06 maggio 2015

Profughi di oggi come gli italiani di ieri?


In alcuni commenti sui continui sbarchi lungo le coste italiane, i «profughi» (preferisco chiamarli così e non «migranti») africani e asiatici sono stati paragonati ai «migranti» italiani del secolo scorso, in quanto anch’essi erano persone in fuga, se non dalla guerra da una condizione per loro insostenibile, erano alla ricerca di un avvenire migliore e spesso dovevano affrontare viaggi rischiosi. Il paragone, da certuni molto criticato, non è fuori luogo, pur essendoci sostanziali differenze da tener presenti in questo tipo di confronti.

Premesse essenziali
Anzitutto, quando si paragonano i profughi di oggi con i migranti italiani di ieri, ci si deve rendere conto che si sta cercando di mettere a confronto due realtà distanti fra loro oltre un secolo. Inoltre, sebbene esistano alcune analogie tra questi due fenomeni, non trovo appropriato che si confrontino «profughi» con «migranti».

Il naufragio della speranza, di Caspar David Friedrich
Quelli di oggi non sono propriamente «migranti» nel significato comune del termine che fa pensare generalmente a persone che, facendo uso della loro libertà di espatrio, si trasferiscono in un altro Paese alla ricerca di un lavoro e sperano di poter fare ritorno in patria in condizioni migliori. Quelli che sbarcano oggi sulle coste meridionali italiane (ma anche maltesi, greche, spagnole, ecc.), talvolta clandestinamente, sono nella stragrande maggioranza, «profughi» che fuggono da una realtà disperata perché funestata da guerre e carestie o in cui rischiano la vita per una persecuzione in atto e sono quindi in condizione di chiedere l’asilo ed essere accolti come «rifugiati».
I migranti italiani di oltre un secolo fa non erano profughi o rifugiati, perché non fuggivano né da un Paese in guerra né da un Paese dove rischiavano la vita a seguito di persecuzioni. In genere non erano nemmeno costretti a partire dalla miseria perché allora, come osservava nel 1901 il senatore Achille Visocchi, in Italia il lavoro non mancava, in particolare quello agricolo, ma erano spinti «dalla speranza e dalla voglia di guadagnare molto…».
Molti cercarono fortuna altrove anche perché il disagio sociale e la disperazione dovuti al malgoverno piemontese era divenuto insopportabile. In generale, tuttavia, i migranti italiani dell’Ottocento e inizio Novecento partivano verso le Americhe o verso alcuni Paesi europei, per motivi di lavoro, talvolta addirittura a richiesta, come nel caso dell’immigrazione italiana in Svizzera per la costruzione delle grandi trasversali transalpine. Inoltre, emigravano quasi tutti avvalendosi del diritto di espatrio che veniva loro riconosciuto dalle leggi dell’epoca, raramente in clandestinità.
Le differenze tra profughi di oggi e migranti italiani di ieri sono quindi notevoli e si commetterebbe un errore storico grossolano non tenerne conto. Eppure alcune analogie, come si vedrà, non possono sfuggire.

Analogie tra profughi di oggi e migranti italiani in partenza per le Americhe
Anzitutto, profughi e migranti hanno in comune la speranza di migliorare le condizioni di vita proprie e delle loro famiglie. Per entrambi è stata ed è questa la molla che li ha spinti e li spinge a partire, a sopportare viaggi disumani, a rischiare di non trovare la felicità inseguita. La speranza di trovar lavoro e far fortuna in fretta era talmente forte che i migranti italiani diretti nelle Americhe non venivano fermati nemmeno dalla prospettiva di un viaggio lungo e penoso e dall’incognita rappresentata dal Paese di destinazione, di cui molto spesso non sapevano nulla.
Per molti partenti, sosteneva nel 1888 il senatore Paolo Mantegazza, «l'America è ancora un mito, è un paese in cui si va per fare fortuna in breve tempo. I nostri emigranti non distinguono il Nord dal Sud, né New York da S. Paulo». Qualcosa di simile si potrebbe dire facilmente anche riguardo ai profughi di oggi. Ma le analogie non finiscono qui.
Anche il numero delle partenze è analogo. Oggi si parla di milioni di persone che dal Nord Africa, dall’Africa subsahariana e dall’Asia sono pronti a partire verso i Paesi europei, almeno inizialmente, per proseguire in seguito verso altri continenti. Ma quanti ricordano i milioni di italiani espatriati negli ultimi decenni dell’Ottocento e gli inizi del Novecento fino alla prima guerra mondiale? Ebbene si tratta di oltre 14 milioni. Anche allora una parte dei migranti si fermava in Europa, ma la maggior parte partiva per mete oltreoceano, soprattutto Argentina, Brasile e Stati Uniti.

Trafficanti di ieri e di oggi
Oggi da parte del governo italiano e della Commissione dell’Unione europea si dichiara la lotta agli scafisti, ai «trafficanti di disperati», ai «moderni schiavisti» (e si spera che abbia successo), ma forse molti non sanno che anche sulla prima ondata migratoria degli italiani verso le Americhe c’era chi lucrava sulla povera gente. Erano i cosiddetti «agenti di emigrazione», che reclutavano operai e contadini per conto di imprese e compagnie di navigazione, facendo balenare loro una volta giunti a destinazione facili fortune e ricchezze straordinarie. Ignoranti com’erano, molti si lasciavano illudere, racimolavano il denaro necessario e acquistavano i biglietti di viaggio.
Contro questi avidi faccendieri senza scrupoli che sfruttavano l’ingenuità e l’ignoranza di tanti contadini soprattutto meridionali si scagliò nel 1887 il vescovo di Piacenza oggi beato Giovanni Battista Scalabrini, definendoli «speculatori che fanno vere razzie di schiavi bianchi per spingerli, ciechi strumenti di ingorde brame, lontano dalla terra natale col miraggio di facili e lauti guadagni». Secondo Scalabrini essi non solo lucravano sul numero dei migranti che riuscivano a imbarcare, ma si rendevano in qualche modo responsabili anche del loro triste destino, non informandoli sufficientemente né sulla reale destinazione (condizioni climatiche e quant’altro) né sull’attività che avrebbero svolto. Infatti «l’agente può, nella miglior buona fede, mandare alla rovina tanta gente, non essendo egli obbligato ad avere cognizioni su questo punto, come vi sono obbligati per esempio gli agenti Svizzeri».
Monsignor Scalabrini  non era l’unico a contestare questi intermediari «inutili e dannosi», perché sfruttavano non solo i poveri migranti ma anche chi li richiedeva. Anche il governo ne era a conoscenza e dovette intervenire più volte presso i prefetti invitandoli ad essere più vigilanti. Gli agenti vennero poi aboliti definitivamente nel 1901.

Condizioni di viaggio disumane ieri come oggi
Anche le condizioni di viaggio di allora e di oggi presentano somiglianze impressionanti. Ricordava nel 1888 al Senato, nel corso della discussione della legge sull’emigrazione, il senatore Augusto Pierantoni: « ... Nella stazione di Genova tante volte vidi adunate in carovana emigrante le nostre classi operaie ed agricole giacere sul nudo sasso, dormendo sotto i portici, sotto gli alberi nella piazza ove sorge la statua di Cristoforo Colombo, aspettando l'agente di emigrazione e l'ora dell'imbarco. Quel triste spettacolo mi premeva il cuore…».
E un altro senatore, Pietro Manfrin Di Castione, riferiva qualche dettaglio delle condizioni di viaggio dei migranti che s’imbarcavano a Genova diretti alle Americhe:«La via crucis dell'esodo comincia dall'Italia (...). Chi in questi giorni si trova a Genova ed ha veduto anche per semplice curiosità l'imbarco di tante migliaia di individui, ed ha osservato il modo e le condizioni con cui sono lasciati partire, non ha potuto fare a meno di fremere di sdegno. I vapori partono carichi di carne umana, misurata a metri cubi (...). Tutti vogliono guadagnare sul povero emigrante, anche il Municipio di Genova….».
Purtroppo anche i rischi dei viaggi di oggi su barconi sgangherati non sono molto diversi da quelli che correvano i migranti italiani diretti in America. Anche allora per questo trasporto di carne umana venivano usati piroscafi vecchi, spesso già in disarmo, che potevano ospitare al massimo 700 persone, ma ne imbarcavano anche più di 1000. Erano chiamati «vascelli della morte» perché non davano alcuna garanzia di arrivare a destinazione. Di fatto i naufragi erano frequenti anche allora con centinaia, talvolta migliaia di morti, molti dei quali migranti italiani: 576 nel 1891, 549 nel 1898, 550 nel 1906, ecc.
Come si vede da questi cenni, esistono molteplici analogie tra i fuggitivi di oggi e i migranti italiani di ieri, anche se tra una realtà e l’altra è intercorso più di un secolo. Ricordare il passato, per lo più rimosso dalla memoria collettiva italiana, dovrebbe aiutare chiunque osserva il fenomeno degli sbarchi e dei profughi spesso abbandonati a sé stessi a indignarsi per come talvolta vengono trattate queste persone, per le soluzioni insoddisfacenti che sono state adottate a livello italiano ed europeo nei loro confronti, per i tentativi ignobili di scaricare su di essi la rabbia dei cittadini italiani più diseredati, come se fossero loro la causa del disagio sociale, della povertà e della disoccupazione che si sta espandendo oggi in Italia.
Gianni Morandi

