema analogo? E’ probabile che a entrambe le domande si debba rispondere sì, ma è certo che quanto più tempo passa tanto più modesto sarà il risultato in termini monetari per l’Italia.
Semplificando la problematica, si tratta di ridefinire con l’Italia un accordo complessivo in materia fiscale che ha due risvolti: uno riguarda il passato e l’altro riguarda il futuro. Mentre per il futuro è sicuramente corretto che sia l’Unione Europea ad occuparsene per tutti i membri dell’UE, per quanto riguarda il passato mi sembra difficile che l’UE possa entrare nei dettagli di ciascun Paese.
Per il futuro si tratta essenzialmente di concordare a livello europeo uno scambio automatico dei dati fiscali e non sembrano più sussistere grandi opposizioni nemmeno da parte svizzera. Se infatti fino a pochi mesi fa il «segreto bancario» svizzero sembrava non negoziabile, ora la Svizzera non vi si oppone più a patto che la trasparenza riguardi tutti i Paese europei, compresi Austria e Lussemburgo, dove vige ancora una sorta di segreto bancario analogo a quello svizzero.

Rubik riguarda il passato
Per quanto riguarda il passato è evidente che ciascun Paese ha una sua propria vertenza, che andrebbe regolata bilateralmente. Per questo finora hanno regolato il passato Londra e Vienna, mentre Berlino ha tentato di regolarlo a livello governativo giungendo persino a un accordo, poi naufragato a livello parlamentare per l’opposizione dei socialdemocratici (non si sa bene se perché a loro sembrava indecente o semplicemente per far dispetto alla Merkel che ha molte probabilità di essere rieletta alle prossime elezioni tedesche d’autunno. Quanto agli altri due accordi va detto per inciso che Londra e Vienna già incassano fior di milioni dalla Svizzera.
Pur non essendo uno strenuo difensore del modello Rubik, credo che il tergiversare di Roma non giovi all’Italia. Del resto, anche la Germania, che ha meno urgenze di cassa dell’Italia, ha lasciato intendere tramite il suo ministro degli esteri, che con Berna «resta aperta la via di un’intesa fiscale» anche se «in questo momento non è possibile dire se verrà ripreso il piano svizzero Rubik oppure no (…)». Evidentemente il «no» lascia intendere che anche Berlino aspetta di vedere quali saranno gli sviluppi sul fronte dell’Unione europea, che è sicuramente interessata a nuovi accordi fiscali con la Svizzera».
Dal punto di vista svizzero, le idee sembrano chiare e in questi primi mesi dell’anno eminenti personalità, a cominciare dallo stesso Presidente della Confederazione, hanno affermato che la Svizzera non accetterà alcun diktat e tantomeno di «denunciare» persone che, pur avendo esportando capitali non dichiarati al loro Paese, non hanno violato alcuna legge svizzera.

Berna disponibile al negoziato
Riguardo al modello Rubik, ambienti politici e finanziari sembrano disponibili a discuterlo e adattarlo alle situazioni specifiche, non a stravolgerlo o abbandonarlo. Il 25 aprile scorso, in un’intervista al quotidiano svizzero «Le Temps», il presidente dell’Associazione svizzera dei banchieri (ASB) si è detto convinto che lo scambio automatico di informazioni è meno efficace dell’imposta liberatoria alla fonte, ossia il modello Rubik. Ciò che molti non hanno capito è che esso mira a regolarizzare i fondi depositati in passato nelle banche svizzere, non i depositi futuri. Per il futuro la Svizzera è infatti sempre più disponibile a uno scambio automatico di informazioni.
Osservando la lentezza della reazione italiana, francamente non si capisce perché non siano ancora ripresi i negoziati con la Svizzera. Eppure è evidente che man mano che passa il tempo c’è il rischio che dei capitali esportati illecitamente ne restino sempre meno nelle casseforti svizzere e pertanto che sia anche sempre minore il tesoretto che la Svizzera è disposta a restituire agli Stati interessati, tra cui l’Italia.
E’ pertanto auspicabile che i negoziati riprendano quanto prima, anche perché i tempi sembrano favorevoli.
Giovanni Longu
Berna, 15.05.2013

11 maggio 2013

Festa della mamma e riconoscenza sociale


La seconda domenica di maggio è tradizionalmente dedicata alla Festa della mamma. Ben venga almeno una volta l’anno l’occasione di omaggiare non solo le nostre mamme, ma «la mamma» e più in generale «la donna», che da che mondo è mondo incarna l’idea stessa di maternità. Purtroppo anche questa ricorrenza, come quella del 1° maggio dedicata al lavoro, più che un evento da festeggiare dovrebbe essere stimolo alla riflessione sul disagio sociale e sulla crisi delle famiglie.

