02 ottobre 2024

32. L’Europa dei Papi: Giovanni Paolo II (2a parte)

Sulla conoscenza delle problematiche europee Giovanni Paolo II ha avuto, rispetto ai predecessori, un vantaggio enorme. Infatti, provenendo da un Paese del blocco orientale, la Polonia, che ha sempre avuto forti legami con l’Occidente e in particolare con la Chiesa cattolica (i polacchi sono tradizionalmente cattolici romani), poteva dire di conoscere bene l’intera Europa. Ne conosceva certamente le forti disparità economiche, sociali e culturali, ma anche le aspirazioni della parte orientale. A differenza dei predecessori, interessati soprattutto al rispetto delle libertà religiose dei cattolici spesso pregiudicate dai regimi comunisti, Giovanni Paolo II era interessato anche allo sviluppo pacifico e solidale di tutti gli europei non solo in campo religioso ma anche politico, sociale, economico, sindacale e culturale.

Nel solco della tradizione…

Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, due grandi papi per la pace.
Del papa Karol Wojtyła (1920-2005) si è parlato, in varie narrazioni riguardanti il crollo dell’Unione Sovietica e i cambiamenti epocali avvenuti in Polonia e in Europa nel corso del XX secolo, come di un taumaturgo in grado di compiere miracoli, dimenticando la lunga preparazione compiuta dai predecessori. E’ vero che, grazie alla sua sensibilità, formazione ed esperienza personale di polacco e poi di vescovo di Cracovia e di uomo di cultura ha sempre avuto una visione molto ampia dell’Europa (e del mondo) e una fede inscalfibile che l’intero continente potesse evolvere secondo principi libertari e solidaristici, ma è stato anche un protagonista del suo tempo inserito nel solco della tradizione consolidata della Chiesa costantemente aperta al dialogo con le altre religioni e specialmente con l’ortodossia orientale.

Giovanni Paolo II, ha certamente seminato molto, come si vedrà meglio nel prossimo articolo, ma ha raccolto anche molti frutti del lavoro dei predecessori, che non si erano rassegnati a vedere un’Europa divisa e incapace di svilupparsi con le proprie forze. Non va dimenticato che anche i papi che lo precedettero hanno avuto una visione unitaria dell’Europa e si adoperarono in vari modi per favorire ogni possibile forma di dialogo con i Paesi dell’est e sostenere le giuste aspirazioni dei popoli verso una maggiore libertà e prosperità.

… seguendo i grandi seminatori

Per comprendere meglio l’azione di Giovanni Paolo II in favore di un’Europa libera e cristiana, mi sembra giusto ricordare sia pure sommariamente il contesto in cui si è svolta e alcuni interventi significativi degli ultimi papi che lo precedettero stabilendo una continuità sostanziale dell’interesse della Chiesa agli sviluppi globali dell’Europa.

Già Benedetto XV, considerando la prima guerra mondiale una «inutile strage», auspicava per l’Europa trattative di pace rispettose delle aspirazioni dei popoli a una convivenza pacifica. Fu anche uno dei primi pontefici a sollevare seri dubbi sul concetto di «guerra giusta», ritenendo la guerra non conforme al Vangelo e inadeguata a stabilire il giusto e cristiano ordine della vita collettiva.

Pio XI credeva e sperava nella «conversione della Russia», soprattutto dopo aver raggiunto un accordo che consentiva a inviati della Santa Sede di dedicarsi «al miglioramento delle condizioni del popolo attraverso la distribuzione di viveri agli affamati». Grazie al suo interessamento si era potuto organizzare una Conferenza economica internazionale a Genova (maggio 1922) con la partecipazione dell’Unione Sovietica. La sua aspirazione era però di poter intrattenere con la Russia sovietica «relazioni normali nell'interesse di tutta l’Europa».

Nel 1962, l'intervento di Giovanni XXIII su Kennedy
Krusciov fermò la minaccia di un conflitto nucleare.
Pio XII, nonostante la sua pregiudiziale anticomunista, cercò in molti modi di tenere aperti i contatti con i sovietici, anche perché era convinto che le radici cristiane dell’Unione Sovietica prima o poi avrebbero rivitalizzato il tessuto sociale di quel Paese. Nel 1952, consacrò la Russia al cuore immacolato di Maria «nella sicura fiducia che col potentissimo patrocinio di Maria vergine quanto prima si avverino felicemente i voti […] per una vera pace, per una fraterna concordia e per la dovuta libertà a tutti e in primo luogo alla chiesa».

Giovanni XXIII, intervenendo nella delicata questione dei missili sovietici a Cuba, si era meritato la riconoscenza sia di Kennedy che di Krusciov. Anch'egli auspicava la completa riconciliazione dei popoli europei e la conservazione dei valori cristiani.

Paolo VI si era spinto oltre, praticando (specialmente attraverso monsignor Casaroli della Segreteria di Stato vaticana) una sorta di Ostpolitik, che mirava a stabilire buone relazioni con tutti i Paesi orientali (in particolare Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, Jugoslavia e Russia), quale condizione per uno sviluppo comune dell’Europa, rispettoso delle libertà fondamentali.

Nel frattempo anche la Germania di Willy Brandt aveva adottato una politica di distensione e di collaborazione con la Polonia e l’Unione Sovietica, favorendo la Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (1973-1975) e gli Accordi di Helsinki. Il Vaticano vi svolse un ruolo importante che Giovanni Paolo II ha proseguito. (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 02.10.2024

18 settembre 2024

31. L’Europa dei Papi: Giovanni Paolo II (1a parte)

«Nei suoi 26 anni e mezzo di pontificato, Giovanni Paolo II si è manifestato profondamente europeo, non soltanto perché, tra i Papi del Novecento, è quello che ha il più vasto insegnamento sul Continente europeo, ma anche per il suo interesse specifico per l’Europa; un interesse che era già presente in lui come sacerdote, uomo di cultura e arcivescovo di Cracovia e che con l’ascesa al Soglio Pontificio raggiunse il suo vertice». Lo affermava il cardinale Giovanni Battista Re nel 2011. Potrebbe sembrare un giudizio di parte, ma è condivisibile da chiunque conosca anche solo sommariamente la vita e i discorsi del Papa Wojtyła. Non è tuttavia pensabile di tracciare in poche righe il suo orizzonte europeo umano, culturale e religioso, per cui se ne parlerà anche nei prossimi articoli.

Wojtyła, papa «europeo»

Papa Giovanni Paolo II
Tutti i papi hanno avuto una visione universalistica del cristianesimo e della Chiesa, ma nessuno, tra quelli del Novecento, ha avuto una visione altrettanto chiara dell’Europa come Giovanni Paolo II (1920-2005). Già la sua origine polacca (la Polonia è stata per secoli un Paese conteso da tutte le grandi potenze europee), il suo cognome slavo (Wojtyła), il suo nome (Karol, che richiama facilmente i numerosi Carlo della storia europea), la sua famiglia (suo padre era stato ufficiale dell'esercito asburgico), la sua formazione durante l’occupazione nazista e comunista, ecc. non lasciano dubbi sulla sua collocazione etnico-culturale europea.

