Da cent’anni, almeno, l’Italia vive periodi di forte emergenza lavoro. Oggi se ne parla come se la disoccupazione fosse una novità conseguente alla crisi finanziaria del 2008 e a quella economica e sociale successiva. Purtroppo la disoccupazione oltre quel tasso fisiologico (in genere poche unità percentuali), che è presente in tutte le società evolute, non abbandona l’Italia da almeno un secolo, anche se in certi periodi, per scelta politica (si pensi al fascismo) o per scelta «forzata», una parte della disoccupazione ha trovato sfogo nell’emigrazione.
Disoccupazione e malcontento
Sotto questo punto di vista, il flusso migratorio verso la Svizzera, dagli
ultimi decenni dell’Ottocento fino a una trentina di anni fa, è sempre stato un
buon indicatore della situazione occupazionale e sociale italiana. E’ così
possibile conoscere attraverso i flussi migratori verso la Svizzera il livello
di disoccupazione e di disagio sociale in Italia.
Cento anni fa, ossia poco prima che la forza lavoro venisse
assorbita dalle forze armate bisognose di «carne da cannone» per la grande
guerra, in Italia, specialmente nel Mezzogiorno, la disoccupazione era
spaventosa, forse più di quella attuale, ma accompagnata come quella attuale da
un grave malcontento per il degrado della politica.
Su un quotidiano dell’epoca (gennaio 1914) si poteva leggere
che «la disoccupazione laggiù [nel
Barese] è salita in modo impressionante. […] A Cerignola [località in provincia
di Foggia] si sciopera. A San Severo [altra località del Foggiano] si tumulta.
A Milano alle tavole di beneficenza si presentarono diecimila poveri: Milano,
la capitale morale d'Italia, non ha di che sfamare diecimila bocche! La
disoccupazione è ora diffusa per tutte le Provincie. Ricordiamo. A Suzzara [provincia
di Mantova] dal 25 al 50 per cento. A Ravenna dall'80 all’82. A Reggio da 50 a 80. A Pavia dal 15 al 25. A Milano da 8 a 15. A Piacenza, poi, su 7000
organizzati, 3000 non hanno da lavorare. A San Severo e Foggia da 30 a 60 l 'anno passato, a 60 e 70. A Bologna il 58. A Ferrara il 70: A Forlì
il 60. A
Rovigo il 50. E questa dolorosa statistica non è stata smentita in nessuna
intervista di giornali ufficiosi […]».
La
valvola dell’emigrazione
Andrebbe
aggiunto che la disoccupazione e il disagio sociale conseguente sarebbero stati
ben maggiori se una parte dei disoccupati non fosse emigrata: nel decennio
1905-1914 emigrarono (anche se molti poi ritornarono) non meno di 6.500.000
italiani, dei quali quasi 800.000 verso la Svizzera.
Sono
passati cent’anni e la situazione occupazionale non è molto migliorata. Anzi,
non lo è affatto, sebbene oggi non si tumulta più (persino i forconi delle
manifestazioni del dicembre scorso sono stati messi via) e quasi non si
sciopera nemmeno più, a parte le manifestazioni di protesta delle categorie di
lavoratori che si sentono particolarmente minacciate. E anche oggi, di fronte
alla mancanza di lavoro e alla mancanza di prospettive occupazionali almeno nel
breve termine, molti italiani hanno ripreso la via dell’emigrazione.
Già,
l’emigrazione! E’ sempre stata considerata una valvola di scarico delle
tensioni sociali prodotte spesso proprio dalla disoccupazione e dalla povertà.
Così era agli inizi del secolo scorso, così era persino nel periodo del «boom
economico» (tra la fine degli anni ’50 e gli inizi degli anni ’70) e così è,
almeno in parte, anche in questi ultimi anni di crisi, pur facendo tutte le
differenze del caso.