Per una politica immigratoria lungimorante e sostenibile
Ha fatto bene Gianni Morandi a ricordare su Facebook le umiliazioni, le angherie, i soprusi e le violenze che hanno dovuto sopportare centinaia di migliaia di italiani, nel secolo scorso, andando a cercar fortuna e un futuro migliore per i propri figli in America, Germania, Canada...
Il ricordo del passato dovrebbe anche aiutare, secondo me, non solo a non fare agli altri quel che è stato fatto a tanti nostri connazionali, ma anche a considerare l’accoglienza dei profughi di oggi come una sorta di azione riparatrice dell’Europa opulenta, un tempo colonizzatrice di molti Paesi da cui fuggono oggi milioni di profughi, perché se in quei Paesi ci sono guerre, povertà, corruzione, sottosviluppo, non si può onestamente sostenere che l’Occidente sia totalmente esente da responsabilità dirette o indirette.
Resto tuttavia convinto che la miglior soluzione al problema di profughi, in generale, non sia «valutare l’uso della forza», come veniva proposto da più parti alla vigilia del vertice europeo di aprile sulla questione dei profughi, ma sia una politica di aiuto ampia e coordinata dei Paesi più industrializzati per lo sviluppo serio e durevole dei Paesi da dove si fugge, congiunta ad una moderna politica immigratoria lungimirante e sostenibile.
Giovanni Longu
Berna, 6.5.2015


29 aprile 2015

Svizzera: naturalizzazione agevolata per la terza generazione


Questa dovrebbe essere, finalmente, la volta buona. L’11 marzo scorso il Consiglio nazionale (CN) ha infatti approvato a stragrande maggioranza (122 sì, 58 no e 4 astensioni) un progetto di legge sulla naturalizzazione agevolata della terza generazione di stranieri, elaborato dalla Commissione delle istituzioni politiche (CIP-N) su una iniziativa parlamentare della consigliera nazionale italo-svizzera Ada Marra, in cui si affermava perentoriamente che «la Svizzera deve riconoscere i propri figli».

L’on. Ada Marra con Giovanni Longu
L’approvazione del CN, una delle due camere dell’Assemblea federale, non ha avuto un grande rilievo nei media e probabilmente non ha entusiasmato nemmeno Ada Marra, che attende ormai dal 2008 una decisione definitiva sulla sua iniziativa e dovrà ancora aspettare, non si sa quanto, il risultato finale. Il progetto dev’essere infatti ancora esaminato e approvato dal Consiglio degli Stati e spetterà poi al popolo svizzero dire l’ultima parola.
Chi conosce anche solo sommariamente l’iter legislativo svizzero sa bene che si tratta di un procedimento piuttosto lungo e laborioso. Nel caso specifico, poi, sette, otto o più anni rappresentano una durata accettabile, se si pensa che il tema della naturalizzazione agevolata per i figli e nipoti di immigrati (ossia giovani stranieri nati e cresciuti in Svizzera) è iniziata oltre un secolo fa.

Argomentazioni secolari
Nella motivazione della sua iniziativa, Ada Marra sosteneva che «la Svizzera deve riconoscere i propri figli e smettere di chiamare "straniere" persone che non lo sono. Infatti, le persone nate in Svizzera da genitori nati in Svizzera da genitori che hanno soggiornato per oltre vent'anni in Svizzera non sono più straniere: la maggior parte di loro conosce solo vagamente la lingua degli avi e non superebbe mai un esame linguistico teso a determinare se sono integrate nel Paese di cui hanno la cittadinanza. Le persone della terza generazione hanno (…) le radici in Svizzera, indipendentemente dalla realtà in cui vivono e dal loro livello socioeconomico. Sono il prodotto della realtà elvetica».
A ben vedere, le argomentazioni della Marra non sono né rivoluzionarie né del tutto originali. Qualcosa di simile si trova infatti già nelle motivazioni di una analoga iniziativa del 1912 con cui si chiedeva l’introduzione nella Costituzione federale del principio dello «jus soli», ossia il diritto alla cittadinanza svizzera per chi nasceva in Svizzera. Allora la questione era stata sollevata da una commissione di esperti in relazione al pericolo dell’«inforestierimento della Svizzera», ritenendo che un buon antidoto sarebbe stato proprio la naturalizzazione automatica di chi nasceva in Svizzera.
Alla base dell’iniziativa c’era un pensiero assai semplice: molti «stranieri» in Svizzera fin dalla nascita sono di fatto già «assimilati» o potrebbero esserlo facilmente, basterebbe concedere loro la naturalizzazione fin dalla nascita. Inoltre si riteneva, ragionevolmente, che riducendo con la naturalizzazione automatica il numero degli stranieri anche il problema dell’inforestierimento si sarebbe per così dire sgonfiato da solo. L’iniziativa, benaccolta negli ambienti politici, non fu portata avanti a causa della prima guerra mondiale, che impose altre priorità. Purtroppo anche dopo la guerra non venne più ripresa fino agli anni ’90 del secolo scorso e all’elaborazione di un progetto di legge respinto in votazione popolare nel 2004.
Osservo marginalmente che se le motivazioni a favore dell’iniziativa Marra non sono di per sé nuove, non lo sono nemmeno le argomentazioni contro la stessa iniziativa. Quando il consigliere nazionale dell’Unione democratica di centro (che in realtà è di destra) Hans Fehr obietta che non si deve compromettere la nazionalità elvetica (cha ha qualcosa di unico al mondo e fornisce molte libertà e diritti) e che a suo avviso il progetto mira soltanto a far calare massicciamente il tasso di stranieri in Svizzera, non dice nulla di nuovo rispetto alle obiezioni che venivano mosse all’iniziativa del 1912.

Verso una decisione storica
Occorre tuttavia sottolineare anche l’attualità e ragionevolezza dell’iniziativa di Ada Marra e della successiva proposta della CIP-N in quanto sono state recepite a mio avviso in misura più che sufficiente due istanze provenienti dal mondo politico e dall'opinione pubblica. La prima riguarda il meccanismo della naturalizzazione, che non dev'essere né automatico né troppo facile o troppo difficile, ma equo, rispondente a precise condizioni valide in tutta la Svizzera. La seconda istanza è quella di un’opinione pubblica ormai stanca degli atteggiamenti marcatamente xenofobi e sempre più orientata a considerare svizzeri a tutti gli effetti coloro che si sentono effettivamente tali fino ad apparire quasi ridicolo considerarli ancora «stranieri». Lo ha ribadito al CN a nome della CIP-N il socialista Andy Tschümperlin: «I nipotini degli immigrati non sono più stranieri. Non parlano più, o male, la lingua dei loro nonni e i legami con il paese di origine sono simbolici».
In base al progetto di legge approvato dal CN l'ottenimento della nazionalità elvetica dovrà avvenire secondo una procedura uniforme a livello nazionale e non in maniera automatica ma a richiesta, in quanto l’interessato o i suoi genitori dovrebbe o dovrebbero farne esplicita richiesta. In questa maniera è stato rimosso l’ostacolo principale che impedì l’approvazione dell’analogo progetto di legge nella votazione popolare del 2004.
Il progetto ora approvato sottolinea anche in maniera inequivocabile che la naturalizzazione agevolata presuppone nei candidati di essere bene integrati e che anche i loro genitori e persino i loro nonni abbiano (avuto) legami stretti con la Svizzera.
Allo stato attuale dell’iter parlamentare e della percezione del problema nell’opinione pubblica, tutto lascia ben sperare. Solo dopo l’approvazione definitiva si potrà comunque parlare di una decisione «storica» e l’aggettivo non dovrà sembrare esagerato se solo si pensa al tempo trascorso dalle prime discussioni oltre un secolo fa.
Giovanni Longu
Berna, 29.04.2015