Divenuto papa nel 1978 volle assumere lo stesso nome del predecessore come se volesse continuarne il magistero dottrinale e spirituale, già tracciato dai due grandi papi del Concilio Vaticano II Giovanni XXIII e Paolo VI. Forse più di questi si è sentito investito della missione di trasferire nel mondo moderno lo spirito del Concilio. E poiché il mondo per un papa polacco, che aveva conosciuto le tragedie della seconda guerra mondiale e gli obbrobri del nazismo e del comunismo, era soprattutto l’Europa, purtroppo ancora fragile e divisa, ad essa in particolare ha dedicato attenzione, richiami e consigli.

L’Europa auspicata da Giovanni Paolo II non era tuttavia quella che si stava affermando in piena «guerra fredda», divisa in due aree contrapposte, ma l’Europa unita dall'Atlantico agli Urali, che aveva come santi patroni Cirillo, Metodio e Benedetto, i quali avevano contribuito in modo determinante a far sì che «l’Europa potesse respirare con due polmoni: quello dell’Occidente e quello dell’Oriente». Pertanto, sosteneva il papa nel 2004, «come è impossibile pensare alla civiltà europea senza l’opera e l’eredità benedettina, così non si può prescindere dall'azione evangelizzatrice e sociale dei due santi Fratelli di Salonicco». Per questa Europa cristiana e per questa civiltà europea Giovanni Paolo II si è prodigato durante tutta la sua vita.

Non è dato sapere quanto il papa polacco abbia contribuito ad avviare il processo di riunificazione e di rivitalizzazione dell’Europa, ma è stato certamente importante. Basti pensare al suo impegno per la pace e contro la guerra, ai richiami frequenti alla solidarietà, alle condanne del totalitarismo e del capitalismo sfrenato, al suo sostegno al sindacato polacco «Solidarność», alla sua apertura al Cremlino e al suo contributo, indiretto ma reale, alla caduta del muro di Berlino e alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Già queste indicazioni sono sufficienti a fare di Giovanni Paolo II un gigante della recente storia europea.

«Principi non negoziabili»

Il papa Giovanni Paolo II non ha fatto un elenco di «principi non negoziabili», ma li ha evidenziati in numerosi discorsi. Per comprendere meglio il suo atteggiamento verso l’Europa di cui si tratterà nei prossimi articoli, tra questi principi si possono qui ricordare: la sacralità della vita, il rispetto della dignità della persona umana, le libertà e i diritti fondamentali degli individui e dei popoli, la solidarietà sociale e internazionale per garantire la pace, superare la supremazia dell’avere sull'essere e il contrasto drammatico tra opulenza (di gruppi sociali eccessivamente ricchi) e le masse dei poveri, privi del necessario nutrimento, di possibilità di lavoro, di istruzione e di cure adeguate, l’incompatibilità tra la produzione delle armi e la lotta alla fame, alle malattie, al sottosviluppo e all'analfabetismo.

Alla luce di questi principi sarà più facile comprendere l’impegno di Giovanni Paolo II per l’unità dell’Europa, il suo invito a non aver paura («Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, non abbiate paura!»), i suoi richiami a un «umanesimo vero», l’invito a ricercare le «radici cristiane delle nazioni europee» (non per vantare nobili origini ma «per offrire una indicazione alla vita di ogni singolo cittadino, e dare un significato complessivo e direzionale alla storia che stiamo vivendo, talvolta con allarmante angoscia»). (Segue)

Giovanni Longu
Berna 18.09.2024

11 settembre 2024

30. L’Europa dei Papi: Giovanni Paolo I

Per segnalare che intendeva continuare il cammino di rinnovamento della Chiesa tracciato da Giovanni XXIII e proseguito da Paolo VI, il successore di quest’ultimo, il cardinale Albino Luciani, prese il nome di entrambi: Giovanni Paolo I. Morto dopo soli 33 giorni di pontificato, non ebbe il tempo di incidere profondamente sul cambiamento che il Concilio aveva prescritto alla Chiesa. Ciononostante è ancora presente nella memoria di molti cristiani come il «Papa del sorriso» e, dal 2022, come «Beato Giovanni Paolo I». Il suo pensiero sull'Europa resta incompiuto, ma chiaro e merita di essere richiamato in questa serie di articoli volta a evidenziare le radici cristiane del continente.

Per un’Europa «cristiana»

Giovanni Paolo I, «papa del sorriso»
Albino Luciani (1912-1978) divenne papa nel 1978 quando era patriarca di Venezia da otto anni, un periodo abbastanza lungo per consentirgli di capire quello spirito aperto al mondo che si può respirare in una città simbolo di mediazione tra Occidente e Oriente. L’Europa auspicata da papa Giovanni Paolo I era un continente che prescindeva dai blocchi creatisi nel dopoguerra e che andava dall'Atlantico agli Urali. Era anche l’Europa dei suoi predecessori di cui aveva ripreso il nome e che volevano l’apertura della Chiesa al mondo e il dialogo tra tutte le comunità cristiane e soprattutto con le Chiese orientali. «Vogliamo continuare l’impegno ecumenico... con attenzione a tutto ciò che può favorire l’unione» aveva dichiarato nel suo primo messaggio Urbi et orbi del 27 agosto 1978.

Giovanni Paolo I, come i predecessori, non aveva dubbi che la nuova Europa avesse un’«anima cristiana» perché «cristiane» erano le sue radici e «cristiani» erano i suoi fondatori. Ispirandosi a Pio XII sosteneva che per svilupparsi non dovesse basarsi su una qualche idea romantica di super-nazione, ma sul «dialogo sereno e costruttivo», sullo sviluppo comune, in un clima di giustizia, solidarietà, fratellanza. Costatava comunque con amarezza che in Europa si stavano perdendo i valori del Vangelo e auspicava che la Chiesa contribuisse con tutte le sue forze a creare quel «clima di giustizia, fratellanza, solidarietà e speranza, senza la quale il mondo non può vivere».

Condividendo il pensiero sull'Europa dei predecessori, anche Giovanni Paolo I era convinto che dopo la morte del famoso trio Schuman-De Gasperi-Adenauer il loro esempio rischiava una pericolosa soluzione di continuità per il diffondersi del materialismo, del marxismo, del comunismo, del laicismo e, a livello politico, per il riemergere in molte parti di interessi nazionalistici. Trovava nefasto che ci fossero in Europa uomini politici che «continuano a opporre veti nazionali alle proposte di respiro europeo, dimenticando che solo unita l’Europa potrà giocare il ruolo di protagonista nei problemi internazionali».

Sulla CEE (Comunità Economica Europea) Giovanni Paolo I condivideva le buone intenzioni iniziali perché si prefiggeva «l’eliminazione tra gli associati degli ostacoli alla libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali, una comune politica dell’agricoltura e dei trasporti, garanzie per tutelare la concorrenza, un fondo sociale europeo per migliorare l’occupazione e altro ancora», ma ne vedeva anche le criticità: era qualcosa di più che un’unione doganale, ma molto carente politicamente e socialmente.

