Nota: Questo articolo è stato scritto prima che si
conoscesse l'ennesima tragedia dei profughi in fuga verso l'Italia. Penso che ponga
un problema non solo di carattere terminologico ma anche politico, che l’ultimo
tragico evento non fa che aggravare. E’ pertanto auspicabile che la politica
internazionale trovi presto la necessaria convergenza e determinazione per
adottare soluzioni coordinate ed efficaci al grave problema di questi esodi, informando
l’opinione pubblica con un linguaggio consono e coerente (22.05.2015)
Le notizie di salvataggi in mare e sbarchi sulle coste italiane, all’ordine del giorno già da alcune settimane, saranno sempre più frequenti durante la stagione estiva. Se lo scorso anno sono sbarcate 170.000 persone, per quest’anno se ne prevedono almeno il doppio. Aumenta purtroppo anche il numero delle vittime dei frequenti naufragi. Si parla già di emergenza profughi. I centri di accoglienza sono al collasso. L’«operazione Triton» (controllo delle frontiere dell’Unione europea nel mar Mediterraneo) è ritenuta del tutto inadeguata sia per i controlli che per i salvataggi in mare.
I continui sbarchi di masse in fuga dalle guerre e dalla
miseria interpellano non solo la classe politica italiana, dell’Unione europea
e delle Nazioni Unite, ma anche le nostre coscienze. Cosa fare per gestire con
senso di umanità il fenomeno? Cosa bisognerebbe intraprendere per evitare che
tanta gente sia costretta ad abbandonare le loro terre? Come vanno considerate
le persone che arrivano da noi? Che cosa si può e si deve fare per venire
incontro ai loro bisogni? La solidarietà è solo una virtù cristiana o anche un
dovere civico?
Opinione pubblica disorientata
L’opinione pubblica è disorientata. Non riesce ad avere
risposte soddisfacenti a queste o a simili domande. A parte l’aggiornamento
pressoché quotidiano del numero degli arrivi, degli sbarchi e dei morti, con
qualche elogio sporadico alla professionalità dei soccorritori e alla
generosità dei volontari, i media non offrono spunti di discussione alla
ricerca di soluzioni sostenibili. Sembrano appiattiti sulla registrazione delle
reciproche accuse tra i partiti e delle critiche al governo Renzi per una
presunta arrendevolezza nei confronti dell’Unione europea, accusata persino dai
vescovi italiani di «lavarsene le mani». Nessuna informazione giunge
all’opinione pubblica su eventuali piani per gestire meglio il fenomeno o
addirittura per risolverlo alla radice.
Eppure l’opinione pubblica dovrebbe almeno sapere se in
questo campo sono in corso per lo meno discussioni ad alto livello (diplomazia
internazionale, Unione europea) per predisporre interventi radicali efficaci (politici,
militari, finanziari o di altro genere) o si pensa soltanto a rafforzare i
controlli alle frontiere per impedire (o ritardare?) l’assalto alla fortezza
Europa. Ogni tanto si sente parlare di interventi militari (ad esempio in
Libia) per impedire le partenze dei barconi, di organizzare nei Paesi
nordafricani centri di accoglienza e di esame delle richieste di asilo, di
predisporre massicci piani d’investimenti nei principali Paesi colpiti dalla
povertà, da cui si cerca di fuggire. Non si sente mai parlare di un comune
piano d’integrazione in Europa per poche centinaia di migliaia di persone che credono
nell'Europa come nei secoli passati gli europei hanno creduto nell'America. Forse
ci sono ancora europei che credono che la fortezza Europa sia imprendibile?
Non intendo certo incolpare i media se l’opinione pubblica è
disorientata. In effetti i media hanno il compito d’informare sui fatti e sulle
idee e se queste mancano non se le possono certo inventare immaginando di
leggere nei cervelli di Renzi, della Mogherini, di Juncker
o di altri responsabili politici italiani ed europei. Eppure anche i media sono
responsabili della maniera con cui vengono presentati i fatti e la loro
interpretazione.
Bando alle confusioni
Voglio dire che in questo campo, delicato e drammatico, le
parole contano più che mai e non mi sembra che quelle utilizzate più di
frequente siano sempre chiare, comprensibili e veritiere. Soprattutto nei
confronti delle persone che sbarcano dai gommoni o dalle navi che le hanno
soccorse in mare, indicarle in un modo o in un altro non è indifferente. Non si
può continuare a chiamarle a piacimento migranti, clandestini, richiedenti
l’asilo, profughi e quant'altro. Questi termini non sono equivalenti e le
persone a cui vengono attribuiti non sono raggruppabili in un’unica categoria.
Aggiungo che dall'uso delle parole dipende molto l’impatto
sociale che il fenomeno sta generando in Italia (per limitare l’attenzione al
Paese maggiormente coinvolto). Se, di fronte ai racconti pressoché quotidiani
degli sbarchi, ma anche purtroppo dei naufragi, e soprattutto delle difficoltà
oggettive di accogliere «dignitosamente» (come vorrebbero le regole
internazionali) tutti coloro che riescono ad approdare sul suolo italiano
l’opinione pubblica è frastornata, lo si deve anche al tipo di narrazione che
ne fanno i media e i leader politici tra due estremi: da una parte il facile buonismo
di alcuni, anche tra le alte cariche dello Stato, e dall'altra l’ingiustificata
paura di quanti si sentono minacciati dall'eccessiva presenza di stranieri,
soprattutto all'estrema destra politica.