UE in confusione tra profughi e migranti


I problemi della «migrazione» stanno diventando acuti non solo per l’Europa ma per il mondo intero. Sono milioni le persone in movimento, spesso in condizioni disumane, «alla ricerca - per citare Papa Francesco – della felicità» o comunque «di una vita migliore». Se finora questi spostamenti di masse avvenivano nella quasi totale indifferenza delle popolazioni non direttamente coinvolte, oggi, di fronte a episodi drammatici sempre più frequenti come i numerosi naufragi nel Mediterraneo, l’opinione pubblica mondiale è più consapevole dell’entità e della gravità del fenomeno. Le istituzioni sono prese di mira perché ritenute responsabili non tanto delle cause delle migrazioni, quanto piuttosto della cattiva o comunque insufficiente gestione del fenomeno.

UE in confusione
Per non parlare dell’inerzia delle Nazioni Unite, mi soffermo solo sulla pochezza degli interventi decisi la settimana scorsa dall’Unione europea (UE). Di fronte all'ennesimo dramma che si è appena consumato nel Mediterraneo tra la Libia e l’Italia, il governo italiano ha fatto bene a chiedere la convocazione urgente del Consiglio UE, ma non ha fatto nulla per provocare una seria discussione su una politica migratoria europea comune.
Considero questa mancanza grave perché l’Italia, più di qualsiasi altro Paese europeo, dovrebbe sapere che se la migrazione non è ben gestita può creare seri problemi politici e sociali non solo nei Paesi di partenza ma anche in quelli di transito e soprattutto di arrivo. Il fatto è che non avendo l’Italia alcuna linea guida in materia d’immigrazione non può nemmeno chiederla all’UE. E’ emblematica al riguardo la confusione terminologica tra migranti, clandestini, richiedenti l’asilo, profughi, rifugiati e altro ancora. Essa denota che non ci si rende conto che l’approccio nei confronti dei «migranti» non può essere lo stesso che si deve avere con i «profughi» e i «richiedenti l’asilo», per non parlare dei clandestini o infiltrati terroristi. Di fatto non esiste né in Italia né nell’UE una politica immigratoria comune.

«Triton» rinforzato, ma problemi di fondo irrisolti
L’ennesima conferma giunge dalla riunione straordinaria del Consiglio UE. Poco meno di due anni fa l’Italia e l’UE avevano varato la missione «Mare Nostrum» per fronteggiare l’emergenza umanitaria nel Mediterraneo (fino alle coste del Nord Africa) dove i naufragi di profughi erano frequenti. Nel novembre 2014 la missione Mare Nostrum è stata sostituita con l’operazione Triton, meno costosa e limitata al controllo delle acque territoriali italiane fino a 30 miglia nautiche dalla costa. Nella riunione del 23 aprile scorso, invece di affrontare l’esigenza di nuovo approccio globale al fenomeno, il Consiglio UE si è impegnato soltanto a rinforzare Triton (triplicandone il finanziamento) senza cambiarne sostanzialmente la missione, ossia pattugliare le coste italiane per impedire l’ingresso illegale nelle acque territoriali dell’UE.
In questo modo non si risolvono certo i problemi che stanno all'origine del fenomeno, anzi non si fa che aumentare la confusione e alimentare la disputa politica tra chi vorrebbe usare le maniere forti (respingimenti, affondamento dei barconi con l’impiego di droni, blocco navale sulle coste africane o addirittura con l’invasione della Libia) e chi non vuole sottrarsi agli obblighi del soccorso in mare (anche oltre le 30 miglia dalla costa), dell’accoglienza e della solidarietà (pur dichiarando guerra ai trafficanti e ai nuovi schiavisti). All'interno dell’UE non c’è nemmeno la condivisione di un metodo per l’accoglienza e la ripartizione dei «rifugiati» tra tutti i Paesi membri.
La problematica della «migrazione» in senso proprio è rimasta totalmente assente perché il quadro generale di riferimento resta una UE che intende difendere i suoi confini (e i suoi interessi) da chiunque cerchi di penetrarvi illegalmente, ovviamente fatte salve le convenzioni internazionali sui doveri di soccorso a naufraghi e richiedenti l’asilo. Resta aperto, a mio avviso, il problema degli sbarchi di tutti gli altri: se non hanno diritto all'asilo (e in proposito l’UE ha chiesto all'Italia che la registrazione dei rifugiati avvenga in modo adeguato secondo le regole UE!) vanno accolti o espulsi? Altrimenti detto, dopo l’eventuale soccorso in mare, l’identificazione e l’accoglienza negli appositi centri, dovranno essere trattenuti in vista dell’espulsione o «convertiti» in immigrati regolari (anche se non hanno un lavoro e mezzi di sostentamento) con la libertà di muoversi dove vogliono?

Mancanza di una visione comune europea
Per dare risposte concrete a queste o a simili domande è forse indispensabile attuare politiche diverse ma complementari: almeno una fondata sulla solidarietà nei confronti dei «profughi» costretti a fuggire (a causa di guerre, persecuzioni, pericoli gravi imminenti) e una fondata su considerazioni di tipo essenzialmente economico nei confronti dei «migranti». Per essere efficaci, andrebbero condivise da tutti i 28 Paesi dell’UE e armonizzate in una visione strategica comune che coinvolga anche i Paesi da cui provengono i profughi/migranti.
Purtroppo questa visione comune manca, per cui risultano insufficienti non solo la solidarietà praticata, ma anche l’atteggiamento dimostrato nei confronti dei profughi e soprattutto la presa a carico, almeno in parte, dei problemi dei Paesi da cui si continua a fuggire. Eppure appare evidente che per impedire che si fugga non occorre creare sbarramenti, ma attuare una politica d’investimenti massicci sul posto. Almeno a medio e a lungo termine ne beneficerebbe sicuramente anche l’Unione europea. O si preferisce continuare a rincorrere l’emergenza profughi, l’emergenza migranti, l’emergenza…?

Giovanni Longu
Berna, 29.04.2015

22 aprile 2015

Sbarchi di profughi: né clandestini né migranti


Nota: Questo articolo è stato scritto prima che si conoscesse l'ennesima tragedia dei profughi in fuga verso l'Italia. Penso che ponga un problema non solo di carattere terminologico ma anche politico, che l’ultimo tragico evento non fa che aggravare. E’ pertanto auspicabile che la politica internazionale trovi presto la necessaria convergenza e determinazione per adottare soluzioni coordinate ed efficaci al grave problema di questi esodi, informando l’opinione pubblica con un linguaggio consono e coerente (22.05.2015)

Le notizie di salvataggi in mare e sbarchi sulle coste italiane, all’ordine del giorno già da alcune settimane, saranno sempre più frequenti durante la stagione estiva. Se lo scorso anno sono sbarcate 170.000 persone, per quest’anno se ne prevedono almeno il doppio. Aumenta purtroppo anche il numero delle vittime dei frequenti naufragi. Si parla già di emergenza profughi. I centri di accoglienza sono al collasso. L’«operazione Triton» (controllo delle frontiere dell’Unione europea nel mar Mediterraneo) è ritenuta del tutto inadeguata sia per i controlli che per i salvataggi in mare.
I continui sbarchi di masse in fuga dalle guerre e dalla miseria interpellano non solo la classe politica italiana, dell’Unione europea e delle Nazioni Unite, ma anche le nostre coscienze. Cosa fare per gestire con senso di umanità il fenomeno? Cosa bisognerebbe intraprendere per evitare che tanta gente sia costretta ad abbandonare le loro terre? Come vanno considerate le persone che arrivano da noi? Che cosa si può e si deve fare per venire incontro ai loro bisogni? La solidarietà è solo una virtù cristiana o anche un dovere civico?