Pericolosità dei nazionalismi

Papa Luciani si rendeva conto che almeno per il momento l’esistenza dei due blocchi era insuperabile, ma ne auspicava la fine e riteneva insufficiente la distensione che si registrava negli anni Settanta tra le due superpotenze. Trovava invece pericolosi e perciò da arginare i nazionalismi, perché non favorivano la pace. Riteneva anche che i governi nazionali, «depositari di ogni volontà decisionaria», non favorissero l’Unione Europea, per la quale auspicava «uno dei tanti sistemi federali». Il federalismo, se bene applicato, avrebbe limitato il potere dei singoli Stati avvantaggiando l’Europa nel suo complesso grazie al «principio di sussidiarietà», secondo cui ciò che il singolo Stato non può fare con le proprie forze «può essere demandato alla comunità europea».

Giovanni Paolo I non ebbe il tempo di esprimersi ulteriormente sull'Europa, ma i principi che avrebbe potuto sviluppare erano noti, tanto è vero che nel 1977 tutti gli episcopati europei erano concordi sull'esigenza che la Chiesa non dovesse restare indifferente di fronte al processo di una sempre più stretta integrazione europea, per evidenziare le radici cristiane della nuova Europa. L’episcopato belga ricordava anche che lo stesso umanesimo, la tolleranza, la democrazia, il pluralismo, ecc. provenivano dal Vangelo e concludeva un suo intervento affermando che i popoli europei «continueranno a dare solo se aumenteranno il loro peso morale con un’unione più stretta e omogenea». Era anche l’auspicio di Giovanni Paolo I.

Giovanni Longu
Berna, 11.9.2024

28 agosto 2024

29. L’Europa dei Papi: Paolo VI

Nel 1963, per i cardinali riuniti in conclave non fu semplice trovare il successore di Giovanni XXIII, che aveva impresso una svolta importante al Papato e alla Chiesa con due incisive encicliche sociali e, soprattutto, con l’indizione del Concilio Vaticano II. Non tutti i cardinali condividevano infatti l’apertura voluta dall'anziano papa Roncalli, perché comportava mutamenti profondi nella Chiesa e nei rapporti col mondo. Per l’elezione del nuovo papa ci vollero ben cinque scrutini. Eleggendo il cardinale Giovanni Battista Montini, la maggioranza dei cardinali optò per il cambiamento nella continuità e individuò nel cardinale lombardo la persona giusta nel momento giusto perché la sua preparazione e la sua esperienza davano garanzie sufficienti per la continuità della Chiesa, ma anche per il suo rinnovamento.

Continuità e rinnovamento della Chiesa

Il neoeletto papa, che prese il nome di Paolo VI, non solo conosceva bene la Chiesa per averla rappresentata come vescovo della grande diocesi di Milano e come fine diplomatico alle dipendenze di Pio XI e Pio XII, ma l’amava intensamente: ne amava le origini, la tradizione, ma anche il presente (per la sua capacità di rinnovarsi, di aprirsi al mondo, di dialogare con tutti, come voleva il Concilio) e il futuro (in cui vedeva anche un’Europa più unita e più attiva nella salvaguardia della pace nel mondo e dei grandi valori della civiltà).

In questa sua visione riformista e ottimistica, Paolo VI decise non solo di proseguire e portare a termine il Concilio Vaticano II che il suo predecessore aveva lasciato aperto, ma anche di applicarne gli insegnamenti. Anch'egli, infatti, considerava il Concilio una benedizione divina perché dava alla Chiesa l’opportunità di rinnovarsi internamente, ma anche una responsabilità.

Paolo VI ne diede un grande esempio, con tre splendide encicliche (Ecclesiam suam, Populorum progressio ed Evangelii nuntiandi), numerosi discorsi e incontri a tutti i livelli, per favorire il rinnovamento della Chiesa, la pace nel mondo, il dialogo con tutti e soprattutto con i fratelli orientali. Per essere efficace, però, la Chiesa doveva presentarsi unita, rispettando «quella mistica unità, che Cristo lasciò ai suoi Apostoli […] come suprema esortazione!».

Apertura al mondo

Paolo VI e Atenagora nel 1964
Paolo VI s’impegnò moltissimo per la pace e la concordia tra i popoli, esortando i grandi della terra rappresentati alle Nazioni Unite (4 ottobre 1965) a bandire dalle relazioni internazionali la guerra: «Mai più la guerra, mai più la guerra!». Non si accontentò tuttavia delle esortazioni, ma propose anche soluzioni, specialmente nell'enciclica Populorum progressio, dove affermò che «lo sviluppo è il nuovo nome della pace», da intendersi come «lo sviluppo integrale dell’uomo e lo sviluppo solidale dell’umanità».

La volontà di apertura al mondo non poteva escludere quella parte che non condivideva i valori e gli sviluppi dell’Occidente e la Chiesa doveva prestare ascolto e dialogare anche con i popoli dell’Est, provvisoriamente lontani. In molti modi Paolo VI favorì il disgelo e la distensione nelle relazioni tra URSS e Occidente, come richiedeva anche il Concilio. Non si trattava di venire a compromessi sulla dottrina, ma di essere pronti all'ascolto e aperti al dialogo.

Una grande dimostrazione delle reali possibilità di dialogo fu l’incontro a Gerusalemme nel 1964 tra il papa Paolo VI e il patriarca ecumenico di Costantinopoli Atenagora. Il loro «abbraccio di pace» fu il primo passo verso la riconciliazione ancora incompiuta tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa d’Oriente dopo lo scisma del 1054.

Richiami all'unità europea

In questo processo d’integrazione europea dall'Atlantico agli Urali, Paolo VI riteneva che l’Europa dovesse assumere responsabilmente un ruolo da protagonista, perché «l’Europa fonda nel patrimonio tradizionale della religione di Cristo la superiorità del suo sistema giuridico, la nobiltà delle grandi idee del suo umanesimo, così come la ricchezza e i principi che distinguono e vivificano la sua civiltà», i cui valori essenziali sono «la libertà; la giustizia, la dignità personale, la solidarietà, l’amore universale».

Inoltre, secondo Paolo VI, per essere efficace l’Europa occidentale doveva presentarsi unita anche perché, quando nel 1963 Montini divenne papa, i padri fondatori della Nuova Europa erano usciti di scena: De Gasperi e Robert Schuman erano morti (risp. nel 1954 e nel 1963) e Adenauer nel 1963 si era ritirato dalla vita politica. L’ideale dell’Europa unita non era stato abbandonato, ma allo slancio profetico degli iniziatori era subentrata la burocrazia di complessi accordi commerciali e una minore disponibilità degli Stati membri a sacrificare in nome dell’unità una parte dei rispettivi particolarismi.

Giovanni Longu
Berna, 04.09.2024

21 agosto 2024

28. L’Europa dei Papi: Giovanni XXIII

Pio XII dovette lottare contro alcuni pericolosi nemici non solo della Chiesa, ma anche dell’Europa cristiana: il nazismo, il fascismo, il nazionalismo, il materialismo, il comunismo, il laicismo, ecc. I suoi successori se li ritrovarono tutti ad eccezione dei primi due spazzati via dalla seconda guerra mondiale. Ad essi si aggiunsero, purtroppo, anche i rischi di una nuova guerra mondiale, non essendo stati scongiurati né dai trattati di pace né dall'inadeguatezza della guerra per risolvere i problemi internazionali, come avevano evidenziato sia Benedetto XV che Pio XI e Pio XII. Il pericolo era addirittura cresciuto perché le grandi potenze disponevano di potenti armi atomiche. Giovanni XXIII, succeduto a Pio XII, si trovò investito di una enorme responsabilità di fronte sia alla Chiesa e sia al mondo, ma seppe reagire con genialità e intraprendenza.

