Il 2014 è un anno di grandi anniversari, anche per la
collettività italiana in Svizzera, che ha ormai alle spalle una lunga storia migratoria
di oltre 150 anni. Ricordarne qualcuno, senza soffermarvisi troppo, può essere
utile per intravedere la lunga marcia dell’emigrazione italiana in Svizzera dalla
seconda metà dell’Ottocento ai giorni nostri. Si è trattato di un lungo
processo che ha visto cambiare non solo i protagonisti ma anche il significato
della loro permanenza in questo Paese.
I mutamenti sono stati talmente profondi che anche il
linguaggio ha dovuto adeguarsi. Se prima si parlava di espatriati, emigranti ed
emigrati, colonie italiane, oggi si parla di prima generazione, seconda
generazione, cittadini italiani all’estero, svizzeri di origine migratoria,
doppi cittadini svizzeri e italiani. L’attuale realtà rende estremamente
difficile definire e caratterizzare, sotto il profilo sociologico e culturale, la
«collettività italiana» e ancor più problematico tentare paragoni con situazioni
precedenti, anche non troppo lontane.
Le origini: 150 anni fa
L’Italia è sempre stata terra di emigranti e, purtroppo, lo
è ancora. Dico purtroppo perché anche la classe politica attuale sembra non
accorgersi dell’enorme perdita di risorse umane rappresentata dalla fuga (il
termine mi pare appropriato) di giovani talenti dall’Italia, molto spesso senza
prospettive di ritorno.
Si cominciò a partire già 150 anni fa, soprattutto dal
Meridione, per sfuggire alla miseria e alla cattiva politica. Gran parte degli
emigranti si dirigeva verso le Americhe, ma molti, soprattutto quelli delle
regioni del Nord, si fermarono in Europa. Molti sono venuti in Svizzera, perché
qui l’offerta di lavoro era abbondante.
Gli emigranti lasciavano il loro paese in cerca di fortuna,
per lo più ignari della vita che li attendeva. Quasi ovunque la «fortuna» non
li accoglieva a braccia aperte, ma chiedeva loro braccia possenti, sacrifici spesso
disumani, molta fatica e sottomissione. Per questo i primi emigrati soffrivano
così tanto di nostalgia e di rabbia allo stesso tempo, ma dovevano resistere
per poter campare e tirar su famiglia.
I danni dell’emigrazione, soprattutto quella dal
Mezzogiorno, furono enormi. Alla politica dissennata di allora (e successiva) e
all’esodo massiccio di manodopera giovane oggi si addebitano, almeno in parte, l’abbandono
delle campagne, il calo demografico, lo sfascio idrogeologico,
agricolo-produttivo e socio-culturale, il divario persistente tra Nord e Sud.
L’immigrazione italiana in Svizzera
Gli immigrati italiani venuti in Svizzera prima della prima
guerra mondiale hanno fatto un po’ di fortuna, ma hanno fatto soprattutto la
fortuna di questo Paese.
Nel 1848, quando nacque lo Stato federale, la Svizzera
accusava un forte ritardo nei confronti degli altri Paesi europei in materia di
trasporti, di produzione industriale e di commercio. Quando decise di dotarsi
di una rete ferroviaria moderna, indispensabile per ogni ulteriore sviluppo, mancava
la manodopera necessaria e dovette far ricorso a quella straniera.
Gli italiani accorsero numerosi e soprattutto grazie al loro
lavoro si realizzarono quei capolavori di ingegneria ferroviaria che sono le lunghe
gallerie transalpine. In alcuni cantieri la manodopera era costituita quasi al
100% da italiani, ritenuti per quel genere di lavori insostituibili. Per
questo il loro numero cresceva. Se nel 1880 erano poco più di 40.000
(senza contare gli stagionali), nel 1900 erano quasi 120.000 e dieci anni più
tardi, nel 1910, oltre 200.000.
La Svizzera 100 anni fa
A crescere, tuttavia, non era solo il numero degli italiani
(e degli stranieri in generale), ma era soprattutto la Svizzera, che all’inizio
della prima guerra mondiale possedeva una rete ferroviaria tra le più fitte ed
efficienti del mondo, un sistema bancario sviluppato, un apparato industriale e
commerciale competitivo, un turismo in crescita. Naturalmente il prezzo di
tanto progresso è stato alto: condizioni di lavoro e salariali dure, orari di
lavoro che andavano fino a 90 ore settimanali, assicurazioni sociali
inesistenti o carenti, separazioni familiari, ecc.
Per rendere evidente il successo economico della Svizzera,
cento anni fa, nel 1914, venne organizzata a Berna una grande esposizione
nazionale «per la promozione delle esportazioni» con circa 8000 espositori.
Fu un successo, non effimero. La Svizzera si vedeva proiettata verso la
modernità e il benessere generalizzato, un’isola felice, mentre tutt’intorno
aleggiavano venti di guerra.
