Il 1965 è stato un anno molto importante nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera, soprattutto per un evento tragico, ma non solo per quello.
Nel Vallese, a Mattmark, si stava costruendo una diga di
grandi dimensioni, poco al di sopra dei 2000 metri . Il 30
agosto 1965 nelle liste del cantiere figuravano oltre 600 persone, tra cui
più di 400 italiani, molti dei quali appena tornati dalle ferie di Ferragosto. Si
lavorava alacremente, a turni, perché il grosso dei lavori doveva essere ultimato
prima dell’inverno, quando non sarebbe stato più possibile tenere aperti i
cantieri per la neve e le intemperie.
Nulla lasciava presagire la tragedia incombente. Quattro
giorni prima era stato girato un filmato per il Cinegiornale svizzero e tutto
sembrava procedere secondo i piani prestabiliti con decine di bulldozer,
bagger, camion in movimento e centinaia di operai al lavoro.
La tragedia e l’illuminazione
Cantiere di Mattmark (maggio 1965) |
Persero la vita 88 persone, di cui 56 italiani, 23 svizzeri,
4 spagnoli, 2 austriaci, 2 tedeschi e un apolide. Pochi dei presenti sul quel cantiere
si salvarono. Uno di essi, uno dei pochi ancora in grado di descrivere i fatti,
il friulano Ilario Bagnariol,
frastornato dal rumore del suo bulldozer,
udì appena quel boato maledetto, ma vide dall'alto della morena su cui stava
lavorando tutto il disastro sottostante.
2010: Bagnariol (s.) indica il luogo dove si trovava al momento della tragedia |
I lavori di soccorso iniziarono immediatamente e
proseguirono per diversi giorni. Quando fu evidente che sotto quei cumuli di
ghiaccio e pietre non potevano più esserci sopravvissuti, si cominciò a
recuperare le salme. Il recupero richiese diversi mesi, anzi l’ultimo corpo
venne ritrovato e identificato quasi due anni dopo, pochi giorni prima
dell’inaugurazione della diga. L’identificazione delle vittime fu difficile e
penosa perché a volte si trattava di ricomporre corpi completamente maciullati.
L’effetto mediatico di quella catastrofe fu enorme. In poche
ore la notizia della catastrofe fece il giro del mondo. Era la disgrazia sul
lavoro più grande conosciuta dalla Svizzera. La tragedia di Mattmark ebbe un
impatto fortissimo sull’opinione pubblica svizzera, che forse per la prima
volta si rese conto della complessa realtà migratoria, che proprio in quegli
anni stava mutando profondamente.
Solidarietà e strumentalizzazione
Nell'apprendere la tragedia, L’Osservatore Romano, organo
del Vaticano, aveva esortato in una nota sotto il titolo «Lutto comune»: «più
urgente, più imperativo, più categorico, si rivela ora il dovere di solidarietà
per i superstiti. Bisogna consolare, riconfortare e soprattutto aiutare le
famiglie delle vittime. Che la società umana non si mostri avara nei confronti
di coloro che offrono al progresso tecnico il sangue vivente del sacrificio
della loro vita o dei loro sentimenti». Ci fu in effetti una gara di
solidarietà, soprattutto nel Vallese.
Ci furono anche tentativi di strumentalizzazione. Il cronista
Dario Robbiani, ad esempio, raccolse lo sfogo del viceconsole di Briga
Odoardo Masini, un uomo che si era prodigato in ogni modo per aiutare le vittime
e i sopravvissuti, riguardo a certe visite: «Poi sono arrivati i deputati e i sindacalisti
comunisti. Hanno detto che era colpa di questo e di quest'altro, che bisognava
costruire uno sbarramento di cemento armato per isolare il ghiacciaio, e contenere
la morena con muraglioni. Allora sono scoppiato: - Sì, adesso voi rimproverate
agli svizzeri di non aver messo il bichini al ghiacciaio. Non hanno più
parlato. Mi facciano il piacere: è perlomeno di cattivo gusto fare polemiche
del genere sopra ottantotto bare».
Stranieri, ma uomini
Come detto, in quegli anni la percezione dell’immigrazione
nell’opinione pubblica svizzera stava mutando profondamente, come stava mutando
la coscienza di centinaia di migliaia di immigrati insoddisfatti del loro stato
personale e sociale e desiderosi di un cambiamento radicale. Ci vorrà ancora
del tempo prima di giungere a risultati soddisfacenti, ma la strada era stata
tracciata.
Max Frisch (1911-1991) |
In effetti i discorsi sull’immigrazione stavano aprendosi a
considerazioni non solo economiche, ma anche sociali, culturali, politiche e
già si cominciava a intravedere la necessità di una nuova politica
d’integrazione degli stranieri.
Quella frase di Max Frisch, con tutto il discorso in cui è
inserita e, forse, una conoscenza più approfondita di quel periodo fondamentale
della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera andrebbero tenute presenti ogniqualvolta
si parla di lavoratori immigrati, clandestini, extracomunitari, ecc. Non
bisognerebbe mai perdere di vista che si sta parlando comunque e sempre di
«uomini», persone che hanno bisogni, sentimenti, un’anima, fratelli e sorelle
che contribuiscono a rendere più umane e più prospere le nostre società.
Benesse e stranieri
Lo stesso anno della tragedia di Mattmark, 1965, il grande pensatore
e saggista svizzero, Denis de Rougemont, pubblicava un libro, che sarà
tradotto in italiano col titolo: «La Svizzera. Storia di un popolo felice».
Quell’opera non aveva apparentemente nulla a che vedere con l’immigrazione, ma
sarebbe stato facile costatare che alla radice della «felicità» e della
«fortuna» non solo del popolo svizzero, ma anche di molti altri popoli, c’è
sempre il contributo di altri, stranieri e immigrati.
Giovanni Longu
Berna, 30 agosto 2013
Berna, 30 agosto 2013
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