Giovanni XXIII e la difficile eredità

Giovanni XXIII, «il «Papa buono», pro-
clamato santo nel 2014 da papa Francesco

Alla morte di Pio XII (1958), ai cardinali riuniti in conclave per l’elezione del nuovo papa sembrava impossibile trovare la persona giusta, che non rischiasse di essere messa in ombra dalla grandezza del predecessore. Pensarono perciò a un «papa di transizione», Angelo Giuseppe Roncalli (1881-1963), già 77enne, in attesa che si profilasse una figura corrispondente alle esigenze del mondo in rapida trasformazione. Si sbagliarono, perché il neoeletto, che prese il nome di Giovanni XXIII, capì subito le vere esigenze della Chiesa e del mondo in quel momento e ne fornì in pochi anni le risposte magistrali con due encicliche memorabili (Mater et Magistra e Pacem in Terris) e con l’indizione del Concilio Vaticano II.

Attraverso le encicliche Giovanni XXIII ha voluto anzitutto precisare che per la Chiesa il centro focale della società e degli Stati è l’uomo creato da Dio «a sua immagine e somiglianza», «dotato di intelligenza e libertà», secondo un ordine «meraviglioso» che tutti dovrebbero rispettare. In questo universo ordinato, la Chiesa è presente come «madre e maestra di tutte le genti», perché il suo Fondatore Gesù Cristo le ha affidato il compito «di generare figli, di educarli e reggerli, guidando con materna provvidenza la vita dei singoli come dei popoli, la cui grande dignità essa sempre ebbe nel massimo rispetto e tutelò con sollecitudine».

Centralità della persona umana…

Pertanto, la Chiesa, secondo Giovanni XXIII, benché abbia innanzi tutto il compito di «santificare le anime e di renderle partecipi dei beni di ordine soprannaturale», non può trascurare le «esigenze del vivere quotidiano degli uomini, non solo quanto al sostentamento ed alle condizioni di vita, ma anche quanto alla prosperità ed alla civiltà nei suoi molteplici aspetti e secondo le varie epoche». L’uomo è visto «nella sua concretezza, spirito e materia, intelletto e volontà» ed è invitato «ad elevare la mente dalle mutevoli condizioni della vita terrestre verso le altezze della vita eterna».

Coerentemente, Giovanni XXIII ha dedicato la sua prima enciclica Mater et magistra (del 15 maggio 1961) non a temi teologici (per i quali aveva probabilmente già in mente l’indizione di un apposito Concilio), ma ai problemi sociali dell’uomo moderno, sviluppando temi già trattati dai suoi predecessori, soprattutto Leone XIII, autore dell’enciclica Rerum novarum, del 1891. Questa scelta è stata forse motivata anche dalla consapevolezza che, se non si pone a fondamento delle attività umane (non solo economiche ma anche sociali e politiche) «la dignità della persona umana», difficilmente si possono regolare i rapporti interpersonali e internazionali secondo i principi della «solidarietà umana» e della «fratellanza cristiana».

…e del «bene comune universale»

I principi applicabili in campo economico e sociale per Giovanni XXIII dovevano essere validi anche nei rapporti internazionali, alla base dei quali ce ne sono tuttavia anche altri, in particolare questo: «il conseguimento del bene comune è l'unica ragione dell'esistenza delle autorità civili» a livello nazionale e internazionale. Concretamente questo comporta, come si legge nella seconda enciclica Pacem in terris dell’11 aprile 1963 il riconoscimento che ogni essere umano «è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura […] e perciò universali, inviolabili, inalienabili». Non c’è dubbio che tra i diritti inalienabili ci sia anche quello di vivere in pace.

Scrivendo questa enciclica Giovanni XXIII aveva in mente il mondo intero e la Chiesa universale, ma non c’è dubbio che i principi enunciati, se applicati, avrebbero costituito una valida deterrenza contro il deteriorarsi della situazione europea durante la guerra fredda e forse anche oggi. Del resto si sa quanto sia stato determinante nel 1962 l’intervento di Giovanni XXIII nella soluzione della crisi dei missili a Cuba, quando si rischiò un conflitto nucleare. 

Mentre si stava aprendo il Concilio Vaticano II, sollecitato dal presidente cattolico americano Kennedy, Giovanni XXIII intervenne discretamente ma decisamente con la preghiera per il «bene supremo della pace» e un forte appello a coloro che avevano la responsabilità del mondo, perché «con la mano sulla coscienza, ascoltino il grido angoscioso che da tutti i punti della terra, dai bambini innocenti agli anziani, dalle persone alle comunità, sale verso il cielo: Pace! Pace!». La guerra fu evitata e sia Kennedy che Kruscev gli furono riconoscenti.

Giovanni Longu
Berna 21.08.2024

07 agosto 2024

27. Che fine hanno fatto le «radici cristiane»?

Con questo interrogativo si chiudeva l’articolo precedente sulle «radici cristiane» dell’Unione Europea (UE) e non era fuori luogo perché l’Europa, che si era formata fino alla prima guerra mondiale attingendo energie vitali dalla tradizione cristiana, dalla morte dei tre fondatori (De Gasperi, Adenauer e Schuman) della prima Comunità europea sembra aver dimenticato cosa è stata l’Europa da Carlo Magno in poi e soprattutto la spinta ideale che il trio ha impresso alla nuova Europa dopo lo sfacelo della seconda guerra mondiale. Sarebbe interessante esaminare le cause di questo oblio, ma richiederebbe troppo tempo e spazio. Lo si farà, comunque, almeno in parte, nei prossimi articoli, ricordando i numerosi richiami dei Papi a non dimenticare le «radici cristiane» dell’Europa.

Il discrimine della seconda guerra mondiale

La seconda guerra mondiale ha segnato una netta separazione tra passato e futuro dell’Europa. Il passato è stato visto come nefasto e da evitare in ogni modo alle nuove generazioni. Il futuro avrebbe dovuto essere non solo diverso dal passato, ma anche strutturato in modo da scongiurare il rischio di tragedie come quelle vissute e consentire uno sviluppo comune per soddisfare le aspettative dei vari popoli europei. Per secoli il Cristianesimo aveva tenuto unita l’Europa e grazie ad esso aveva raggiunto la massima estensione dall'Atlantico agli Urali.

Il trio Schuman, De Gasperi e Adenauer aveva trovato per così dire la «formula magica» per correggere gli errori del passato ed evitare gli stessi nel futuro. La nuova Europa doveva rassomigliare il più possibile a una Comunità in cui le risorse fondamentali sono gestite in comune e le regole sono condivise da tutti e rispettose dei diritti fondamentali di tutti.