Opinione pubblica disorientata
L’opinione pubblica è disorientata. Non riesce ad avere risposte soddisfacenti a queste o a simili domande. A parte l’aggiornamento pressoché quotidiano del numero degli arrivi, degli sbarchi e dei morti, con qualche elogio sporadico alla professionalità dei soccorritori e alla generosità dei volontari, i media non offrono spunti di discussione alla ricerca di soluzioni sostenibili. Sembrano appiattiti sulla registrazione delle reciproche accuse tra i partiti e delle critiche al governo Renzi per una presunta arrendevolezza nei confronti dell’Unione europea, accusata persino dai vescovi italiani di «lavarsene le mani». Nessuna informazione giunge all’opinione pubblica su eventuali piani per gestire meglio il fenomeno o addirittura per risolverlo alla radice.
Eppure l’opinione pubblica dovrebbe almeno sapere se in questo campo sono in corso per lo meno discussioni ad alto livello (diplomazia internazionale, Unione europea) per predisporre interventi radicali efficaci (politici, militari, finanziari o di altro genere) o si pensa soltanto a rafforzare i controlli alle frontiere per impedire (o ritardare?) l’assalto alla fortezza Europa. Ogni tanto si sente parlare di interventi militari (ad esempio in Libia) per impedire le partenze dei barconi, di organizzare nei Paesi nordafricani centri di accoglienza e di esame delle richieste di asilo, di predisporre massicci piani d’investimenti nei principali Paesi colpiti dalla povertà, da cui si cerca di fuggire. Non si sente mai parlare di un comune piano d’integrazione in Europa per poche centinaia di migliaia di persone che credono nell'Europa come nei secoli passati gli europei hanno creduto nell'America. Forse ci sono ancora europei che credono che la fortezza Europa sia imprendibile?
Non intendo certo incolpare i media se l’opinione pubblica è disorientata. In effetti i media hanno il compito d’informare sui fatti e sulle idee e se queste mancano non se le possono certo inventare immaginando di leggere nei cervelli di Renzi, della Mogherini, di Juncker o di altri responsabili politici italiani ed europei. Eppure anche i media sono responsabili della maniera con cui vengono presentati i fatti e la loro interpretazione.

Bando alle confusioni
Voglio dire che in questo campo, delicato e drammatico, le parole contano più che mai e non mi sembra che quelle utilizzate più di frequente siano sempre chiare, comprensibili e veritiere. Soprattutto nei confronti delle persone che sbarcano dai gommoni o dalle navi che le hanno soccorse in mare, indicarle in un modo o in un altro non è indifferente. Non si può continuare a chiamarle a piacimento migranti, clandestini, richiedenti l’asilo, profughi e quant'altro. Questi termini non sono equivalenti e le persone a cui vengono attribuiti non sono raggruppabili in un’unica categoria.
Aggiungo che dall'uso delle parole dipende molto l’impatto sociale che il fenomeno sta generando in Italia (per limitare l’attenzione al Paese maggiormente coinvolto). Se, di fronte ai racconti pressoché quotidiani degli sbarchi, ma anche purtroppo dei naufragi, e soprattutto delle difficoltà oggettive di accogliere «dignitosamente» (come vorrebbero le regole internazionali) tutti coloro che riescono ad approdare sul suolo italiano l’opinione pubblica è frastornata, lo si deve anche al tipo di narrazione che ne fanno i media e i leader politici tra due estremi: da una parte il facile buonismo di alcuni, anche tra le alte cariche dello Stato, e dall'altra l’ingiustificata paura di quanti si sentono minacciati dall'eccessiva presenza di stranieri, soprattutto all'estrema destra politica.
Gli uni, che considerano gli sbarcati dei «migranti» da soccorrere, accogliere e sistemare, peccano di ingenuità e forse anche di falsità perché sembrano minimizzare il fenomeno e negare l’incapacità dell’Italia (ancora in crisi) di risolverlo, soprattutto quando si tratta di dare ai «migranti» un alloggio dignitoso e garantire una sistemazione definitiva, ossia un lavoro, che al momento è insufficiente anche per gli italiani.


Gli altri, che rappresentano gli sbarcati come «clandestini» e «invasori», peccano di becera xenofobia e di smemoratezza perché sono solo capaci di agitare spauracchi inverosimili (infiltrazione di terroristi islamici, invasione in massa di clandestini, aumento della microcriminalità, ecc.) e vedono nei «respingimenti» l’unica soluzione possibile. Al confronto di certi politici italiani nemmeno Schwarzenbach, in Svizzera, era così radicale nei confronti dell’immigrazione di massa (italiana, per chi l’avesse scordato).
Il problema del linguaggio è molto serio e spesso sottovalutato, ma è proprio sull'uso sconsiderato delle parole che sorgono in Italia le prime incomprensioni e le contrapposizioni politiche. In certi ambienti, penso in particolare alla Lega Nord, si privilegia il termine «clandestini», che è invece rifiutato nettamente da tutta l’area di centrosinistra. In questa si parla ormai quasi esclusivamente di «migranti», più raramente di «richiedenti l’asilo» e di «profughi».

Profughi: né migranti né clandestini
Per rendere il dibattito costruttivo e comprensibile all'opinione pubblica, bisognerebbe fare un tentativo di convergenza nell'uso di termini appropriati ma non divisivi. Non mi sento di dire qual è l’espressione più adeguata per indicare le masse che approdano sul litorale italiano, ma la mia preferenza va al termine «profughi». Sebbene in senso proprio «profugo» indichi specialmente chi è in qualche modo «costretto a lasciare il proprio Paese in seguito a guerre, persecuzioni politiche, calamità naturali, ecc.», in un senso più generale rende bene il senso della fuga (profugo deriva dal latino profugum e dal verbo profugĕre, «cercare scampo») da una situazione pericolosa o comunque precaria (ad esempio in seguito a carestia, fame, mancanza di lavoro).
«Profugo» non è un termine divisivo ed è conosciuto e accettato da tutti anche nel suo significato più generale, che può ben comprendere tanto i migranti quanto i richiedenti l’asilo, i rifugiati e persino i clandestini.
Trovo meno adeguato il termine «migranti», anche se è quello che ha finito per imporsi, forse in ossequio all'uso che ne fa l’ONU (quando parla dei «migranti internazionali»), perché l’«emigrazione» in Italia evoca la condizione di chi era sì costretto ad espatriare «per motivi di lavoro», ma emigrava perché c’era un Paese d’immigrazione disposto ad accoglierlo e a regolarizzarlo (o addirittura lo richiedeva, come ad esempio la Svizzera nel dopoguerra). Allo statuto di «migrante» erano generalmente collegati un regolare permesso di lavoro e di soggiorno, una retribuzione corrispondente, ma anche la garanzia di poter ritornare liberamente al Paese d’origine.
Del resto la condizione di «migrante» riguarda ancora oggi decine di migliaia di italiani, che francamente hanno ben poco in comune con i profughi che stanno giungendo in Italia soprattutto dall'Africa e dall'Asia. Anche per i «migranti» italiani si tratta di cercare opportunità di lavoro altrove, ma per essi questo avviene in condizioni completamente diverse, specialmente di libera scelta e ampie garanzie.
In quest’ottica ho trovato fuorviante l’intervento della presidente della Camera Laura Boldrini di un mese fa nel corso della presentazione di un suo libro. Mentre criticava l’atteggiamento di chi continua a «considerare la migrazione una minaccia» (con evidente riferimento al leader della Lega Matteo Salvini, pur senza nominarlo) sbagliava a mio avviso nel confondere i «migranti» (che vanno dove c’è la domanda, come ammetteva la stessa Boldrini, contraddicendosi) con i profughi («che non vengono da noi per motivi economici ma scappano dalle guerre»).
Ritengo invece che il termine «clandestini», preferito da Salvini, sia completamente inadeguato perché nei profughi che sbarcano a Lampedusa o in Sicilia non si può ravvisare l’intenzione della clandestinità e sicuramente non riguarda la maggioranza di essi. Oltretutto la clandestinità viene a cadere già al momento dello sbarco con la prima identificazione. Quanto alle espressioni «richiedenti l’asilo» e «rifugiati», ritengo che debbano essere riservate alle persone che possono avvalersi del diritto all'asilo e ottenere lo statuto di rifugiato, non ad altre.