Mi riferisco specialmente alla situazione italiana, dove le mamme sono le più colpite. Sono le prime ad essere licenziate, le prime a far fronte a una eventuale riduzione del bilancio familiare, le prime a fare rinunce. Spesso, purtroppo, sono anche le prime a rinunciare a ulteriori maternità perché i figli costano troppo!

Mancanza di una vera politica familiare
Anche in Svizzera, dove la situazione è comunque molto migliore di quella italiana, secondo una recente statistica, in una coppia con uno o più figli sotto i 25 anni, l’88% dei padri svolge un’attività professionale a tempo pieno, ma solo il 17% delle madri. Il 61% delle madri svolge un’attività professionale a tempo parziale, mentre la percentuale dei padri si ferma al 7,8%. E’ ancora molto diffusa l’opinione che il lavoro fuori casa delle madri sia solo accessorio e complementare a quello degli uomini e non un diritto.
In questi ultimi anni, i media italiani, troppo attratti dai giochi spesso indecorosi della politica, hanno sottovalutato e trascurato (salvo sbattere in prima pagina casi di femminicidio e infanticidio) il crescente disagio delle famiglie, la piaga della disoccupazione giovanile, i tanti giovani adulti costretti a stare in casa perché senza lavoro, la carenza di adeguate strutture di assistenza e di sostegno (consultori, asili nido, doposcuola, ecc.). La politica familiare sta accumulando gravi ritardi, fatta eccezione per le detrazioni fiscali per i figli a carico.
La famiglia dovrebbe tornare al centro dell’attenzione e dell’azione politica, come in diversi articoli prevede la Costituzione italiana. Ne cito uno per tutti (art. 31): «La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità e l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo». C’è ancora molto da fare.

La mamma è come un albero grande
Diceva una vecchia poesia (di Francesco Pastonchi) che mia mamma mi recitava quand’ero bambino: «Una mamma è come un albero grande / che tutti i suoi frutti dà: / per quanti gliene domandi / sempre uno ne troverà. / Ti dà il frutto, il fiore e la foglia, / per te di tutto si spoglia, / anche i rami si toglierà…». Per questo, credo, nessun figlio dovrebbe mai sottrarsi al dovere della riconoscenza, ma nemmeno la società. Mettere al mondo dei figli, accudirli, educarli e farli crescere, è una funzione altamente sociale e una responsabilità enorme, che comporta soprattutto nelle mamme grandi sacrifici e rinunce. Per questo esse meritano anche la solidarietà e la riconoscenza sociale.
Una forma moderna di solidarietà dovrebbe consistere anzitutto in un ripensamento profondo dell’attuale distribuzione del lavoro nella società e nell’ambito familiare, cominciando dalla stessa nozione di «lavoro», riservata abitualmente all’attività professionale fuori casa. Ancora oggi si esita a considerare «lavoro» l’attività che svolgono in casa le mamme. Persino il noto giornalista ticinese di origine italiana Michele Fazioli, in un bel pezzo sul Corriere del Ticino («Piccolo elogio della madre casalinga»), tentenna tra «madre casalinga» e «madre lavoratrice» e scrive: «la madre che non lavora, diciamo la casalinga (…) dovrebbe essere valorizzata, dovrebbe essere riconosciuta come forza produttiva in senso morale ed economico…». A mio parere, bisognerebbe dire senza esitazione alcuna che anche l’attività domestica compiuta prevalentemente dalle donne è «lavoro», sebbene non retribuito. Del resto è quel che fa già da diversi anni l’Ufficio federale di statistica (UST) quando calcola il valore monetario del lavoro casalingo non remunerato, mettendolo in relazione con il valore aggiunto lordo totale della Svizzera.