Inoltre, aldilà delle regole, doveva valere il principio della solidarietà tra i popoli, per cui i rappresentanti delle istituzioni dovevano essere espressione almeno indiretta della volontà popolare (democrazia), i popoli che si erano in passato combattuti dovevano riconciliarsi e riconoscersi reciprocamente, la «Comunità Europea di Difesa» (CED) doveva servire per avere maggiori possibilità di consolidarsi e svilupparsi, mai perdendo di vista l’obiettivo della cooperazione solidale e della prosperità comune.

Che fine hanno fatto le radici cristiane?

Difficilmente le radici profonde e robuste soccombono alle intemperie e alla furia degli incendi, per cui è da escludere che le radici cristiane siano morte. Del resto la pianta, l’UE, è ancora viva, anche se non tutti i frutti corrispondono probabilmente a quelli auspicati dal famoso trio. Non si spiegherebbero, inoltre, tutti i tentativi dei Papi, da Giovanni XXIII (1881-1963) in poi, a tener viva in Europa la fede cristiana, il rispetto dei sacri valori della vita e della morte, della libertà, dei diritti dei popoli e delle persone, la solidarietà, la cooperazione internazionale, la prosperità comune.

Ciascun papa, come si vedrà nei prossimi articoli, ha richiamato secondo la propria sensibilità qualche valore cristiano trascurato o minimizzato, ma tutti in una maniera o nell'altra hanno evidenziato mali presenti e pericoli futuri dovuti al nazionalismo, al capitalismo, al materialismo, a una eccessiva secolarizzazione, ecc. I tre fondatori intuirono la fragilità della loro «invenzione» fin dal 1952, quando videro fallire sul nascere la CED perché i francesi le negarono il sostegno. A loro fu risparmiata invece la delusione del rigetto (2003), soprattutto da parte francese, di un progetto di «Costituzione europea» che conteneva vaghi riferimenti alle «eredità culturali, religiose e umanistiche dell'Europa», senza alcun accenno alle «radici cristiane» su cui aveva più volte insistito Giovanni Paolo II (1920-2005).

Non fermarsi alla prima tappa!

Del resto, numerose proposte di riforma sono state bloccate da veti incrociati, i nazionalismi hanno rialzato la testa, al bene comune si sono spesso anteposti il primato della propria «nazione» e questioni economiche. D’altro canto gli stimoli per guardare avanti non mancano. La visione all'epoca considerata utopistica dell’europeista spagnolo Díaz de Morales Bernuy (1792-1850), secondo cui l’Europa rappresentava già nell'Ottocento una grande e unica nazione, che spaziava dalla Gran Bretagna alla Russia, dai Paesi scandinavi all'Africa settentrionale e al Medio oriente, non è del tutto estranea agli interessi dell’UE (anche se, per esempio, il «Piano Mattei» ha altri obiettivi). E anche se si parla quasi solo in termini molto vaghi di Stati Uniti d’Europa perché nessuno Stato sembra disposto a rinunciare a una parte della propria sovranità, l’obiettivo resta.

Infine, l’osservazione di Jean Monnet (1888-1979), grande ispiratore della dichiarazione di Robert Schuman sulla creazione della CECA, secondo cui questa Comunità doveva essere considerata «la prima tappa verso una federazione europea» andrebbe presa sul serio e proseguire decisamente il processo integrativo. Gli interventi dei Papi, come si vedrà, vanno tutti in questa direzione. E’ fondamentale non perdere di vista gli obiettivi.

Giovanni Longu
Berna, 7 agosto 2024.

 

31 luglio 2024

26. Il «trio» De Gasperi, Adenauer e Schuman (terza parte/fine)

Nessuno mette in dubbio il ruolo fondamentale del trio De Gasperi, Adenauer e Schuman nell'avvio dell’integrazione europea, mentre pochi sembrano disposti a riconoscergli un ruolo determinante nella caratterizzazione delle istituzioni europee nascenti con connotazioni «cristiane». L’esitazione è dovuta probabilmente alla difficoltà di identificare questi caratteri particolari nelle scelte e nelle azioni del trio e forse anche alla costatazione che alcuni di quei valori si sono, purtroppo, persi o affievoliti nel tempo. Eppure, in De Gasperi, Adenauer e Schuman, ferventi cattolici praticanti, i valori «cristiani» erano esistenziali, facevano parte dei loro comportamenti, della loro vita privata e pubblica e quindi anche delle loro decisioni politiche.

Scelte fondamentali

Roma 1957: firma dei Trattati istitutivi della Comunità economica europea (CEE)
e della  
Comunità europea dell'energia atomica (Euratom). 
De Gasperi, Adenauer e Schuman, ben conoscendo, loro malgrado, gli orrori della guerra e memori dell’ammonimento di Pio XII «nulla è perduto con la pace; tutto può esserlo con la guerra» erano convinti che all'«inutile strage» (Benedetto XV) si potesse efficacemente contrapporre «una pace conforme alla dignità dell'uomo e alla coscienza cristiana» non come «una dura imposizione della spada», bensì come «il frutto di una previdente giustizia e di una responsabile equità verso tutti» (Pio XII, 24.12.1943).

L’impegno politico fu per tutti e tre una conseguenza logica e irrinunciabile delle loro convinzioni religiose. Lo considerarono una «missione» da compiere con tutte le loro forze. Favorirono anzitutto la riconciliazione tra Paesi che si erano aspramente combattuti e s’impegnarono a diffondere nell'Europa occidentale (perché era impossibile agire contemporaneamente anche in quella orientale) un sincero spirito di fratellanza, le libertà fondamentali, la democrazia parlamentare, la solidarietà, la libertà religiosa, i valori cristiani.

Con lo stesso spirito, De Gasperi, Adenauer e Schuman decisero di dar vita alla prima Comunità europea, la CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), in cui non è difficile vedere anche nel nome un richiamo sottile alla condizione delle prime comunità cristiane in cui «fra loro tutto era comune» (cfr. articolo del 17.07.2024). La solidarietà doveva essere un carattere fondamentale della nuova Europa.

Un’altra caratteristica «cristiana» del trio, che permeerà la sua azione politica nel progetto di costruzione europea, era anche il rigetto dei nazionalismi. Per Adenauer la frammentazione dell’Europa era un anacronismo, un non-senso. Il suo partito democristiano (CDU) sosteneva che «le cose miglioreranno solo se cambia l’ideologia della nazione». Per De Gasperi «l’Europa esiste nella sua essenza, ma è visibilmente sminuzzata e tagliuzzata da divisioni territoriali, barriere economiche, rivalità nazionali. […] L’Europa esiste, ma è incatenata; sono questi ferri che bisogna spezzare. Le nostre strutture politiche accusano terribilmente la loro arteriosclerosi».

Inoltre, quando il trio parlava del popolo, anzi dei popoli, non si trattava solo dell’abbandono di un corporativismo di classe, ma dell’affermazione di un principio della dottrina sociale cattolica, valido per tutti i popoli della terra. A questo principio si ispirava De Gasperi quando sosteneva: «né capitalismo né comunismo, ma solidarismo di popolo».

