Mi trovavo in Italia l’ultima settimana di luglio e la prima di agosto. Ero in vacanza con mia moglie nel litorale romagnolo per goderci un po’ di mare e visitare qualche bella località dell’interessante entroterra emiliano, naturalmente senza disdegnare la squisita cucina regionale. Ne ho approfittato anche per sentire dalla viva voce degli interessati il «clima sociale» di cui si legge e si sente tutti i giorni nei media, ma di cui non si può verificare la reale portata se non parlando con la gente.
Crisi evidente e diffusa
Il mio «campione», assolutamente casuale, pur non essendo
statisticamente significativo, era abbastanza rappresentativo, perché ho potuto
parlare con giovani e anziani, disoccupati e occupati, professionisti e piccoli
imprenditori. I miei interlocutori erano soprattutto vacanzieri come me, ospiti
dello stesso albergo, vicini di ombrellone in spiaggia e altre persone
incontrate per lo più casualmente.
Nei primi giorni di vacanza, almeno fino al 1° agosto, la
politica non era l’argomento dominante delle conversazioni, anzi avevo la
sensazione che proprio non interessasse, non so bene se più per disgusto o perché
considerata incomprensibile e comunque inutile. Si parlava del più e del meno, del
mare abbastanza pulito, del dilagare del fenomeno dei «vu cumprà» lungo tutto
il litorale romagnolo, del calo delle presenze rispetto agli anni precedenti, ma
anche dei prezzi contenuti per vitto e alloggio, delle prossime escursioni e
così via.
E’ vero qualche albergatore si lamentava che quest’anno, anzi ormai da due o tre anni, la clientela italiana è diminuita, solo in parte compensata da quella straniera, che vede in crescita soprattutto i russi. Per di più oggi sono sempre meno i vacanzieri che si fermano per più di una settimana e molti giovani devono accontentarsi purtroppo solo di qualche fine settimana. Del resto bastava osservare in spiaggia quanti ombrelloni restavano senza occupanti per diversi giorni o chiedere a qualunque reception per costatare come in tutti gli alberghi romagnoli ci fossero camere libere almeno fino alla prima settimana di agosto.
Disoccupati
senza rabbia
Poiché
credo che uno dei principali indicatori del benessere di un Paese sia la
formazione e l’occupazione dei giovani, ho cercato di capire, al di là dei
freddi numeri delle statistiche, quale fosse lo stato d’animo dei diretti
interessati.
All'inizio, nessuno sembrava disposto a parlare di «problemi»,
forse sperando di potersi godere in santa pace qualche giorno di vacanza, estraniandosi
per un attimo dalla dura realtà quotidiana. I drammi e le frustrazioni di
tantissimi giovani erano comunque evidenti, bastava chiedere loro come
vivessero la loro condizione, sia che fossero disoccupati che occupati precari.
I primi sembravano vicini alla disperazione, i secondi risentiti sentendosi
sfruttati e mal retribuiti, entrambi umiliati di dover ancora dipendere dalla
famiglia senza sapere fino a quando.
In quasi tutti i giovani incontrati, la preoccupazione
maggiore non era tanto legata alla condizione di disoccupati o di precari,
quanto piuttosto all’incertezza del futuro, alla mancanza di prospettive.
Di fronte a una situazione almeno apparentemente senza
sbocco, mi aspettavo, soprattutto dai giovani in cerca d’impiego, una forte
reazione di rabbia e d’indignazione. Ho costatato invece che il sentimento
predominante in questi giovani è la rassegnazione, un sentimento di impotenza con
solo un barlume di ottimismo: se il lavoro non c’è e nessuno lo crea (lo
Stato!) è inutile lottare, disperarsi, spaccare le vetrine o piangere dalla
mattina alla sera. Tanto vale aspettare che qualcosa succeda.
Giovani controcorrente
Ovviamente non tutti i giovani disoccupati restano in attesa
che qualcosa accada, anzi credo che la maggior parte di essi si dia da fare per
cercare e acchiappare al volo qualunque opportunità si presenti. Ho incontrato
due di questi giovani, che in comune hanno oltre alla giovane età l’ottimismo e
la costanza nella ricerca, Claudia e Mirco.
Claudia, ventenne, è una ragioniera che ha cominciato
la ricerca di un impiego prima ancora di finire gli studi. Ha inviato centinaia
di domande con tanto di «curriculum vitae», ha bussato alla porte di moltissime
aziende della regione emiliana in cui abita, si è sottoposta a numerosi
colloqui di lavoro. Invano. Eppure, mi ha detto, non cercava un posto da
ragioniera o un impiego d’ufficio, cercava semplicemente un lavoro, qualunque genere
di lavoro. Sorretta da una incredibile forza di volontà, non si è data per
vinta, anzi era certa che prima o poi qualche porta si sarebbe aperta.
La sua costanza è stata premiata. Qualche settimana prima
del nostro incontro ha ricevuto un’offerta di lavoro, che naturalmente ha subito
accettato. A pensarci bene, nell’ottica svizzera, si tratta di ben poca cosa,
per una ragioniera diplomata, un posto come operaia a tempo determinato e un salario di 500 € al mese. Non ho visto sul
volto di questa ragazza un’espressione di rabbia o di disgusto, anzi mi è
sembrata contenta, fortunata di avere almeno un lavoro e un piccolo reddito,
sufficiente per le spese personali visto comunque che continuerà a vivere in
famiglia.