I «lavori domestici»
Ritengo un errore e un difetto che nell'opinione pubblica non si sia ancora riusciti a rivalutare adeguatamente anche sotto l’aspetto reddituale l’educazione dei figli, l’assistenza ai membri bisognosi di una famiglia, le attività per mandare avanti una casa e una famiglia. Eppure basterebbe pensare al costo di un’attività di assistenza ad un familiare bisognoso, qualora, invece di essere svolta da una persona di famiglia, generalmente una donna, venisse affidata a un o una badante. Lo stesso esempio si potrebbe applicare per analogia a quasi tutte le altre attività svolte dalle donne nell'ambito familiare (pulizie di casa, cura dei bambini, ecc.).
Un altro aspetto concreto della solidarietà, soprattutto tra le coppie, sarebbe una nuova e più equa ripartizione dei lavori domestici. Da una recente statistica risulta che in Svizzera, dove la situazione è per diversi aspetti migliore di quella italiana, ben tre quarti delle donne viventi in famiglie composte da coppie con figli di età inferiore a 15 anni assumono da sole la responsabilità principale per i lavori domestici. E’ vero che oggi si registra un numero crescente di coppie (soprattutto tra i giovani) che assicurano la gestione congiunta della casa, ma quando si raggiungerà un giusto equilibrio?
Ci vorrà sicuramente del tempo perché comporta un cambiamento di mentalità, ma occorre cominciare subito. Altrimenti ad ogni «festa della mamma» ci si ritroverà con gli stessi problemi.
Giovanni Longu
Berna, 11 maggio 2013

08 maggio 2013

Alla culla della Confederazione


Sabato 27 aprile, nonostante un tempo per nulla primaverile, circa 40 allievi dell’Università delle tre età di Soletta hanno partecipato a una escursione culturale attorno al Lago dei Quattro Cantoni. Al termine di un corso finalizzato a conoscere meglio la Svizzera si è ritenuto utile andare a visitare sia pure velocemente i luoghi che hanno visto nascere la Confederazione.

Durante il corso, gli allievi avevano sentito parlare di Guglielmo Tell, dei tre Cantoni primitivi (Waldstätte) Uri, Svitto e Untervaldo, del Patto del Grütli, delle lotte per l’indipendenza dagli Asburgo, delle battaglie di Morgarten e di Sempach, del formarsi della Confederazione. Ma si sa fin dai tempi di Aristotele che l’informazione resta ancor più viva se legata a immagini visive. Per questo è stato organizzato il giro attorno al Lago dei Quattro Cantoni, fra l’altro una delle regioni più belle e più visitate della Svizzera.
Evidentemente non è facile rendersi conto delle condizioni di vita degli uomini e delle donne che abitavano quei posti attorno al 1300, ma già osservando il territorio, costituito da strette vallate, fitti boschi e monti incombenti, si possono capire le difficoltà di comunicazione di allora, la limitatezza degli scambi, l’isolamento di quelle popolazioni abituate da secoli a contare esclusivamente sulle proprie forze e a vivere in pace.

Tra mito e realtà
Altdorf, Monumento a Guglielmo Tell
Gli allievi sapevano anche che alla morte dell’imperatore tedesco Rodolfo d'Asburgo (15 luglio 1291), da cui dipendeva politicamente quella regione, le popolazioni locali tentarono di coalizzarsi per sottrarsi al dominio straniero. Nel corso della gita, quando dalla cittadina di Brunnen si osservò dall'altra parte del lago il famoso «praticello del Grütli», fu per molti una sorpresa sentir dire dalla guida che nel 1291 su quel prato non fu stipulato alcun accordo, pur essendo vero che in quel periodo le popolazione di Uri, Svitto e Untervaldo erano alleate contro chi pretendeva di tenerle sottomesse. La formazione della Confederazione fu in realtà un processo lento e difficile.
Della leggenda di Guglielmo Tell si è avuto modo di parlare soprattutto ad Altdorf, davanti al celebre monumento al mitico eroe nazionale. Nel piedistallo della statua oltre alla dedica a Guglielmo Tell figurano due date: 1307 (in alto) e 1895 (in basso). Mentre quest’ultima ricorda l’anno dell’inaugurazione del monumento, la prima indica la credenza assai diffusa che l’inizio della Confederazione fosse da collocare nel 1307 e non nel 1291. Ma è strano che sul monumento fosse stata incisa quella data, sebbene fin dal 1891 il Consiglio federale avesse dichiarato ufficialmente il 1291 l’«anno di fondazione» della Confederazione.