Apertura all’Oriente

In questa prospettiva universalistica s’inseriva anche l’idea del trio dell’unità dei popoli europei, da raggiungere non solo eliminando le guerre, ma costruendo insieme l’Europa, con l’apporto specifico delle peculiarità di ognuno. Non si trattava semplicemente di cancellare i nazionalismi, le nazioni e le patrie, ma di dare a tutte le persone il senso di appartenenza a una patria comune con culture diverse e valori condivisi con riferimenti sicuri come la cultura umanistica, la fede giudaico-cristiana, la prospettiva di pace e di prosperità comune.

La prima Comunità europea, su iniziativa del trio Schuman, Adenauer, De Gasperi,
era costituita da: Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. 

Nonostante l’apparente contraddizione della scelta di stare nel blocco occidentale (antisovietico), dell’adesione alla NATO e della proposta (poi bocciata dalla.
Francia) di una Comunità Europea di Difesa, era comune nel trio la convinzione che l’Europa per salvarsi e godere una pace duratura dovesse essere unita e indipendente, dall'Atlantico agli Urali, e che prima o poi i blocchi sarebbero crollati. Pertanto, l’Occidente non doveva chiudersi. Anzi, sosteneva Schuman, «noi dobbiamo fare l’Europa non solo nell'interesse dei popoli liberi, ma anche per potervi accogliere i popoli dell’Europa Orientale […] quando ci chiederanno la loro adesione e il loro appoggio morale».

Del resto, nessuno del trio pensava che i blocchi fossero destinati a durare per sempre. In un discorso pronunciato alla radio italiana il 5 gennaio 1952, De Gasperi, riferendosi al progetto di Comunità Europea di Difesa, in cui si discuteva di armi, di riarmo, di necessaria difesa, di mettersi insieme per la difesa delle proprie libertà, avvertì di non confondere quella che è l’occasione, il mezzo, la via per la costruzione, cioè il punto di partenza, con la costruzione stessa, con l'ideale verso cui tendiamo. «Non è che vogliamo creare un’organizzazione di armati, un campo trincerato in cui sia sempre necessario stare in armi per difenderci. Niente affatto. Cerchiamo di metterci insieme a difendere la nostra vitalità, le nostre possibilità di sviluppo per scoraggiare i tentativi che possono venire da qualsiasi parte per renderci impossibile questo sviluppo. Non è detto che questo sforzo debba durare eternamente, ma solo per il periodo critico, superato il quale, questa impresa si svilupperà permanentemente nella nostra vita collettiva» 

Effettivamente, soprattutto dopo la morte di Stalin (1953), i rapporti commerciali e culturali con i Paesi dell’Est europeo cominciarono a migliorare, benché fossero ancora molto limitati. Anche il Vaticano cercò di utilizzare tutte le possibilità di dialogo che si presentavano (specialmente attraverso l'Ambasciata sovietica a Roma, contatti personali di alti prelati, viaggi esplorativi, tentativi di riallacciare rapporti diplomatici, ecc.) e non poteva non tener conto dell'atteggiamento di apertura del trio.

Grazie al trio!

Sebbene il processo d’integrazione europea non sia ancora finito, i blocchi non siano stati ancora definitivamente superati e non si sia nemmeno riusciti a estirpare dall'Europa il germe della guerra, la gratitudine nei confronti del trio De Gasperi, Adenauer e Schuman dovrebbe essere senza riserve. Infatti, essi hanno posto alla base della costruzione europea solide fondamenta. Tra esse non si dovrebbero mai dimenticare quelle «cristiane», perché così hanno voluto i fondatori, dei quali facilmente si scorda che erano nella vita, privata e pubblica, ferventi cristiani: Robert Schuman, cresciuto in una famiglia cattolica, era stato educato fin da bambino alla preghiera e alla partecipazione giornaliera alla Santa Messa; anche Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi erano cresciuti in famiglie molto religiose e furono essi stessi per tutta la vita cattolici praticanti. In una lettera, Adenauer scrisse a Schuman: «Forse noi due siamo chiamati da Dio a dare un contributo prezioso per i nostri fini comuni in un momento decisivo per l’Europa».

De Gasperi morì nel 1954, Schuman nel 1963, Adenauer nel 1967. La Chiesa cattolica, prudente e severa nel riconoscere la pratica delle virtù cristiane nei suoi fedeli, ha avviato da alcuni anni per i primi due, Schuman e De Gasperi, una causa di beatificazione. Nel 2004, al termine del processo diocesano (Metz) di beatificazione, Schuman fu proclamato «Servo di Dio» e i documenti sono attualmente allo studio a Roma. Alla sua morte, il presidente del Parlamento europeo Gaetano Martino gli rese omaggio con queste parole: «Robert Schuman è stato un uomo di fede. Ha infuso alla sua opera la fede profonda, indistruttibile che l’animava…». Il 19 giugno 2021 De Gasperi è stato dichiarato da Papa Francesco «Venerabile Servo di Dio». Anche per Adenauer da tempo numerosi cattolici tedeschi chiedono l'avvio della causa di beatificazione.

Dai tempi di Schuman, De Gasperi e Adenauer il processo d’integrazione europea non si è più fermato, da sei Paesi membri si è passati agli attuali 27 e per altri Stati sono in corso trattative per l’adesione all'Unione. Certamente il trio ne andrebbe fiero, perché l’ampliamento era auspicato, ma forse chiederebbe ai nuovi dirigenti che fine hanno fatto le «radici cristiane» delle Comunità europee, perché i nazionalismi non sono ancora morti e l’orizzonte orientale si è persino ridotto, essendo bloccato molto prima della vista degli Urali. Potrebbe anche chiedere agli europei dell’UE se sono contenti dello stato della «Comunità», quali sono i loro sogni e le loro visioni, quali traguardi vorrebbero ancora raggiungere nei campi dei diritti umani, della lotta alla povertà, dell’integrazione dei popoli e delle culture, della libertà religiosa, della coesione e dell’unione, ecc. ecc.

Le risposte sarebbero molto interessanti e utili, ma dubito che gli attuali dirigenti dell’UE avrebbero voglia di rispondere a simili domande e a questa in particolare: che fine hanno fatto le «radici cristiane»?

Giovanni Longu
Berna 31.07.2024

24 luglio 2024

25. Il «trio» De Gasperi, Adenauer e Schuman (seconda parte)

I padri dell’«Unione europea» furono molti, ma tre in particolare sono stati sempre ritenuti tali e per questo considerati spesso come un «trio» indissolubile: De Gasperi, Adenauer, Schuman (cfr. articolo precedente). In realtà, poiché erano sei i Paesi firmatari della prima Comunità europea, anche i fondatori dovrebbero essere almeno sei, ai quali ne andrebbero comunque aggiunti altri (per es. il francese Jean Monnet, l’italiano Altiero Spinelli) per il loro apporto straordinario di idee e di stimoli innovativi. Tuttavia, poiché in questi articoli non si tratta della storia dell’Unione europea (UE) ma delle sue «radici cristiane», per stare in tema molti nomi vengono citati solo occasionalmente. Non si può invece fare a meno di soffermarsi ancora sul trio, perché oltre ad essere i rappresentanti degli Stati principali (Italia, Germania, Francia) hanno caratterizzato il processo d’integrazione europea con ideali, valori e metodi.

