In alcuni commenti sui continui sbarchi lungo le coste
italiane, i «profughi» (preferisco chiamarli così e non «migranti») africani e
asiatici sono stati paragonati ai «migranti» italiani del secolo scorso, in
quanto anch’essi erano persone in fuga, se non dalla guerra da una condizione
per loro insostenibile, erano alla ricerca di un avvenire migliore e spesso
dovevano affrontare viaggi rischiosi. Il paragone, da certuni molto criticato,
non è fuori luogo, pur essendoci sostanziali differenze da tener presenti in
questo tipo di confronti.
Premesse essenziali
Anzitutto, quando si paragonano i profughi di oggi con i
migranti italiani di ieri, ci si deve rendere conto che si sta cercando di
mettere a confronto due realtà distanti fra loro oltre un secolo. Inoltre,
sebbene esistano alcune analogie tra questi due fenomeni, non trovo appropriato
che si confrontino «profughi» con «migranti».
Il naufragio della speranza, di Caspar David Friedrich |
Quelli di oggi non sono propriamente «migranti» nel
significato comune del termine che fa pensare generalmente a persone che,
facendo uso della loro libertà di espatrio, si trasferiscono in un altro Paese
alla ricerca di un lavoro e sperano di poter fare ritorno in patria in
condizioni migliori. Quelli che sbarcano oggi sulle coste meridionali italiane
(ma anche maltesi, greche, spagnole, ecc.), talvolta clandestinamente, sono
nella stragrande maggioranza, «profughi» che fuggono da una realtà disperata
perché funestata da guerre e carestie o in cui rischiano la vita per una
persecuzione in atto e sono quindi in condizione di chiedere l’asilo ed essere
accolti come «rifugiati».
I migranti italiani di oltre un secolo fa non erano profughi
o rifugiati, perché non fuggivano né da un Paese in guerra né da un Paese dove rischiavano
la vita a seguito di persecuzioni. In genere non erano nemmeno costretti a
partire dalla miseria perché allora, come osservava nel 1901 il senatore Achille
Visocchi, in Italia il lavoro non mancava, in particolare quello agricolo, ma
erano spinti «dalla speranza e dalla voglia di guadagnare molto…».
Molti cercarono fortuna
altrove anche perché il disagio sociale e la disperazione dovuti al malgoverno
piemontese era divenuto insopportabile. In generale, tuttavia, i
migranti italiani dell’Ottocento e inizio Novecento partivano verso le Americhe
o verso alcuni Paesi europei, per motivi di lavoro, talvolta addirittura a
richiesta, come nel caso dell’immigrazione italiana in Svizzera per la
costruzione delle grandi trasversali transalpine. Inoltre, emigravano quasi
tutti avvalendosi del diritto di espatrio che veniva loro riconosciuto dalle
leggi dell’epoca, raramente in clandestinità.
Le differenze tra profughi di oggi e migranti italiani di
ieri sono quindi notevoli e si commetterebbe un errore storico grossolano non
tenerne conto. Eppure alcune analogie, come si vedrà, non possono sfuggire.
Analogie tra profughi di oggi e migranti italiani in
partenza per le Americhe
Anzitutto, profughi e migranti hanno in comune la speranza
di migliorare le condizioni di vita proprie e delle loro famiglie. Per entrambi
è stata ed è questa la molla che li ha spinti e li spinge a partire, a
sopportare viaggi disumani, a rischiare di non trovare la felicità inseguita. La
speranza di trovar lavoro e far fortuna in fretta era talmente forte che i migranti
italiani diretti nelle Americhe non venivano fermati nemmeno dalla prospettiva
di un viaggio lungo e penoso e dall’incognita rappresentata dal Paese di
destinazione, di cui molto spesso non sapevano nulla.
Per molti partenti, sosteneva nel 1888 il senatore Paolo
Mantegazza, «l'America è ancora un mito, è un paese in cui si va per
fare fortuna in breve tempo. I nostri emigranti non distinguono il Nord dal
Sud, né New York da S. Paulo». Qualcosa di simile si potrebbe dire
facilmente anche riguardo ai profughi di oggi. Ma le analogie non finiscono
qui.
Anche il numero delle partenze è analogo. Oggi si parla di
milioni di persone che dal Nord Africa, dall’Africa subsahariana e dall’Asia sono
pronti a partire verso i Paesi europei, almeno inizialmente, per proseguire in
seguito verso altri continenti. Ma quanti ricordano i milioni di italiani
espatriati negli ultimi decenni dell’Ottocento e gli inizi del Novecento fino
alla prima guerra mondiale? Ebbene si tratta di oltre 14 milioni. Anche allora
una parte dei migranti si fermava in Europa, ma la maggior parte partiva per
mete oltreoceano, soprattutto Argentina, Brasile e Stati Uniti.
Trafficanti di ieri e di oggi
Oggi da parte del governo italiano e della Commissione
dell’Unione europea si dichiara la lotta agli scafisti, ai «trafficanti di
disperati», ai «moderni schiavisti» (e si spera che abbia successo), ma forse molti
non sanno che anche sulla prima ondata migratoria degli italiani verso le
Americhe c’era chi lucrava sulla povera gente. Erano i cosiddetti «agenti di
emigrazione», che reclutavano operai e contadini per conto di imprese e
compagnie di navigazione, facendo balenare loro una volta giunti a destinazione
facili fortune e ricchezze straordinarie. Ignoranti com’erano, molti si
lasciavano illudere, racimolavano il denaro necessario e acquistavano i
biglietti di viaggio.