Morgarten e Sempach
Sono invece fatti storici le battaglie di Morgarten, di cui si è visto un bell'affresco sul municipio di Svitto, e di Sempach, entrambe vinte dai confederati (ai tre Cantoni primitivi si era aggiunta nel frattempo Lucerna) contro gli Asburgo che non si rassegnavano a perdere i territori svizzeri. A ricordo di quest’ultima battaglia (1386), su una collina vicino alla cittadina omonima, fu edificata una chiesetta.
Monumento a Winkelried
Sul luogo della battaglia, appena fuori della chiesetta, fu eretto un monumento in granito in onore di un’altra Arnold von Winkelried. Secondo certi racconti molto posteriori, si sarebbe gettato contro il nemico che stava per sopraffare i confederati, attirando su di sé le lance dei cavalieri asburgici ma aprendo così una breccia che consentì agli svizzeri di dividere e poi sconfiggere gli avversari.
figura mitica della storia svizzera,
Il Winkelried era ritenuto originario di Stans, capitale di Nidvaldo, dove nel 1865 venne eretto in suo onore un monumento e dove esiste anche la presunta casa a lui appartenuta (Winkelriedhaus), oggi sede Museo della cultura e degli usi del Cantone Nidwaldo. La piazzetta centrale di Stans è dominata dalla chiesa parrocchiale dedicata a San Pietro, in stile neorinascimentale, al cui interno si trovano numerosi riferimenti alla storia svizzera, non sempre pacifica. Nel 1481, per comporre i forti disaccordi tra i confederati dei primi otto Cantoni svizzeri ed evitare una probabile guerra civile, proprio a Stans nel corso di un incontro dei vari rappresentanti intervenne autorevolmente San Nicolao della Flüe, originario di Flüeli nel Cantone di Obvaldo. A seguito del suo intervento pacificatore tutti i delegati firmarono un nuovo patto federale, la «Convenzione di Stans», che vietava qualsiasi aggressione fra Cantoni e obbligava ciascuno a intervenire in soccorso di un Cantone aggredito.

Religiosità diffusa
Una caratteristica di questa regione che durante la gita non poteva restare inosservata è sicuramente la diffusa religiosità. Impossibile non rilevare, attraversando in autobus gli abitati o visitando le varie città, gli innumerevoli segni della matrice cristiana di queste località. Ovunque si notano chiese, monasteri, croci, cappelle. E se la Confederazione è nata e si è formata in queste regioni attorno al Lago dei Quattro Cantoni, non deve meravigliare se la Costituzione federale comincia ancora oggi con l’invocazione «In nome di Dio Onnipotente». Anche il primo documento federale (1291) conservato nell'Archivio di Svitto comincia: «Nel nome del Signore, così sia».
Svitto, davanti al Rathaus
Purtroppo a Svitto non è stato possibile visitare l’Archivio dei Patti federali, ma credo sia stato sufficiente sostare nella piazza centrale (Dorfplaz) per respirare quell'aria che sa di antico di fronte al vecchio Municipio (Rathaus) o alla chiesa barocca di San Martino. Le pareti esterne del Municipio sono infatti rivestite di affreschi che raffigurano la Battaglia di Morgarten, il Patto del Grütli e altri momenti fondamentali della storia svizzera. Per non parlare della vecchia torre del XII-XIII secolo (Schtzturm), ma anche della bella chiesa di San Martino del secondo decennio del 700.