La «matrice cristiana»

Il Piano Marshall garantì all'Italia: grano, carbone, materie prime per la ricostruzione...
Ad alcuni, oggi, potrebbe suonare strano parlare di «radici cristiane» o «matrice cristiana» dell’UE, ma è inevitabile che se ne parli perché i tre protagonisti erano cattolici praticanti, avevano una visione cristiana della vita e della storia, attingevano i loro valori personali e collettivi dal Vangelo, sognavano probabilmente un’UE diversa da quella di oggi, divenuta troppo dipendente dagli Stati/governi e meno dai Popoli e dagli ideali da perseguire, troppo concentrata sulla difesa e sugli armamenti e meno impegnata a «sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-decisione dei popoli» (Carta ONU), ancora troppo di parte (blocco occidentale) e meno impegnata a «rafforzare la pace universale», come se le decisioni prese a Jalta fossero irremovibili e nella scena mondiale l’Europa dovesse accontentarsi di un ruolo subalterno e non da protagonista.

A scanso di equivoci vorrei precisare che i tre, per le loro convinzioni religiose, non solo non erano indifferenti agli avvenimenti, ma erano talmente immersi nella realtà da pensare di poterla e di doverla trasformare progressivamente. Dagli eventi erano stati temprati sia alla fermezza dei valori (quando di fronte ai regimi totalitari, piuttosto che accettarli, preferirono subire divieti, limitazioni e il carcere) che a un sano realismo delle azioni politiche (quando per risollevare i loro popoli dallo sfacelo della guerra accettarono l’aiuto americano e di fronte alla possibilità di un’aggressione sovietica - come avveniva nei Paesi dell’est europeo - preferirono di farsi difendere dagli USA). Negli eventi drammatici della guerra avevano anche maturato un sano ottimismo: il diritto e la pace finiscono sempre per trionfare!

Tutti e tre erano comunque convinti che l’Europa dovesse riacquistare quanto prima la propria autonomia e superare le divisioni imposte dalle grandi potenze. Adenauer puntava a una piena riconciliazione con la Francia. Schuman sosteneva che non si dovesse continuare a odiare i tedeschi. De Gasperi cercava un buon compromesso con l’Austria. Tutti e tre vedevano nella collaborazione internazionale il superamento dei nazionalismi spinti e una via per realizzare l’integrazione europea. Tutti e tre ritenevano fondamentale che l’Europa si ricostruisse e si sviluppasse non solo su basi democratiche (libertà fondamentali, suffragio universale, uguaglianza dei diritti e dei doveri dei cittadini), ma anche cristiane (spirito di fratellanza, solidarietà, generosità). Per questo sono stati tutti e tre fortemente impegnati in tre partiti di matrice «democristiana», dove la connotazione «cristiana» era ritenuta irrinunciabile.

Piano Marshall e NATO

Fu dettato dal senso della realtà l’adesione dei Paesi occidentali al famoso «Piano Marshall» (dal nome del segretario di Stato George Marshall che lo propose il 5 giugno 1947), voluto dagli Stati Uniti ufficialmente per la «ripresa economica europea» (European Recovery Program) e nella prospettiva di una futura collaborazione tra le due sponde dell'Atlantico, politicamente per impedire l’espansionismo sovietico (in Italia: la partecipazione dei comunisti al governo). In effetti, grazie a questo piano l’Europa occidentale si riprese in pochi anni e avviò una forte espansione economica e la globalizzazione. Al tempo stesso è innegabile che la dipendenza dell’Europa dalla superpotenza statunitense si sia rafforzata e che insieme ai molti benefici siano stati importati anche tanti aspetti negativi (sfruttamento, fordismo, materialismo, comunismo, ecc.).

1949: il presidente USA Truman firma il Trattato Nord Atlantico (NATO).
L'adesione dei Paesi europei fu dettata da realismo e da paura del comunismo.

Anche l’adesione alla NATO (Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord), decisa a Washington il 4 aprile 1949, fu dettata dal realismo di alcuni capi di governo occidentali (in particolare Italia, Francia e Germania). Rispondeva infatti al bisogno di alcuni Paesi opporsi efficacemente all'URSS qualora avesse deciso di aggredirli (come avveniva con i Paesi dell’est europeo).

Che non ci sia stata alcuna esitazione da parte del trio all'adesione alla NATO è verosimile perché allora anche la Santa Sede (Pio XII) era favorevole. L'espansionismo sovietico sembrava inarrestabile e il comunismo faceva paura. Ciò nonostante, come risulterà meglio dal prossimo articolo, è inimmaginabile che soprattutto il trio non pensasse prima o poi ad aprirsi anche al mondo sovietico, proprio sull'esempio della Santa Sede che nonostante l'anticomunismo cercava in ogni modo di tenere aperta la via del dialogo. Dapprima, però, bisognava pensare alla costruzione dell'Europa, la cui prima pietra era stata posta già con la creazione del Consiglio d’Europa lo stesso anno 1949. (Segue)

17 luglio 2024

24. Il «trio»: De Gasperi, Adenauer e Schuman (prima parte)

Dopo la seconda guerra mondiale, il desiderio di non vivere mai più tragedie come quelle vissute era molto diffuso. Numerosi osservatori, intellettuali e uomini politici auspicavano quale rimedio efficace una qualche forma di federalismo, per esempio sul modello svizzero, in grado di garantire l’unione (politica, economica, militare…) e il rispetto delle particolarità di ciascun popolo e di ciascuno Stato, ma senza mai affrontare il tema della sua realizzabilità. Ogni proposta, infatti, si sarebbe scontrata, fra l’altro, con la memoria ancora vivissima degli orrori della guerra, con la distinzione tra chi li aveva causati e chi li aveva subiti, l’indicazione degli scopi, dei costi, dell’organizzazione, senza dimenticare che qualsiasi ipotesi di riduzione della sovranità nazionale avrebbe urtato i forti sentimenti nazionalistici, presenti in tutti gli Stati, per non parlare delle nuove difficoltà dovute alla «guerra fredda» e alla spaccatura dell’Europa contesa dalle due superpotenze USA e URSS. Tre personaggi, il «trio» degli iniziatori dell’Unione europea De Gasperi, Adenauer e Schuman, che non si rassegnavano alla contingenza, optarono per il cambiamento.

Realismo e ottimismo

Quando sembrava inevitabile subire la realtà ritenendo di non poterla modificare, i tre personaggi appena menzionati decisero di cercare comunque una soluzione sostenibile per dare seguito ai forti desideri dei popoli europei di vivere durevolmente in pace e in libertà. Non si trattava di un azzardo o di una sfida titanica alla storia che pareva condannare l’Europa alla precarietà e a una divisione perpetua come punizione della superbia (la hybris degli antichi Greci) di alcuni Stati nazionalisti, ma di una conoscenza approfondita della situazione (vagliando attentamente realtà e possibilità)[1], di ragionamenti sostenibili, di una speranza che trovava il suo fondamento nella considerazione ottimistica delle enormi potenzialità dell’essere umano, ma anche nella profonda spiritualità che animava la vita e l’azione di De Gasperi, Adenauer e Schuman.