Manca la soluzione!
A questo punto non vorrei apparire come uno che riduce un problema enorme a una semplice disputa terminologica. So infatti benissimo che la soluzione va cercata principalmente al problema non alla disputa, ma sono convinto che a seconda della scelta delle parole si può capire meglio il da fare e svelare le ipocrisie. I «profughi» infatti hanno soprattutto bisogno di soccorso, accoglienza, solidarietà, prima sistemazione. La problematica dei «migranti» è invece molto più complessa perché ha bisogno soprattutto di una politica immigratoria seria e coerente di cui non c’è alcun indizio né in Italia né nell’Unione europea. Anche per questo, continuare a parlare di «migranti» da soccorrere mi sembra un’ipocrisia.

Giovanni Longu
Berna, 22.4.2015 (scritto il 18.4.2015)

20 aprile 2015

Ancora morti nel "Mare nostrum"


Il Mediterraneo, che dal tempo dei romani chiamiamo «Mare nostrum», nei giorni scorsi ha interrotto violentemente la fuga di centinaia di profughi alla ricerca di una vita migliore. Erano, come ha detto domenica scorsa Papa Francesco, «uomini e donne come noi, fratelli nostri, affamati, perseguitati, feriti, sfruttati, vittime di guerre, che cercavano una vita migliore, cercavano la felicità».
Non hanno fatto in tempo a goderne nemmeno un poco perché il «Mare nostrum» li ha inghiottiti brutalmente per aggiungerli alle migliaia di profughi già periti in questi ultimi anni. Non solo il mare, ma anche i morti dovremmo considerare «nostri» e piangerli con qualche senso di colpa.
Sono morti perché il barcone sovraccarico che li trasportava si è rovesciato, ma si trovavano su quel mezzo inadatto anche per la cattiveria umana, per la nostra insensibilità e l’irresponsabilità delle istituzioni competenti. Il nostro sentimento d’impotenza rischia di diventare un alibi miserevole se non siamo capaci d’indignarci e reclamare a gran voce dalle autorità responsabili soluzioni efficaci e sostenibili a lungo termine.

Per non dimenticare i morti di ieri e di oggi Piera Caponio ha scritto questa delicata poesia intitolata Vanno…,  «dedicata a tutti coloro che hanno sognato una vita diversa, in un mondo diverso, con persone diverse. Ma hanno perso».

Vanno

Vanno,
inseguono un fragile sogno,
guidati da un lieve spiraglio.

Ombre furtive nel buio
li scrutano senza parlare,
mani rapaci si accostano,
carpiscono senza pietà.

L’ora che incalza li inghiotte,
procedono a passi guardinghi
sospinti da altri che vanno.
Audaci viandanti del nulla.

Son soli nel cuor della notte,
son soli col cuore che batte,
ma breve sarà la paura,
la luce è già là all’orizzonte…..

Si portano dentro una fiamma,
una fiamma che brucia e riscalda,
che guizza leggera e tenace
incontro al destino che avanza.

Poi d’improvviso uno schianto,
un bagliore scatena l’inferno,
le grida trafiggono il cielo
ma l’eco si perde nel nulla.

Son tonfi di corpi avvinghiati,
la fiamma pian piano si spegne,
il gigante pietoso li accoglie,
li copre con l’umido velo
e assorto riprende a cantare
l’ennesima sua ninna nanna.

                               Piera Caponio




15 aprile 2015

Formazione e disoccupazione giovanile


L’Italia ha molti problemi, ma ve n’è uno in particolare che dovrebbe preoccupare più di ogni altro quanti hanno responsabilità di governo: la carenza di un’adeguata formazione professionale dei giovani. Eppure le conseguenze sono disastrose e sotto gli occhi di tutti: in Italia oltre il 40% dei giovani tra i 15 e i 24 anni è senza lavoro (il tasso di disoccupazione giovanile italiano è quasi doppio della media europea).

So benissimo che nel breve periodo è quasi impossibile raggiungere i tassi di due dei Paesi più virtuosi europei, la Germania e la Svizzera (attorno al 7,5%), ma bisognerebbe almeno proporsi di raggiungerli in un orizzonte temporale di medio periodo. Invece niente, a meno che i guru dell’attuale governo non abbiano ritenuto sufficienti gli incentivi all'occupazione giovanile (la cosiddetta «garanzia giovani») e il disegno di legge di riforma della scuola, approdato da poco in Parlamento.

Iniziativa a favore dell’occupazione giovanile
La «garanzia giovani», un ambizioso progetto concepito e finanziato in gran parte dall'Unione europea (UE), che prevede agevolazioni per i datori di lavoro che assumono a tempo indeterminato lavoratori in età dai 18 ai 29 anni, può servire certamente a dare un lavoro a un certo numero di giovani disoccupati e a far diminuire di qualche punto il tasso di disoccupazione giovanile, ma, come si vedrà meglio in seguito, non può essere la soluzione risolutiva di questa piaga, che rischia di diventare cronica. Oltretutto, non tutti i posti di lavoro possono essere occupati da giovani disoccupati, ma solo se gli occupanti hanno i requisiti adatti.
E’ vero che i cospicui finanziamenti europei finalizzati a favorire l’occupazione giovanile non sono destinati solo ad agevolare chi assume, ma anche a sostenere programmi di orientamento, istruzione e formazione professionale, formazione continua, apprendistati, corsi di perfezionamento. Ma proprio sull'efficacia di questi programmi, per altro limitati nel tempo, sorgono i maggiori dubbi. Non è infatti chiaro di che tipo di offerta si tratti e quali caratteristiche debbano avere questi interventi riguardo a qualità, durata, controlli, ecc.

Formazione professionale e disoccupazione
Quando poi si parla di formazione professionale il dubbio aumenta perché con questa espressione non s’intende (più) il semplice e spesso abborracciato avviamento al lavoro, ma un impegnativo processo di apprendimento teorico e pratico di durata pluriennale, programmato e strutturato, che coinvolge l’ente pubblico e l’economia, le parti sociali, la scuola, l’università, la ricerca, l’innovazione, ecc. Non mi sembra che gli incentivi per la «garanzia giovani» riguardino questo processo formativo. E allora? Allora la soluzione del problema va cercata altrove e precisamente in una seria, moderna e sostenibile formazione dei giovani.
Anche per molti italiani emigrati in Svizzera negli anni '60 e '70
la formazione professionale rappresentò il trampolino di lancio
della carriera professionale (foto: allievi del CISAP, anni '80)
Non occorre essere statistici o studiosi del settore per rendersi conto che c’è una relazione molto stretta tra disoccupazione e formazione e che i rischi della disoccupazione sono tanto maggiori quanto più basso è il livello di formazione o quanto più inadeguata è la formazione professionale. Se la disoccupazione giovanile sopra il 25% diventa cronica (e la percentuale dei giovani senza lavoro in Italia è sopra il 40%) i rischi per il futuro dei diretti interessati ma anche del Paese sono enormi.
Penso che Matteo Renzi e il suo governo siano consapevoli della gravità della disoccupazione giovanile, quasi da primato a livello europeo, per cui non riesco a capire perché non abbiano ancora nemmeno impostato un’autentica riforma della formazione dei giovani. So benissimo che in questo campo le soluzioni non sono mai a portata di mano, ma proprio per questo andava avviata fin dal discorso programmatico d’insediamento una seria riflessione nel governo e nella società sul sistema scolastico italiano, non più competitivo, e soprattutto sul sistema particolarmente carente della formazione professionale.
Nel 1972 il pres. della Confederazione  Nello Celio visitò
con vivo interesse il centro di formazione professionale
per lavoratori immigrati CISAP di Berna. 
Credo che l’Italia dovrebbe prendere esempio dai Paesi in cui la disoccupazione giovanile è entro limiti «fisiologici» accettabili (ossia da 1,5 a 2 volte superiore a quello della disoccupazione generale). A ben vedere, in questi Paesi, specialmente Germania e Svizzera, la formazione professionale è molto sviluppata e non a caso il numero dei giovani senza lavoro (o che non studiano) è più ridotto che in Paesi, dove questa preparazione manca o è carente. Una buona formazione (professionale) è sempre un antidoto efficace contro la disoccupazione. Sebbene in situazioni di crisi si costati ovunque un aumento delle difficoltà d’impiego, di solito in questi Paesi sono sufficienti pochi interventi mirati per aiutare i giovani a trovare un posto di lavoro. E i risultati si vedono.