Lucerna
Quando si parla della Svizzera centrale inevitabilmente uno dei primi pensieri se non il primo va a Lucerna, la città più popolata e più importante della regione. Anche nella nostra gita ha rappresentato uno dei momenti principali e non bastano certo poche righe per rievocare le impressioni provate nella breve visita del centro storico.
Nel centro storico di Lucerna
Di questa città gli allievi del corso sapevano già molte cose, della sua storia antica preromana e romana e soprattutto moderna, ma anche dei suoi monumenti più celebri, a cominciare dal Ponte della Cappella (Kapellbrücke), in legno, coperto, lungo 204 metri. Ma è tutt’altra cosa calpestare quelle tavole antiche e osservare i dipinti superstiti del XVII secolo risparmiati da un terribile incendio del 1993. Come fa impressione camminare sotto l’enorme tetto del modernissimo Centro della Cultura e dei Congressi (KKL Luzern), a fianco della monumentale porta d’ingresso della stazione ferroviaria. Oppure addentrandosi nel centro storico che racchiude antichi palazzi, torri e fontane, sedi di vecchie corporazioni un tempo potenti e ricche, quando Lucerna dominava la via dei commerci tra Nord e Sud attraverso il San Gottardo.
Anche Lucerna conserva molti segni della sua origine cristiana cattolica. Due chiese in particolare meritano di essere qui ricordate, la Chiesa dei Gesuiti, che fu la prima chiesa svizzera in stile barocco e la Chiesa di San Leodegario (nota come Hofkirche). Durante la Riforma, Lucerna rimase cattolica. Nel 1845 guidò una lega di sette Cantoni cattolici e conservatori (Sonderbund), che volevano separarsi dai Cantoni protestanti radicali e liberali. L’intervento del generale Dufour, che sconfisse la lega cattolica, evitò la guerra civile e creò la premessa per scongiurarla per sempre. Nel 1848 fu infatti costituita la moderna Confederazione, che garantiva l’autonomia dei Cantoni. Lucerna, concorrente di Berna per divenirne capitale federale, non fu scelta per questa funzione, ma divenne ciononostante una delle città svizzere più conosciute a livello internazionale e una delle principali mete turistiche.
Giovanni Longu

01 maggio 2013

Primo Maggio delle Donne



Il Primo maggio è tradizionalmente la «festa del lavoro», ma forse mai come oggi, in molte parti del mondo, ci sono così poche buone ragioni per festeggiare. Infatti il lavoro scarseggia e il numero dei senza lavoro, soprattutto nelle società sviluppate dell’occidente, non fa che aumentare.

Il Primo maggio era chiamato «festa dei lavoratori» e si intendeva in primo luogo «degli uomini», dimenticando o mettendo in secondo piano le donne lavoratrici. In fondo, secondo un’arcaica concezione ancora diffusa anche nelle nostre società evolute, i veri titolari del lavoro sarebbero gli uomini, mentre le donne lo sarebbero solo a titolo accessorio. L’attività domestica, non essendo retribuita, non è considerata generalmente «lavoro».

Donne penalizzate
Che questa concezione sia ancora assai diffusa lo dimostrano gli effetti della crisi, anche in Italia: i licenziamenti o comunque la perdita del lavoro colpiscono più le donne degli uomini, i lavori occasionali concernono soprattutto i giovani e le donne, l’occupazione a tempo parziale è tipicamente femminile, anche se coinvolge sempre più anche uomini. Per non parlare dei salari (quelli delle donne sono generalmente più bassi di quelli degli uomini) e dell’accesso al credito (le imprese femminili incontrano molte più difficoltà di quelle degli uomini).
In Svizzera la situazione è molto migliore, ma anche in questo Paese, risparmiato finora dall'acutezza della crisi economica, le donne hanno di che lamentarsi. Anche qui, ad esempio, i salari delle donne sono generalmente inferiori a quelli degli uomini e sul mercato del lavoro incontrano maggiori difficoltà degli uomini. Per le donne fare carriera è molto più difficile che per gli uomini. Per le donne con famiglia, conciliare attività professionale e vita familiare è un’impresa sempre più ardua.
Secondo una recente statistica, in una coppia svizzera con uno o più figli sotto i 25 anni, l’88% dei padri svolge un’attività professionale a tempo pieno, ma solo il 17% delle madri. Il 61% delle madri svolge un’attività professionale a tempo parziale, mentre la percentuale dei padri si ferma al 7,8%.

Lavoro e responsabilità
La giornata del Primo maggio dovrebbe essere un’occasione di riflessione collettiva sulle problematiche del lavoro, sulla sua scarsità e precarietà, ma anche sulla sua distribuzione. Ci si dovrebbe anche interrogare sulle responsabilità della situazione, ma andrebbe evitato di riversarle come spesso accade unicamente sulla finanza internazionale, sui cosiddetti ma mai identificati poteri forti, sull'Europa, sul governo.
La società civile ha certo il diritto e il dovere di criticare e di sollecitare soprattutto lo Stato a fare di più (e si spera che il nuovo governo dia davvero ai problemi del lavoro la priorità assoluta che meritano), ma occorre anche saper fare autocritica. Purtroppo non si sente quasi mai parlare delle responsabilità delle imprese, dei sindacati e dei singoli cittadini. In tempi di crisi spetta anche agli individui cercare un lavoro o confezionarsene uno su misura e persino rendersi disponibili ad accettare almeno provvisoriamente qualunque attività equamente remunerata, purché non illecita.
In questa riflessione può essere utile anche ripensare la distribuzione del lavoro non solo nella società, ma anche tra uomo e donna. Non si tratta di escogitare nuove teorie economiche o sindacali, semmai di adeguare quelle classiche alle nuove esigenze sociali. Si tratta anche di ripensare la ripartizione del lavoro tra uomo e donna in ambito familiare.