Il suo amico
Mirco, 24 anni, è anch’egli uno di quelli che preferiscono tenere i
piedi per terra, piuttosto che indignarsi e non cercare di risolvere in qualche
modo i propri problemi. Senza tanti grilli per la testa, dopo la scuola
dell’obbligo ha preferito cercarsi un lavoro piuttosto che proseguire gli studi
e finire magari per ingrossare la fila sempre crescente dei disoccupati, senza
studi e con diplomi e lauree.
Non ha
perso occasione per svolgere qualsiasi attività, anche sporadica. Pur essendo
molto giovane, mi raccontava di aver svolto innumerevoli lavori occasionali e
persino una specie di apprendistato (per carità, nulla a che vedere con
l’apprendistato che si fa in Svizzera) come salumiere. Poi, finalmente, in un
grande magazzino dove mancava un macellaio, è stato di recente assunto a tempo
indeterminato come macellaio a 1000 € al mese.
«Tutto colpa della politica»
Claudia e Mirco, e probabilmente molti altri, riescono a
risolvere in questi modi il problema immediato di un’occupazione, anche se non è
quella per cui si erano preparati. Moltissimi giovani, tuttavia, sembrano aver
perso ogni speranza, attaccati soltanto a un vago senso di «attesa». Bisogna
che qualcosa accada, presto, per evitare l’assuefazione, come nel celebre romanzo
«Il deserto dei Tartari» di Dino Buzzati. Ma la classe politica, e anche quella
sindacale e imprenditoriale, si rendono conto del dramma di questi giovani, per
non parlare che di essi? Il dubbio è lecito, visto che si continua a cincischiare
su IMU, IVA, Berlusconi, macchine blu, aerei di Stato, primarie e quant'altro e
non si trovano le risorse sufficienti almeno per arrestare il declino dell’Italia
e ridare fiducia ai giovani.
Secondo un
parrucchiere, che sembra raccogliere ancora oggi la «vox populi», l’Italia è un
Paese che si sta chiudendo in sé stesso perché mancano le certezze e si sta
perdendo persino la speranza di un futuro migliore. Così le attività produttive
si riducono, la disoccupazione aumenta, è sempre più difficile garantire la
continuità alle attività artigianali (tutti vorrebbero fare qualcosa d’altro) e
intanto si allunga la fila dei disoccupati anche diplomati e laureati. Solo nel
Riminese, mi diceva, chiudono 3 attività al giorno. Qual è la causa? «E’ tutta
colpa della politica, bloccata dai processi di Berlusconi e dall'inattività del
Partito democratico».
Devo dire
che fino al 1° agosto di Berlusconi si sentiva parlare poco, ma era come la
quiete che precede la tempesta. Era infatti nell’aria l’imminente condanna
definitiva del Cavaliere per le note vicende di evasione fiscale, ma nessuno
osava anticipare il verdetto della suprema Corte di Cassazione.
E’ tempo
di rigenerazione
Dopo il 1°
agosto, naturalmente, l’oggetto del conversare è stata la sentenza capitale
riguardante Berlusconi, mettendo in luce ancora una volta uno dei tanti mali
dell’Italia di oggi, la spaccatura politica anche di fronte alla sciagura di un
Paese che non sa affrontare con la necessaria forza e coesione i gravi problemi
reali, che rischiano di deprimerlo e farne il fanalino di coda dell’Unione
Europea.
Su
Berlusconi ho sentito dire e letto di tutto e di più, come se si trattasse
dell’ago della bilancia di un assetto politico di per sé innaturale ma
senz'altro utile in questo momento di crisi. Ciò di cui si è sentito e scritto
poco è invece che Berlusconi rischia di diventare una sorta di alibi per
l’incapacità di un’intera classe politica di rigenerarsi. Del resto anche le
cosiddette «larghe intese» ne sono una prova.
Eppure
basterebbe ricordare che tutti gli Stati moderni sono debitori della
Rivoluzione francese, che ha reso tutti i «cittadini» uguali davanti alla
legge, abolendo privilegi, caste, nomenclature, apparati. Anche ai vertici
dello Stato dovrebbero esserci solo «cittadini» in servizio a tempo determinato
e mai a vita, secondo il principio che tutti sono utili, nessuno è indispensabile.
In Italia sembra
invece che si sia rimasti per molti versi al periodo preunitario, quando ai
vertici dei vari Stati c’erano le famiglie, i principi, i marchesi, i conti più
o meno inamovibili, anche se oggi i nomi sono diversi, partiti, caste, poteri,
ordini, leader e simili. Nemmeno la peste, diceva Manzoni, porta solo
disgrazie. Forse si può dire altrettanto della crisi che stanno subendo l’Occidente
e l’Italia in particolare, a condizione tuttavia che la rigenerazione, nei
valori e nei principi, cominci subito.
Giovanni
Longu
Berna, 21.08.2013
Berna, 21.08.2013
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