Formazione professionale in Svizzera: un sistema che funziona
Osservando più da vicino la situazione svizzera, non c’è dubbio che la disoccupazione in generale e quella giovanile in particolare è molto contenuta nel confronto internazionale proprio grazie a un sistema consolidato di formazione professionale che accompagna i giovani dal termine della scuola dell’obbligo al primo impiego e li segue anche dopo con la formazione continua sempre più generalizzata.
Per comprendere meglio il sistema di formazione professionale svizzero bisogna ricordare che è di tipo duale, ossia teorico (in una scuola professionale) e pratico (presso un’azienda), e fornisce a due giovani su tre una solida preparazione teorica e pratica corrispondente alle esigenze del mondo del lavoro. L’efficacia di un tale sistema non si esaurisce con l’acquisizione di un diploma o un certificato di capacità e l’avvio (quasi) immediato al lavoro, ma continua anche in seguito durante tutta la vita lavorativa. La formazione professionale costituisce infatti una solida base per ulteriori perfezionamenti o specializzazioni fino ai massimi livelli della ricerca (soprattutto nei politecnici) e della professionalità (nelle aziende) e per la formazione permanente.
Data l’importanza evidente di questo sistema formativo, frutto di un partenariato solido tra pubblico e privato, esso è costantemente monitorato e aggiornato. Dev'essere infatti in grado di far fronte alle esigenze dell’economia e della società in continua evoluzione. Un Paese come la Svizzera, privo di materie prime, deve puntare necessariamente sull'alta qualificazione delle risorse umane a tutti i livelli per garantire la sostenibilità e la competitività del proprio sistema produttivo e il grado di benessere raggiunto.

Ampio sostegno dello Stato e dell’economia
Per queste ragioni, tanto l’economia pubblica e privata quanto i poteri pubblici (Confederazione e Cantoni) attribuiscono grande importanza e i finanziamenti necessari alla formazione professionale. La Confederazione, ad esempio, ne ha fatto un apposito obiettivo quantificabile del programma di governo: «il sistema di formazione professionale duale contribuisce a mantenere basso il tasso di disoccupazione giovanile nel confronto internazionale». In particolare, il governo si propone di sostenere «la formazione di giovani leve in ambiti specialistici altamente qualificati della scienza e dell’economia» e di migliorare «l’attitudine dei giovani alla formazione e all'impiego».
Johann Schneider-Ammann
Recentemente, il ministro dell’economia Johann Schneider-Ammann ha affermato che in futuro la percentuale dei giovani che dopo la scuola dell’obbligo continuano una formazione scolastica o professionale deve essere aumentata al 95%.
Alla radice del sostegno incondizionato della Confederazione a questo sistema di formazione professionale (simile per altro a quello della Germania e dell’Austria) c’è una consapevolezza che è stata evidenziata l’anno scorso dall’allora presidente della Confederazione Didier Burkhalter: «Un Paese è una comunità di destini, la cui ragion d’essere sta nella capacità di creare prospettive future. E la Svizzera ne è capace». L’esempio è dato proprio dai giovani, la cui «buona formazione» permette loro di «accedere al mondo del lavoro». Non solo, «il nostro Paese crea opportunità lavorative e attira le giovani leve, non come in altre realtà, dove la disoccupazione è altissima e i giovani sono costretti a migrare».

Italia: insufficienza formativa
Difficile escludere che tra le «altre realtà» Burkhalter non pensasse anche all’Italia. Del resto è sotto gli occhi di tutti la gravità della disoccupazione giovanile italiana, soprattutto nel Mezzogiorno. Proprio per questo meraviglia che un governo dalle smisurate ambizioni come quello di Renzi non faccia nulla per aggredire alla radice il male che rischia di compromettere il futuro di un’intera generazione di giovani. Questo male si chiama insufficienza formativa.
Sono note dalle classifiche internazionali le scarse prestazioni degli alunni italiani della scuola dell’obbligo; il sistema scolastico italiano è bocciato dall'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE); il sistema universitario italiano non riesce a piazzare un ateneo tra i primi 100 al mondo (la Svizzera ne piazza ben quattro); la ricerca scientifica è insufficiente nonostante alcuni centri di eccellenza.
I rimedi finora proposti dal governo Renzi (e dai precedenti governi) sono dei palliativi, non misure risolutive. La scuola avrebbe bisogno di una profonda riforma strutturale (e non solo di facciata) per diventare competitiva a livello europeo. Invece il disegno di legge presentato recentemente dal governo è illusorio a cominciare dal titolo: «disegno di legge sulla buona scuola». E illusoria è la presentazione che ne hanno fatto il presidente Renzi e la ministra dell'istruzione, dell'università e della ricerca Stefania Giannini, come pure il senatore del Pd Andrea Marcussi, presidente della Commissione Cultura del Senato, parlando del disegno di legge come di una svolta, anzi una «rivoluzione». Per rendersi conto di quanto invece sia mediocre basterebbe leggere sul Corriere della Sera il commento ragionato di Ernesto Galli della Loggia, intitolato «La scuola cattiva è questa». Chi vuole può facilmente ritrovarlo in Internet.

Mancanza di volontà politica
Per realizzare in Italia una «buona scuola», fra l’altro, occorrerebbe investire nel sistema scolastico molte più risorse di quelle assegnate attualmente, che sono sotto la media dei Paesi dell’OCSE. Una «buona scuola» sarebbe, inoltre, quella che «forma» mentalmente e culturalmente i cittadini di domani, ma anche quella che prepara adeguatamente i lavoratori di domani, in grado cioè di essere facilmente assorbiti, senza sussidi, dall'economia.
Non credo che porre mano a una seria riforma della formazione in Italia sia un’impresa impossibile e proprio per questo bisognerebbe non perdere altro tempo per avviarla, ma dubito che la classe politica attuale sia all'altezza del compito.

Giovanni Longu
Berna, 15.4.2015

01 aprile 2015

Euroscetticismo e xenofobia nell'UE e in Svizzera


Come in numerosi Paesi dell’Unione europea (UE), ad esempio, Gran Bretagna, Francia, Italia, Austria, Grecia, anche in Svizzera sta crescendo l'euroscetticismo. Ci sono ovviamente differenze importanti tra l’euroscetticismo presente all'interno dell’UE e l'euroscetticismo osservato in Svizzera.

Euroscetticismo nei Paesi dell’UE
L'euroscetticismo nei Paesi dell’UE nasce soprattutto dal divario tra le intenzioni annunciate dagli organismi istituzionali e la realtà percepita dai cittadini. Per esempio, sotto la presidenza italiana del Consiglio UE (che intendeva far «cambiare la direzione di marcia dell’UE») le parole chiave erano «crescita e occupazione», da attuarsi mediante riforme strutturali, incentivi al lavoro, politiche di sostegno agli investimenti, una politica monetaria flessibile. La realtà percepita dai cittadini è stata un nulla di fatto. Le buone intenzioni non hanno prodotto risultati concreti. Basti pensare che nel solo 2014 proprio dall’Italia sono espatriate oltre 100.000 persone (di cui più di 11.000 in Svizzera). E’ dovuta intervenire, quest’anno, la Banca centrale europea (BCE) per rilanciare l’economia dell’Eurozona con l’acquisto di massicce dosi di titoli di Stato.
Sulla scia della presidenza italiana, anche l’attuale presidenza lettone ha indicato come priorità «il rilancio della competitività europea per la crescita e la creazione di posti di lavoro», con l’aggiunta di dare all’UE una vera dimensione internazionale. Altre belle parole che lasciano indifferenti gli europei ancora alle prese, nonostante gli interventi della BCE, con la bassa crescita, la disoccupazione, la crescente povertà, il degrado sociale di molte periferie di città, l’emigrazione, l’irrisolta soluzione dei continui arrivi di immigrati, disperati, profughi, ecc. A Bruxelles, dove hanno sede le principali istituzioni europee, probabilmente non ci si rende conto del disagio sociale diffuso in molti Paesi e delle aspettative deluse dei cittadini.