Per una nuova ripartizione del lavoro
Qualche anno fa fu lanciata in Svizzera un’iniziativa popolare che mirava sostanzialmente al raggiungimento di una diversa «ripartizione del lavoro» tra uomo e donna. Va detto subito che l’iniziativa non è mai andata in votazione perché non furono raggiunte le firme necessarie. Mi sembra tuttavia difficile negare che alcuni obiettivi esprimevano esigenze molto sentite. Ad esempio, si chiedeva che la Confederazione, cioè lo Stato, adottasse misure affinché «tutte le donne e tutti gli uomini in età lavorativa possano provvedere al loro sostentamento mediante un lavoro retribuito svolto a condizioni adeguate, in particolare attraverso la riduzione degli orari lavorativi e la promozione di forme differenziate di ripartizione del lavoro», e inoltre: «sia consentita, senza pregiudizi di ordine sociale e professionale, una ripartizione paritaria fra i sessi delle attività lavorative non retribuite socialmente necessarie, come pure dei servizi resi nell'interesse della comunità».
Nell'iniziativa si faceva riferimento anche alla disuguale «ripartizione fra i sessi delle attività lavorative non retribuite socialmente necessarie». Il riferimento era chiaro anche se non esplicito. Si pensi alla condizione «normale», ancora oggi, nella ripartizione dei compiti in ambito familiare quando ci sono bambini: è quasi sempre la donna che rinuncia (o è costretta a rinunciare) all'attività professionale o a ridurre il suo grado di occupazione, mentre il padre continua a svolgere un’attività remunerata a tempo pieno.

Rivalutare il lavoro domestico
Sarebbe anche ora di smettere di considerare «lavoro» solo l’attività professionale remunerata e non anche tutta l’attività domestica compiuta prevalentemente dalle donne. Il fatto che essa non venga remunerata non sminuisce affatto l’importanza, il valore e la professionalità del lavoro domestico. E’ semmai un errore e un difetto che non si sia ancora trovata la maniera e la misura per valutare adeguatamente sotto l’aspetto reddituale l’educazione dei figli, l’assistenza ai membri bisognosi di una famiglia, le attività per mandare avanti una casa e una famiglia.
Basterebbe pensare al costo di un’attività di assistenza ad un familiare bisognoso, qualora, invece di essere svolta da una persona di famiglia, generalmente una donna, venisse affidata a un o una badante. Lo stesso esempio si potrebbe applicare per analogia a quasi tutte le altre attività svolte dalle donne nell'ambito familiare, catalogate abitualmente come «domestiche».
La contabilizzazione delle attività casalinghe sotto l’aspetto reddituale, oltre che rispondere a un principio di giustizia, comporterebbe anche un altro vantaggio non indifferente: le attività domestiche acquisterebbero di valore e a nessuno verrebbe più in mente di considerarle meno importanti o addirittura meno utili di quelle cosiddette professionali svolte fuori casa.

Cambio di mentalità
Mi rendo conto che questo cambio di concezione del lavoro domestico comporta un vero e proprio cambio di mentalità, ma anche la crisi spinge in questa direzione. Per fortuna sempre più coppie, soprattutto giovani, assicurano la gestione congiunta della casa. Il Primo maggio potrebbe essere una buona occasione per riflettere seriamente anche su questa problematica, comprendendo anche, perché no, il dibattito in corso sul reddito minimo garantito, sul reddito esistenziale, sul reddito di cittadinanza, sul quoziente familiare e concetti simili. Contribuirebbe a un cambio di mentalità sempre più urgente e necessario.
Giovanni Longu
Berna, 1° maggio 2013