Contro questi avidi faccendieri senza scrupoli che sfruttavano
l’ingenuità e l’ignoranza di tanti contadini soprattutto meridionali si scagliò
nel 1887 il vescovo di Piacenza oggi beato Giovanni Battista Scalabrini, definendoli
«speculatori che fanno vere razzie di
schiavi bianchi per spingerli, ciechi strumenti di ingorde brame, lontano dalla
terra natale col miraggio di facili e lauti guadagni». Secondo Scalabrini
essi non solo lucravano sul numero dei migranti che riuscivano a imbarcare, ma si
rendevano in qualche modo responsabili anche del loro triste destino, non
informandoli sufficientemente né sulla reale destinazione (condizioni
climatiche e quant’altro) né sull’attività che avrebbero svolto. Infatti «l’agente può, nella miglior buona fede,
mandare alla rovina tanta gente, non essendo egli obbligato ad avere cognizioni
su questo punto, come vi sono obbligati per esempio gli agenti Svizzeri».
Monsignor Scalabrini
non era l’unico a contestare questi intermediari «inutili e dannosi»,
perché sfruttavano non solo i poveri migranti ma anche chi li richiedeva. Anche il governo ne era a conoscenza e
dovette intervenire più volte presso i prefetti invitandoli ad essere
più vigilanti. Gli agenti vennero poi aboliti definitivamente nel 1901.
Condizioni di
viaggio disumane ieri come oggi
Anche le
condizioni di viaggio di allora e di oggi presentano somiglianze
impressionanti. Ricordava nel 1888 al Senato, nel corso della discussione della legge sull’emigrazione, il
senatore Augusto Pierantoni: « ... Nella stazione di Genova tante
volte vidi adunate in carovana emigrante le nostre classi operaie ed agricole
giacere sul nudo sasso, dormendo sotto i portici, sotto gli alberi nella piazza
ove sorge la statua di Cristoforo Colombo, aspettando l'agente di emigrazione e
l'ora dell'imbarco. Quel triste spettacolo mi premeva il cuore…».
E un altro senatore, Pietro
Manfrin Di Castione, riferiva qualche
dettaglio delle condizioni di viaggio dei migranti che s’imbarcavano a
Genova diretti alle Americhe:«La via crucis dell'esodo comincia dall'Italia
(...). Chi in questi giorni si trova a Genova ed ha veduto anche per semplice
curiosità l'imbarco di tante migliaia di individui, ed ha osservato il modo e
le condizioni con cui sono lasciati partire, non ha potuto fare a meno di
fremere di sdegno. I vapori partono carichi di carne umana, misurata a metri
cubi (...). Tutti vogliono guadagnare sul povero emigrante, anche il Municipio
di Genova….».
Purtroppo anche i
rischi dei viaggi di oggi su barconi sgangherati non sono molto diversi da
quelli che correvano i migranti italiani diretti in America. Anche allora per
questo trasporto di carne umana venivano usati piroscafi vecchi, spesso già in
disarmo, che potevano ospitare al massimo 700 persone, ma ne imbarcavano anche
più di 1000. Erano chiamati «vascelli della morte» perché non davano alcuna
garanzia di arrivare a destinazione. Di fatto i naufragi erano frequenti anche
allora con centinaia, talvolta migliaia di morti, molti dei quali migranti italiani:
576 nel 1891, 549 nel 1898, 550 nel 1906,
ecc.
Come si vede da questi
cenni, esistono molteplici analogie tra i fuggitivi di oggi e i migranti
italiani di ieri, anche se tra una realtà e l’altra è intercorso più di un
secolo. Ricordare il passato, per lo più rimosso dalla memoria collettiva
italiana, dovrebbe aiutare chiunque osserva il fenomeno degli sbarchi e dei
profughi spesso abbandonati a sé stessi a indignarsi per come talvolta vengono
trattate queste persone, per le soluzioni insoddisfacenti che sono state
adottate a livello italiano ed europeo nei loro confronti, per i tentativi ignobili
di scaricare su di essi la rabbia dei cittadini italiani più diseredati, come
se fossero loro la causa del disagio sociale, della povertà e della
disoccupazione che si sta espandendo oggi in Italia.
Gianni Morandi |
Per una politica immigratoria lungimorante e sostenibile
Ha fatto bene Gianni
Morandi a ricordare su Facebook le umiliazioni, le angherie, i soprusi e le violenze che hanno dovuto
sopportare centinaia di migliaia di italiani, nel secolo scorso, andando a cercar
fortuna e un futuro migliore per i propri figli in America, Germania, Canada...
Il ricordo del passato
dovrebbe anche aiutare, secondo me, non solo a non fare agli altri quel che è
stato fatto a tanti nostri connazionali, ma anche a considerare l’accoglienza
dei profughi di oggi come una sorta di azione riparatrice dell’Europa opulenta,
un tempo colonizzatrice di molti Paesi da cui fuggono oggi milioni di profughi,
perché se in quei Paesi ci sono guerre, povertà, corruzione, sottosviluppo, non
si può onestamente sostenere che l’Occidente sia totalmente esente da
responsabilità dirette o indirette.
Resto tuttavia
convinto che la miglior soluzione al problema di profughi, in generale, non sia «valutare l’uso della forza», come veniva proposto da più parti alla vigilia del vertice europeo di aprile sulla questione dei profughi, ma sia una
politica di aiuto ampia e coordinata dei Paesi più industrializzati per lo sviluppo serio e durevole dei Paesi da
dove si fugge, congiunta ad una moderna politica immigratoria lungimirante e
sostenibile.
Giovanni Longu
Berna, 6.5.2015
Berna, 6.5.2015
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