Euroscetticismo in Svizzera
Non è pertanto difficile capire perché in molti Paesi dell’UE aumenti l'euroscetticismo. Resta invece da comprendere perché esso cresca anche in Svizzera, che non fa parte dell’UE. Non si tratta a mio avviso di una sorta di effetto contagio perché le relazioni con Bruxelles sono del tutto diverse, anche se l’opinione pubblica svizzera è sicuramente influenzata dalle reazioni osservate soprattutto in alcuni Paesi (ad es. Gran Bretagna, Francia, Italia). Si tratta piuttosto di una reazione istintiva e irrazionale che il popolo svizzero manifesta ogniqualvolta si sente in pericolo o sente minacciati alcuni suoi diritti e valori fondamentali (libertà, sovranità, democrazia diretta, ecc.).
In Svizzera l'euroscetticismo è soprattutto frutto di paura, camuffata spesso con ragionamenti pseudo economici e pseudo valoriali. Per esempio, con la libera circolazione delle persone molti svizzeri temono di essere prima o poi sopraffatti dal forte afflusso di lavoratori provenienti dai Paesi dell’UE (anche da quelli culturalmente più lontani) e di non essere più padroni a casa propria. Le stesse persone evidentemente non considerano che dall'entrata in vigore (2002) del relativo accordo bilaterale ad oggi non c’è stata alcuna immigrazione di massa e che non ci potrebbe nemmeno essere se venisse a mancare l’offerta di lavoro. Non solo, in tutti questi anni l’economia svizzera ha beneficiato enormemente degli accordi con l’UE anche sulla libera circolazione.

Euroscetticismo e xenofobia
In Svizzera, come anche in altri Paesi dell'UE, l’euroscetticismo ha anche a che fare con la xenofobia. Già in passato una parte a volte molto consistente dell’opinione pubblica svizzera, di fronte a vere e proprie ondate di immigrati (si pensi agli anni ’50, ’60 e ’70), ha temuto di perdere il benessere raggiunto, la sicurezza del lavoro, la sicurezza sociale, l’accessibilità all'abitazione, ecc., senza nemmeno chiedersi da dove provenisse in fin dei conti quel benessere, la qualità della vita, la sicurezza sociale. Senza l’immigrazione le attuali condizioni di benessere non ci sarebbero state, né sarebbe possibile mantenerle in futuro senza di essa.
Un altro motivo dell’euroscetticismo è la confusione tra immigrati e approfittatori. Siccome ci sono stati casi di stranieri giunti in Svizzera per approfittare delle assicurazioni contro la disoccupazione, l’invalidità, ecc. molti svizzeri ritengono che i lavoratori stranieri non vengano solo per lavorare e contribuire ad accrescere il nostro benessere e la nostra sicurezza sociale, ma per approfittare (per non dire rubare) delle nostre assicurazioni sociali, della cassa malati, dell’assistenza sociale, ecc.

L’Europa è una garanzia per la Svizzera
Credo che alla radice dell’euroscetticismo, in Svizzera, ci sia pertanto soprattutto una insufficiente conoscenza della storia, dell’economia, dei rapporti globali con l’UE. Quanti sanno, ad esempio, che nel 1815 le grandi potenze europee garantirono la neutralità permanente della Svizzera e l’inviolabilità del suo territorio? Quanti sanno che, oggi, un franco su tre è guadagnato grazie agli scambi commerciali con l’UE (il 55% delle esportazioni svizzere, pari a circa 116 miliardi di franchi nel 2013, è diretto al mercato dell’UE)? E quanti si rendono conto che in una sorta di bilancio i lavoratori stranieri ricevono complessivamente meno di quello che danno? E quanti pensano che molto spesso la polemica con l’UE non è altro che una forma di lotta interna tra partiti politici, tra Cantoni e Confederazione, tra periferia e centro? Molti dimenticano inoltre con troppa facilità che l’Europa è non solo la sede naturale della Svizzera, ma anche la garanzia di tutti i suoi valori.
Giovanni Longu
Berna, 1 aprile 2015

25 marzo 2015

Nuovo accordo storico tra l’UE e la Svizzera


Le discussioni bilaterali tra la Svizzera e l’Unione europea (UE) in alcuni momenti danno l’impressione di un dialogo fra sordi, nel senso che ciascuna parte sembra voler mantenere ad ogni costo la propria posizione, come se fosse inamovibile. Altre volte, invece, sembra che il dialogo avanzi, magari a singhiozzo, segno che da entrambe le parti c’è la volontà di giungere il più presto possibile, ma senza fretta (anche se per la Svizzera il tempo stringe), se non ai risultati sperati da ciascuna parte almeno a un buon compromesso. E’ molto positivo che il dialogo continui, anche sui temi obiettivamente difficili come quello sulla libera circolazione dei cittadini dell’UE nel mercato del lavoro svizzero.

Il dialogo continua
Quest’anno il dialogo è ripreso ai massimi livelli con l’incontro a Bruxelles tra la presidente della Confederazione Simonetta Sommaruga e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker (v. L’ECO del 18.3.2015) e sembra proseguire in un clima favorevole su svariati temi. Alcuni segnali lasciano ben sperare.
Il 18 marzo 2015 sono iniziati a Bruxelles tra il segretario di Stato Jacques de Watteville e il direttore generale dell’UE Jonathan Faull i primi colloqui esplorativi sulla fattibilità e l’opportunità di un accordo bilaterale Svizzera-UE sui servizi finanziari. Sono pure in corso colloqui riguardanti un miglioramento dell’accesso della Svizzera ai mercati dell’UE.
Il 19 marzo 2015 la Svizzera e l’UE hanno raggiunto un accordo che prevede l’introduzione dello scambio automatico di informazioni in materia fiscale a partire dal 1° gennaio 2017 (anche se i primi scambi avverranno effettivamente solo l’anno seguente).

Scambio delle informazioni fiscali
Questo accordo, anche se dovrà essere ancora sottoposto alle Camere federali (ed eventualmente a referendum) per l’approvazione definitiva, segna a mio avviso un punto di non ritorno nei rapporti non solo in materia fiscale ma complessivi tra la Svizzera e l’Unione europea. Già, perché questo accordo è stato fortemente voluto dall’UE, al fine di introdurre definitivamente nei rapporti fiscali tra i cittadini dell’UE e la Svizzera la massima trasparenza possibile. Mentre segna davvero la fine definitiva del segreto bancario svizzero, non può non rappresentare il forte avvicinamento generale in tutti i campi tra la Svizzera e l’UE.
Su questo accordo non ho letto in Svizzera molti commenti, forse perché il tema è molto delicato e contrastato, ma non c’è dubbio che per le relazioni con l’Europa esso rappresenta la rimozione di uno dei più grossi ostacoli. Evidentemente gli svizzeri si aspettano ora qualcosa in cambio, soprattutto nella direzione di una totale apertura dei mercati europei per le imprese svizzere come pure per quel che riguarda la libera circolazione delle persone.