Gli uni, che considerano gli sbarcati dei «migranti» da
soccorrere, accogliere e sistemare, peccano di ingenuità e forse anche di
falsità perché sembrano minimizzare il fenomeno e negare l’incapacità
dell’Italia (ancora in crisi) di risolverlo, soprattutto quando si tratta di
dare ai «migranti» un alloggio dignitoso e garantire una sistemazione
definitiva, ossia un lavoro, che al momento è insufficiente anche per gli
italiani.
Gli altri, che rappresentano gli sbarcati come «clandestini»
e «invasori», peccano di becera xenofobia e di smemoratezza perché sono solo
capaci di agitare spauracchi inverosimili (infiltrazione di terroristi
islamici, invasione in massa di clandestini, aumento della microcriminalità, ecc.)
e vedono nei «respingimenti» l’unica soluzione possibile. Al confronto di certi
politici italiani nemmeno Schwarzenbach, in Svizzera, era così radicale nei
confronti dell’immigrazione di massa (italiana, per chi l’avesse scordato).
Il problema del linguaggio è molto serio e spesso
sottovalutato, ma è proprio sull'uso sconsiderato delle parole che sorgono in
Italia le prime incomprensioni e le contrapposizioni politiche. In certi
ambienti, penso in particolare alla Lega Nord, si privilegia il termine
«clandestini», che è invece rifiutato nettamente da tutta l’area di
centrosinistra. In questa si parla ormai quasi esclusivamente di «migranti», più
raramente di «richiedenti l’asilo» e di «profughi».
Profughi: né migranti né clandestini
Per rendere il dibattito costruttivo e comprensibile
all'opinione pubblica, bisognerebbe fare un tentativo di convergenza nell'uso
di termini appropriati ma non divisivi. Non mi sento di dire qual è
l’espressione più adeguata per indicare le masse che approdano sul litorale
italiano, ma la mia preferenza va al termine «profughi». Sebbene in
senso proprio «profugo» indichi specialmente chi è in qualche modo «costretto a
lasciare il proprio Paese in seguito a guerre, persecuzioni politiche, calamità
naturali, ecc.», in un senso più generale rende bene il senso della fuga (profugo
deriva dal latino profugum e dal verbo profugĕre, «cercare scampo») da una
situazione pericolosa o comunque precaria (ad esempio in seguito a carestia, fame,
mancanza di lavoro).
«Profugo» non è un termine divisivo ed è conosciuto e
accettato da tutti anche nel suo significato più generale, che può ben
comprendere tanto i migranti quanto i richiedenti l’asilo, i rifugiati e
persino i clandestini.
Trovo meno adeguato il termine «migranti», anche se è
quello che ha finito per imporsi, forse in ossequio all'uso che ne fa l’ONU
(quando parla dei «migranti internazionali»), perché l’«emigrazione» in Italia evoca
la condizione di chi era sì costretto ad espatriare «per motivi di lavoro», ma
emigrava perché c’era un Paese d’immigrazione disposto ad accoglierlo e a regolarizzarlo
(o addirittura lo richiedeva, come ad esempio la Svizzera nel dopoguerra). Allo
statuto di «migrante» erano generalmente collegati un regolare permesso di
lavoro e di soggiorno, una retribuzione corrispondente, ma anche la garanzia di
poter ritornare liberamente al Paese d’origine.
Del resto la condizione di «migrante» riguarda ancora oggi
decine di migliaia di italiani, che francamente hanno ben poco in comune con i
profughi che stanno giungendo in Italia soprattutto dall'Africa e dall'Asia. Anche
per i «migranti» italiani si tratta di cercare opportunità di lavoro altrove,
ma per essi questo avviene in condizioni completamente diverse, specialmente di
libera scelta e ampie garanzie.
In quest’ottica ho trovato fuorviante l’intervento della presidente
della Camera Laura Boldrini di un mese fa nel corso della presentazione
di un suo libro. Mentre criticava l’atteggiamento di chi continua a «considerare
la migrazione una minaccia» (con evidente riferimento al leader della Lega Matteo
Salvini, pur senza nominarlo) sbagliava a mio avviso nel confondere i
«migranti» (che vanno dove c’è la domanda, come ammetteva la stessa Boldrini,
contraddicendosi) con i profughi («che non vengono da noi per motivi economici
ma scappano dalle guerre»).
Ritengo invece che il termine «clandestini», preferito
da Salvini, sia completamente inadeguato perché nei profughi che sbarcano a
Lampedusa o in Sicilia non si può ravvisare l’intenzione della clandestinità e
sicuramente non riguarda la maggioranza di essi. Oltretutto la clandestinità
viene a cadere già al momento dello sbarco con la prima identificazione. Quanto
alle espressioni «richiedenti l’asilo» e «rifugiati», ritengo che debbano
essere riservate alle persone che possono avvalersi del diritto all'asilo e
ottenere lo statuto di rifugiato, non ad altre.
Manca la soluzione!
A questo punto non vorrei apparire come uno che riduce un
problema enorme a una semplice disputa terminologica. So infatti benissimo che
la soluzione va cercata principalmente al problema non alla disputa, ma sono
convinto che a seconda della scelta delle parole si può capire meglio il da
fare e svelare le ipocrisie. I «profughi» infatti hanno soprattutto bisogno di soccorso,
accoglienza, solidarietà, prima sistemazione. La problematica dei «migranti» è
invece molto più complessa perché ha bisogno soprattutto di una politica
immigratoria seria e coerente di cui non c’è alcun indizio né in Italia né nell’Unione
europea. Anche per questo, continuare a parlare di «migranti» da soccorrere mi
sembra un’ipocrisia.
Giovanni Longu
Berna, 22.4.2015 (scritto il 18.4.2015)
Berna, 22.4.2015 (scritto il 18.4.2015)
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