Per il lavoro compiuto i lavoratori italiani ricevevano il
salario convenuto, sempre piuttosto scarso rispetto alle difficoltà e ai
pericoli affrontati, ma sempre superiore a quel che avrebbero potuto ottenere
in Italia. Dalle autorità e dai datori di lavoro erano molto apprezzati. Tra la
popolazione indigena, invece, erano spesso isolati, derisi, umiliati e offesi
persino con atti di violenza gravi. Erano «cinkali», o addirittura
invasori che portavano via il lavoro e le abitazioni agli indigeni. Erano
manodopera mobile, «à la carte», da usare quando e dove conveniva, al massimo «ospiti»
giusto per il tempo che servivano. Non erano integrabili, per cui dovevano vivere
in «colonie» isolate. Nella Svizzera tedesca di loro si parlò come di un
grave problema e si inventò l’espressione «il problema degli italiani» (die
Italienerfrage), prima ancora che si parlasse del «problema degli
stranieri» (die Ausländerfrage). Erano gli inizi della xenofobia nei
confronti degli italiani.
Con lo scoppio della prima guerra mondiale divenne
prioritaria la difesa del Paese. Il problema degli stranieri e degli italiani
in particolare venne rimandato.
La xenofobia di 50 anni fa
Chiuso, con la fine della seconda guerra mondiale, il
difficile periodo tra le due guerre, e messa a tacere (almeno così si sperava)
la questione degli stranieri con l’approvazione di un’importante legge nel
1931, per la Svizzera iniziava un lungo periodo di sviluppo senza precedenti.
Anche in questa fase, almeno per alcuni decenni, il
contributo italiano è stato determinante. Gli italiani arrivavano a ondate e
col loro lavoro sviluppavano la fitta rete dell’infrastruttura stradale e
autostradale, realizzavano a sostegno dell’industria, del commercio e del
benessere generale una vasta rete di impianti idroelettrici, creavano o trasformavano
interi quartieri urbani, costruivano ogni tipo di edifici pubblici,
commerciali, residenziali con centinaia di migliaia di abitazioni, governavano
ogni sorta di macchinari nei cantieri e nelle fabbriche per la produzione di beni
di consumo e d’esportazione.
Nel 1948, per regolare l’afflusso degli immigrati
italiani, su iniziativa dell’Italia venne firmato a Roma un accordo
italo-svizzero sull'immigrazione allo scopo di regolare il movimento
emigratorio tradizionale dall’Italia in Svizzera. Era un accordo minimalista e
pochi anni più tardi (1964) se ne dovette rinegoziare un altro che tenesse
meglio conto delle nuove esigenze degli italiani (migliori condizioni di lavoro
e salariali, assicurazioni sociali, scuole, formazione scolastica e
professionale della seconda generazione, integrazione, ecc.). Anche questo
accordo però non ebbe l’esito sperato, perché in alcune parti molto carente.
Nella realtà quotidiana, gli italiani continuavano a vivere
nelle loro «colonie» come fossero ghetti. Erano ancora considerati «ospiti», massa
di manovra, stranieri non integrabili, forestieri pericolosi
(inforestierimento, Überfremdung), utili per il lavoro, fonte di
problemi nella vita quotidiana a causa soprattutto del loro numero in continua
crescita, dei loro modi di vivere e delle loro esigenze (abitazioni, ospedali, chiese,
scuole per i loro figli).
Inutilmente avrebbero voluto gridare come nel film di Alexander
J. Seiler (1964) «Siamo Italiani», ma gli italiani allora non
avevano voce, sebbene a loro favore fosse intervenuto lo stesso Max Frisch,
uno dei più noti scrittori svizzeri. Fu lui a sintetizzare magistralmente la situazione degli immigrati e soprattutto degli italiani di quegli anni Abbiamo chiamato braccia… e vennero uomini». Gli
immigrati erano visti principalmente come una sorta di macchine umane, come
«forza lavoro», non come persone, con radici culturali e sociali, con
sentimenti e aspirazioni ad una vita familiare e sociale «normale».
con la celebre frase: «
Verso il futuro
Negli ultimi decenni le polemiche, le contrapposizioni e le
incomprensioni si sono via via attenuate per poi scomparire quasi del tutto. La
collettività italiana residente stabilmente in Svizzera è e si sente in larga
misura bene integrata e non sta certo ad aspettare la prossima visita a Berna
di Enrico Letta (o chi per lui) e forse nemmeno quella di Giorgio
Napolitano per sentirsi pienamente realizzata nella sua condizione
«italo-svizzera». Il futuro però può sempre riservare sorprese. E’ difficile,
ad esempio, decifrare le nuove ondate migratorie dall’Italia: meno di 6.000
arrivi dieci anni fa, più del doppio due anni fa. E’ comunque certo che le
condizioni migratorie generali di oggi sono incomparabilmente migliori di
quelle di 100, 50 o anche solo 30 anni fa.
Giovanni Longu
Berna, 29.01.2014
Berna, 29.01.2014
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