Il Primo maggio è tradizionalmente la «festa del lavoro», ma
forse mai come oggi, in molte parti del mondo, ci sono così poche buone ragioni
per festeggiare. Infatti il lavoro scarseggia e il numero dei senza lavoro,
soprattutto nelle società sviluppate dell’occidente, non fa che aumentare.
Donne penalizzate
Che questa concezione sia ancora assai diffusa lo dimostrano
gli effetti della crisi, anche in Italia: i licenziamenti o comunque la perdita
del lavoro colpiscono più le donne degli uomini, i lavori occasionali concernono
soprattutto i giovani e le donne, l’occupazione a tempo parziale è tipicamente
femminile, anche se coinvolge sempre più anche uomini. Per non parlare dei
salari (quelli delle donne sono generalmente più bassi di quelli degli uomini)
e dell’accesso al credito (le imprese femminili incontrano molte più difficoltà
di quelle degli uomini).
In Svizzera la situazione è molto migliore, ma anche in
questo Paese, risparmiato finora dall'acutezza della crisi economica, le donne hanno
di che lamentarsi. Anche qui, ad esempio, i salari delle donne sono
generalmente inferiori a quelli degli uomini e sul mercato del lavoro
incontrano maggiori difficoltà degli uomini. Per le donne fare carriera è molto
più difficile che per gli uomini. Per le donne con famiglia, conciliare
attività professionale e vita familiare è un’impresa sempre più ardua.
Secondo una recente statistica, in una coppia svizzera con
uno o più figli sotto i 25 anni, l’88% dei padri svolge un’attività
professionale a tempo pieno, ma solo il 17% delle madri. Il 61% delle madri svolge
un’attività professionale a tempo parziale, mentre la percentuale dei padri si ferma
al 7,8%.
Lavoro e responsabilità
La giornata del Primo maggio dovrebbe essere un’occasione di
riflessione collettiva sulle problematiche del lavoro, sulla sua scarsità e
precarietà, ma anche sulla sua distribuzione. Ci si dovrebbe anche interrogare
sulle responsabilità della situazione, ma andrebbe evitato di riversarle come
spesso accade unicamente sulla finanza internazionale, sui cosiddetti ma mai
identificati poteri forti, sull'Europa, sul governo.
La società civile ha certo il diritto e il dovere di criticare
e di sollecitare soprattutto lo Stato a fare di più (e si spera che il nuovo
governo dia davvero ai problemi del lavoro la priorità assoluta che meritano),
ma occorre anche saper fare autocritica. Purtroppo non si sente quasi mai
parlare delle responsabilità delle imprese, dei sindacati e dei singoli
cittadini. In tempi di crisi spetta anche agli individui cercare un lavoro o
confezionarsene uno su misura e persino rendersi disponibili ad accettare
almeno provvisoriamente qualunque attività equamente remunerata, purché non
illecita.
In questa riflessione può essere utile anche ripensare la
distribuzione del lavoro non solo nella società, ma anche tra uomo e donna. Non
si tratta di escogitare nuove teorie economiche o sindacali, semmai di adeguare
quelle classiche alle nuove esigenze sociali. Si tratta anche di ripensare la
ripartizione del lavoro tra uomo e donna in ambito familiare.
Per una nuova ripartizione del lavoro
Qualche anno fa fu lanciata in Svizzera un’iniziativa
popolare che mirava sostanzialmente al raggiungimento di una diversa «ripartizione
del lavoro» tra uomo e donna. Va detto subito che l’iniziativa non è mai
andata in votazione perché non furono raggiunte le firme necessarie. Mi sembra tuttavia difficile
negare che alcuni obiettivi esprimevano esigenze molto sentite. Ad esempio, si
chiedeva che la Confederazione, cioè lo Stato, adottasse misure affinché
«tutte le donne e tutti gli uomini in età lavorativa possano provvedere al
loro sostentamento mediante un lavoro retribuito svolto a condizioni adeguate,
in particolare attraverso la riduzione degli orari lavorativi e la promozione
di forme differenziate di ripartizione del lavoro», e inoltre: «sia
consentita, senza pregiudizi di ordine sociale e professionale, una ripartizione
paritaria fra i sessi delle attività lavorative non retribuite socialmente
necessarie, come pure dei servizi resi nell'interesse della comunità».
Nell'iniziativa si faceva riferimento anche alla disuguale «ripartizione
fra i sessi delle attività lavorative non retribuite socialmente necessarie».
Il riferimento era chiaro anche se non esplicito. Si pensi alla condizione
«normale», ancora oggi, nella ripartizione dei compiti in ambito familiare
quando ci sono bambini: è quasi sempre la donna che rinuncia (o è costretta a
rinunciare) all'attività professionale o a ridurre il suo grado di occupazione,
mentre il padre continua a svolgere un’attività remunerata a tempo pieno.
Rivalutare il lavoro domestico
Sarebbe anche ora di smettere di considerare «lavoro» solo
l’attività professionale remunerata e non anche tutta l’attività domestica
compiuta prevalentemente dalle donne. Il fatto che essa non venga remunerata
non sminuisce affatto l’importanza, il valore e la professionalità del lavoro
domestico. E’ semmai un errore e un difetto che non si sia ancora trovata la
maniera e la misura per valutare adeguatamente sotto l’aspetto reddituale l’educazione
dei figli, l’assistenza ai membri bisognosi di una famiglia, le attività per
mandare avanti una casa e una famiglia.
Basterebbe pensare al costo di un’attività di assistenza ad
un familiare bisognoso, qualora, invece di essere svolta da una persona di
famiglia, generalmente una donna, venisse affidata a un o una badante. Lo
stesso esempio si potrebbe applicare per analogia a quasi tutte le altre
attività svolte dalle donne nell'ambito familiare, catalogate abitualmente come
«domestiche».
La contabilizzazione delle attività casalinghe sotto
l’aspetto reddituale, oltre che rispondere a un principio di giustizia,
comporterebbe anche un altro vantaggio non indifferente: le attività domestiche
acquisterebbero di valore e a nessuno verrebbe più in mente di considerarle
meno importanti o addirittura meno utili di quelle cosiddette professionali
svolte fuori casa.
Cambio di mentalità
Mi rendo conto che questo cambio di concezione del lavoro
domestico comporta un vero e proprio cambio di mentalità, ma anche la crisi
spinge in questa direzione. Per fortuna sempre più coppie, soprattutto giovani,
assicurano la gestione congiunta della casa. Il Primo maggio potrebbe essere
una buona occasione per riflettere seriamente anche su questa problematica, comprendendo
anche, perché no, il dibattito in corso sul reddito minimo garantito, sul
reddito esistenziale, sul reddito di cittadinanza, sul quoziente familiare e concetti
simili. Contribuirebbe a un cambio di mentalità sempre più urgente e
necessario.
Giovanni Longu
Berna, 1° maggio 2013
Berna, 1° maggio 2013
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