Se nel 1913
lasciarono l’Italia in 872.500 e negli anni ’50 e ’60 partivano ogni anno 200-300
mila italiani, lo scorso anno ad emigrare sono stati meno di 100.000 italiani. Si
tratta comunque di una bella cifra, significativa, fra l’altro, perché da
alcuni decenni gli italiani non emigravano più, ma accoglievano immigrati. Ma
la cifra è significativa soprattutto di un disagio sociale che nelle attuali
proporzioni era sconosciuto anche agli italiani più longevi.
Emergenza
lavoro nel dopoguerra
Quando il 2
giugno si è celebrata la Festa della Repubblica, ridando fra l’altro rilievo
alle sfilate e ai ricevimenti ufficiali, sia pure con maggiore moderazione
rispetto agli anni pre-crisi, si è ricordato soprattutto il passaggio dalla
monarchia alla repubblica col referendum del 2 giugno 1946. Si è invece sorvolato
sulla difficile situazione di allora, messa a nudo fra l’altro anche dal voto
degli italiani, che rivelò un’Italia spaccata in due, monarchica a sud e
repubblicana a nord e con prospettive di sviluppo assai diverse.
Alcide De Gasperi (1881-1954) |
Se ne rese
invece ben conto l’allora presidente dei ministri Alcide De Gasperi, che
mentre era ancora incerto l’esito del referendum, in un breve intervento alla
radio ricordò che non si era votato solo per la scelta tra monarchia e
repubblica, ma anche per l’elezione dell’Assemblea Costituente (556 deputati). Ebbene,
dopo aver tranquillizzato la popolazione perché «la legalità dei risultati è
garantita senza interferenza alcuna» (la paura di ingerenze esterne era
grande!) grazie soprattutto alla «volontaria collaborazione» tra tutte le forze
democratiche di maggioranza e minoranza, De Gasperi richiamò i due principali
problemi del momento: dapprima l’insediamento della Costituente e poi «quelli
più gravi del lavoro».
La Costituente
si mise subito all’opera in un grande clima di collaborazione. Il risultato, la
Costituzione repubblicana, è ancora oggi, a detta di molti, un capolavoro. Vale
la pena ricordare che si apre con una sintesi di straordinaria saggezza
politica e un richiamo molto impegnativo per i cittadini e per lo Stato: «L’Italia è una repubblica democratica fondata sul
lavoro». Purtroppo l’elemento più delicato dell’Italia repubblicana è ancora
oggi proprio il suo fondamento, il lavoro, sempre fragile, spesso insicuro,
precario, talvolta completamente assente.
Il governo
De Gasperi, è vero, aveva avviato subito la ricostruzione del Paese, creando
numerosi posti di lavoro e richiamando dall’estero ingenti investimenti,
indispensabili per la ripresa. Ma il lavoro restava per molti, soprattutto
meridionali, un’utopia. Esso era concentrato soprattutto al nord, mentre al sud
cresceva la disoccupazione e la povertà.
Promesse
non mantenute
Tutti i
governi del dopoguerra, soprattutto nei periodi elettorali, promettevano la
rinascita del Sud. Nel 1948,
in campagna elettorale, i democristiani avevano fatto
affiggere in tutto il Mezzogiorno un grande manifesto a colori con la scritta:
«Faremo del Mezzogiorno la California d’Italia». Qualche anno più tardi Giorgio
Amendola (PCI) rimprovererà al Governo di aver promesso «che avrebbe
risolto la questione meridionale con massicci investimenti pubblici (…). Il
fondamento sicuro di questa politica avrebbe dovuto essere il piano Marshall
che, secondo i propagandisti democristiani, avrebbe fatto del Mezzogiorno la
California d’Italia. Ma la realtà, ora che gli aiuti E.R.P. sono cessati,
fornisce un quadro sconsolante (…) L’Italia meridionale ha ottenuto solo le
briciole di questa torta e ha pagato a un prezzo estremamente caro i pochi
vantaggi conseguiti».