«Accordo storico»
A sottolineare l’importanza dell’intesa raggiunta ci hanno pensato i due negoziatori dell’accordo, il segretario di Stato Jacques de Watteville e il direttore generale dell’UE Heinz Zourek. Il primo, dopo aver siglato il documento sembra che abbia esclamato: «questo è un giorno importante» e il secondo, visibilmente soddisfatto: « sono molto grato che abbiamo trovato una risposta ad una questione politicamente e tecnicamente difficile». Ma è stato lo stesso commissario europeo per la fiscalità Pierre Moscovici, compiaciuto a sua volta del risultato raggiunto, a definirlo un «accordo storico».
L’accordo raggiunto sullo scambio automatico di informazioni in materia fiscale sostituisce il precedente accordo sulla fiscalità del risparmio con l’UE in vigore dal 2005 e riguarderà, una volta entrato in vigore, tutti i 28 Stati dell’UE e la Svizzera. L’accordo, si legge in un comunicato stampa dell’Amministrazione federale, «è reciproco, vale a dire che in caso di scambio di informazioni concernenti i conti gli Stati membri dell’UE sottostanno agli stessi obblighi della Svizzera e viceversa».
In questo accordo è stato ripreso integralmente lo standard globale dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) sullo scambio automatico di informazioni, che è già stato alla base dell’intesa raggiunta tra la Svizzera e l’Italia e che è ormai condiviso da un centinaio di Paesi e da tutte le principali piazze finanziarie del mondo. La caduta del segreto bancario svizzero non è pertanto opera di questo o quel ministro delle finanze o primo ministro, ma il risultato di un processo a cui anche la Svizzera si è sottoposta da tempo.

Ripercussioni per gli immigrati
Poiché il recente accordo siglato a Bruxelles riguarderà tutte le relazioni finanziarie dei cittadini dell’UE e della Svizzera residenti rispettivamente in Svizzera o in uno Stato dell’UE, è importante segnalare sin d’ora ch’esso avrà ripercussioni anche sugli immigrati italiani in Svizzera. Dal 1° gennaio 2017 (concretamente dal 1° gennaio 2018), infatti, tutti i dati fiscali riguardanti i beni immobili e mobili (conti correnti, partecipazioni, titoli azionari, ecc.) detenuti da essi in Italia saranno comunicati automaticamente dall'
autorità fiscale italiana a quella svizzera. Viceversa, l’autorità fiscale svizzera comunicherà a quella italiana tutti i dati fiscali riguardanti i beni immobili e mobili detenuti in Svizzera appartenenti a residenti in Italia.
Lo scambio automatico dei dati fiscali consentirà a ciascun Paese quanto meno di ridurre l’evasione fiscale, ma non sarà certo questo accordo a farla scomparire. Incentivare forme di autodenuncia, come stanno facendo ora l’Italia e da tempo la Svizzera, dovrebbe favorire l’emersione dei capitali nascosti al fisco e una maggiore equità fiscale fra i cittadini. E’ però auspicabile che gli Stati distribuiscano agli stessi cittadini le maggiori entrate attraverso un riduzione mirata delle imposte.
Giovanni Longu
Berna, 25.03.2015


Svizzera: ripresa con moderato ottimismo


A pochi mesi dalla decisione della Banca nazionale svizzera (BNS) di non più difendere a oltranza il tasso di cambio di 1,20 franchi per 1 euro, politici, economisti e soprattutto industriali s’interrogano sul futuro dell’economia svizzera se il franco dovesse ulteriormente rafforzarsi sull'euro. Già la quasi parità attuale (1 euro vale 1,05 franchi) preoccupa non poche aziende. E cosa accadrebbe, si chiedono in tanti, se il franco dovesse superare la parità? Eppure numerosi segnali inducono a un moderato ottimismo.

Cresce la fiducia
Per molti imprenditori il cambio più facilmente sopportabile sarebbe di 1,10 franchi per 1 euro, ma nessuno si fa illusioni, soprattutto dopo la decisione della BNS, ribadita ancora nei giorni scorsi, di non più sostenere artificialmente la moneta svizzera.
Quando fu dato l’annuncio, il 15 gennaio scorso, che la BNS avrebbe posto fine alla difesa del franco con massicci acquisti di euro, molte imprese furono prese dal panico. Si evocò persino lo tsunami prospettando una catastrofe economica, l’aumento della disoccupazione, la recessione, la diminuzione del PIL, ecc.
Oggi, nonostante si abbiano ancora pochi dati a disposizione, si comincia a ragionare con più serenità e sono molti gli analisti fiduciosi sulla capacità dell’economia svizzera di superare le difficoltà che indubbiamente il superfranco pone, ma anche sul miglioramento della situazione internazionale e specialmente dei grandi partner commerciali della Svizzera come la Germania e gli Stati Uniti.
Secondo la BNS e la Segreteria di Stato dell’economia (SECO) nel 2015 non dovrebbe esserci recessione e il prodotto interno lordo (PIL) continuerà a crescere, anche se a un ritmo nettamente inferiore rispetto alle stime precedenti. La BNS prevede una crescita dell’1%, la SECO dello 0,9%. Essa dovrebbe essere garantita sia dalla ripresa del consumo interno (ancora sottotono nel quarto trimestre 2014) e sia dalle esportazioni.

Motivi di ottimismo
Questo ottimismo, per quanto prudente, lascia ben sperare in un miglioramento del mercato del lavoro , che dovrebbe essere in grado nel corso dell’anno di riassorbire una parte dei disoccupati degli anni passati. Si spera che la tendenza alla crescita dell’occupazione, già osservata nel quarto trimestre del 2014 prosegua o quantomeno non rallenti nel corso di quest’anno.
Quanto alla disoccupazione, che non ha mai raggiunto punti critici nemmeno nel periodo più acuto della crisi tra il 2008 e il 2010, alcuni segnali la danno in diminuzione. Nel febbraio di quest’anno è leggermente diminuita sia la disoccupazione generale (attestandosi attorno al 3,5%, con 136.764 disoccupati) che quella giovanile con poco più di 19.000 disoccupati (7,7%, ben al di sotto della media europea e persino al di sotto di quella della Germania).
Si spera evidentemente che anche le esportazioni, fondamentali per l’economia svizzera, tengano, pur senza illudersi che possano raggiungere il record del 2014, quando il loro valore superò 208,3 miliardi di franchi e che la bilancia commerciale (differenza tra esportazioni e importazioni) possa registrare nuovamente un surplus di oltre 30 miliardi di franchi. Al riguardo non va nemmeno dimenticato che da tempo l’industria svizzera punta sempre più sull’esportazione di prodotti ad alto valore aggiunto e questi, si sa, risentono generalmente meno delle fluttuazioni dei cambi valutari.
Tra le principali ragioni del moderato ottimismo c’è anche una fiducia diffusa sulla solidità dell’economia svizzera e delle sue imprese. Negli anni scorsi, infatti, approfittando delle agevolazioni del cambio euro-franco bloccato, sapendo che il sostegno della BNS sarebbe stato limitato al massimo a tre anni, ossia fino all’inizio di quest’anno, molte imprese hanno approfittato dei tassi d’interesse straordinariamente bassi per ristrutturarsi e consolidarsi, in attesa di tempi migliori.
Alcuni osservatori fanno notare che l’ottimismo è più evidente nelle imprese che nel frattempo si sono ristrutturate e preparate al dopo crisi rispetto a quelle che non ne hanno approfittato per migliorare la propria struttura interna (riorganizzazione e riduzione dei costi aziendali, aggiornamento professionale del personale), adeguare l’offerta, rinnovare i prodotti. Queste ultime, evidentemente, saranno le imprese maggiormente a rischio.

Il ruolo dello Stato
L’ottimismo, che si nota con sempre maggiore frequenza nei media e nei comunicati ufficiali, dipende anche da un alto grado di fiducia degli imprenditori svizzeri nell'efficienza di uno Stato liberale che si preoccupa dei bisogni sia dei cittadini che dell’economia, che sa tenere i conti in ordine, che si adopera per valorizzare le potenzialità del paese attraverso un sistema di formazione (culturale e professionale) moderno, stimoli alla ricerca e all'innovazione, il rispetto della democrazia e dei diritti individuali. La fiducia nello Stato secondo molti imprenditori sarebbe ancora maggiore se gli adempimenti burocratici fossero meno gravosi.
Viene spontaneo chiedersi a questo punto se anche altri Paesi, magari confinanti con la Svizzera, con questi ingredienti potrebbero guardare già al futuro prossimo, non a quello lontano, con altrettanto ottimismo.
Giovanni Longu
Berna, 25.03.2015