Può sembrare un paradosso, eppure si verificò in Italia
questa sorta di contraddizione: prima ancora che finisse la ricostruzione e si
avviasse dall’inizio degli anni ’50 un lungo periodo di espansione economica, aveva
ripreso a crescere, come all’inizio del secolo, il flusso migratorio verso
l’estero.
Per evitare le tensioni sociali l’emigrazione venne addirittura
favorita, persino con accordi ritenuti in seguito scandalosi, come quello col
Belgio (1946), con cui si garantivano minatori in cambio di carbone. Lo stesso
De Gasperi andava dicendo: «imparate una lingua e andate all’estero». Già nel
1946 lasciarono l’Italia non meno di 110.000 italiani, di cui quasi 49.000 raggiunsero
la Svizzera. Nel 1947 gli emigranti italiani erano già più del doppio: ben
254.000, di cui oltre 100.000 diretti in Svizzera. Il flusso migratorio continuerà,
praticamente inarrestabile, per circa un trentennio, segno evidente che
l’emergenza lavoro in Italia non era stata ancora superata.
Disoccupazione allarmante
Dalla metà
degli anni ’70 in Italia si registra una ripresa economica, gli italiani non emigrano
più in massa, altri stranieri cominciano ad arrivare, anzi a sbarcare, e le
opportunità di lavoro aumentano. La disoccupazione è sotto controllo, nonostante
tenda a salire fino al 2000, quando si avvia a una forte discesa fino al 2007.
Con l’avvento della crisi finanziaria prima e della crisi economica generale
dopo, il tasso di disoccupazione balza in pochi anni da poco sopra il 6% a
oltre al doppio. Il lavoro ridiviene un’emergenza, che genera malcontento
contro la politica (com’era già avvenuto un secolo fa), disagio sociale,
rischio accresciuto di povertà. e ripresa dell’emigrazione.
Le cifre sulla
disoccupazione italiana sono allarmanti: secondo statistiche ufficiali nel
primo trimestre di quest’anno il tasso generale di disoccupazione ha superato
il 13%, quello giovanile (dai 15 ai 24 anni) addirittura il 46%. Si tratta
complessivamente di 3,5 milioni di italiani, concentrati soprattutto nel
Mezzogiorno, dove i valori percentuali sono nettamente superiori: 21,7 la media
e 60,9 la disoccupazione giovanile.
Nonostante
la drammaticità della situazione che queste cifre rappresentano, ho la
sensazione che la situazione sia sottovalutata, oppure le statistiche non
dicono la verità. Sta di fatto che anche il dinamico governo di Matteo Renzi
non sembra considerare il livello della disoccupazione allarmante e tale da richiedere
una sorta di stato di emergenza occupazionale. Se tale venisse percepito si
dovrebbe investire il massimo delle risorse disponibili nella prospettiva di
una maggiore occupazione, senza aspettare la conclusione delle promesse riforme
strutturali, interventi salvifici dell’Unione Europea o una improbabile ripresa
del settore manifatturiero. Ritengo anzi un’illusione pensare ancora di poter
creare nuovi posti di lavoro nella manifattura.
Probabilmente
mancano le idee, una in particolare che dovrebbe fare da filo conduttore: oggi il
lavoro è garantito principalmente dall’înnovazione. A sua volta non ci può
essere innovazione se non si investe massicciamente nella formazione,
nella ricerca e nelle nuove tecnologie. Tanto vale puntare
decisamente verso altre mete, cominciando da una vera riforma della scuola e
dell’università, investendo massicciamente nella ricerca e nello sviluppo, defiscalizzando
tutti gli investimenti privati negli stessi campi e incentivando le assunzioni.
Così hanno fatto e fanno grandi e piccoli competitori dell’Italia. Perché non
seguirne l’esempio?
Giovanni
Longu
Berna, 18.06.2014
Berna, 18.06.2014
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