Alle espressioni Stati Uniti d’Europa, Federazione, Federalismo, suggerite da Churchill e dai Federalisti (cfr. articolo precedente), vennero preferite parole ritenute verosimilmente più significative e praticabili: «Solidarietà», «Comunità», «Unione». Non conosco le ragioni di queste scelte, ma corrispondono pienamente al pensiero del «trio» e forse anche alla loro sensibilità religiosa, non indifferente al racconto biblico delle prime comunità cristiane in cui «fra loro tutto era comune» (At 4,32).

Politica dei piccoli passi

La corrispondenza al pensiero dei tre fondatori è facilmente documentabile perché nessuno dei tre propose mai esplicitamente l’istituzione di uno Stato federale o degli Stati Uniti d’Europa, ritenendola almeno prematura. La politica da loro seguita fu quella dei piccoli passi, concreti e ispirati alla sostenibilità e alla condivisione, come dimostrano, per esempio, le proposte del 1950 dell’allora ministro degli esteri francese Robert Schuman (1886-1963).

Anzitutto, affermava, «l'Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto. L'unione delle nazioni esige l'eliminazione del contrasto secolare tra la Francia e la Germania». Il richiamo alla riconciliazione tra Francia e Germania era pienamente condiviso da Konrad Adenauer (1876-1967), allora cancelliere della Repubblica Federale di Germania e leader dell'Unione Cristiano-Democratica (CDU). Entrambi, infatti, consideravano importante in generale la riconciliazione tra vincitori e vinti, per una pacifica convivenza specialmente tra popoli vicini. Ma anche Alcide De Gasperi (1881-1954) ne era convinto e per questo cercò di risolvere pacificamente nel 1946 col ministro degli esteri austriaco Karl Gruber (1909-1995) i problemi riguardanti la minoranza tedesca nell'Alto Adige.

Firma a Parigi del Trattato CECA il 18 aprile 1951.
Affrontare i problemi e cercare di risolverli in maniera efficace diventerà nelle istituzioni europee una pratica costante dopo l’avvio promettente dell’istituzione della prima Comunità europea. Nello stesso intervento citato del ministro Schuman si riferiva che «il governo francese propone di mettere l'insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto una comune Alta Autorità, nel quadro di un'organizzazione alla quale possono aderire gli altri paesi europei».

Grazie alla grande intesa tra Schuman e Adenauer e al sostegno di De Gasperi e altri, l’anno seguente (1951) fu istituita con il trattato di Parigi la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) a cui aderirono sei Stati: Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi. Era la prima Comunità europea, un esempio da seguire, reso possibile dall'intraprendenza, dal coraggio, ma anche dallo spirito profondamente cristiano di tre protagonisti di cui si parlerà anche nel prossimo articolo.

Con questa Comunità, importante per il contenuto e per il metodo, s'intendeva stabilire non solo la gestione in comune di due settori strategici, sottraendoli  dalle mani di un solo Stato e stabilendo una amministrazione comune, ma anche per il metodo da seguire in futuro. Infatti essa era già caratterizzata da una forte impronta sovranazionale. (Segue)

Giovanni Longu
Berna 17.07.2024



[1]     In questa osservazione attenta della realtà rientrava anche l’anticomunismo di tutti e tre, la presa d’atto dell’impossibilità di un accordo con l’Unione Sovietica, l’adesione alla NATO (istituita nel 1949) e la scelta di appartenere al blocco occidentale, nella speranza, tuttavia, che prima o poi si superasse la logica dei blocchi. Un tentativo in questo senso fu la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, svoltasi a Helsinki nel luglio-agosto 1975. Essa tuttavia non eliminò l’esistenza dei due blocchi contrapposti.

10 luglio 2024

23. Grandi «utopisti» degli Stati Uniti d'Europa

Sul finire della seconda guerra mondiale cominciò a farsi strada, soprattutto in alcuni ambienti politici e intellettuali, l’idea che occorresse trovare una soluzione efficace per evitare altre guerre e garantire stabilmente la pace in Europa. La preoccupazione era grande (perché già apparivano all'orizzonte chiari segnali che il fronte dei vincitori si sarebbe presto spaccato), le idee ancora poco chiare. Nel dibattito che ne seguì si scontarono soprattutto due posizioni, quella ideale ma generica, utopistica, che auspicava gli Stati Uniti d’Europa e quella più sostenibile che mirava a un’integrazione graduale dei Popoli europei, cominciando dalle nazioni europee del blocco occidentale. In questo articolo si tratterà della prima, nel prossimo della seconda.

Nascita dell’utopia degli Stati Uniti d’Europa

Strepitosa accoglienza di Churchill a Zurigo il 19 settembre 1946
Lo sfacelo dell’Europa provocato dalla seconda guerra mondiale suscitava in molti politici e intellettuali la sensazione che, se non si fossero eliminate alla radice le cause delle ultime due guerre mondiali, il dopoguerra sarebbe servito nuovamente alla preparazione di una nuova guerra, che sarebbe stata però certamente più deleteria, per la disponibilità delle armi nucleari. Le opinioni su come eliminare le cause principali (riconducibili fondamentalmente a forme esasperate di nazionalismo) e con esse la guerra in Europa erano tuttavia alquanto divergenti, riducibili nell'essenziale a due, definibili rispettivamente «utopistica» e «realistica».

Tra gli «utopisti» vengono annoverati solitamente Winston Churchill e i Federalisti, ma anche Pio XII, sebbene quest’ultimo abbia tenuto a battesimo, per così dire, il gruppo dei «realisti» che avvieranno concretamente il processo d’integrazione europea (e di cui si tratterà nel prossimo articolo).

Winston Churchill

In un celebre discorso tenuto a Zurigo il 19 settembre 1946, Winston Churchill (1874-1965) sostenne che per evitare una nuova guerra gli Stati europei dovevano ricreare la «famiglia dei popoli europei» unendosi in una sorta di Stati Uniti d’Europa. Il suo ragionamento era semplice: poiché l’Europa non può sopravvivere covando per anni odi e spirito di vendetta, per salvarsi ha bisogno non solo che Francia e Germania si riconcilino, ma anche di «una forma di Stati Uniti d’Europa», che renderebbero meno importante la forza dei singoli Stati. Tale soluzione, egli sosteneva, se fosse adottata liberamente dalla maggioranza dei popoli europei, «trasformerebbe come per miracolo l'intera scena e in pochi anni renderebbe tutta l'Europa, o la gran parte di essa, libera e felice com'è oggi la Svizzera».

Churchill aveva esordito dicendo: «Vorrei parlare del dramma dell'Europa, questo nobile continente, patria di tutte le grandi stirpi dell’Occidente, fonte della fede e dell'etica cristiana, culla di gran parte delle culture, delle arti, della filosofia e della scienza, dei tempi antichi e moderni». Egli vedeva il superamento del dramma negli «Stati Uniti d’Europa».

La proposta di Churchill, molto suggestiva, non fu esente da critiche perché sembrava non tener conto della realtà e soprattutto degli effetti deleteri della guerra fredda e dell’egemonia dei blocchi, che egli stesso a Jalta (11 febbraio 1945) aveva contribuito a creare. Inoltre, nell'espressione «Stati Uniti d’Europa», non era ben chiaro, se s’intendesse più un accordo tra Stati o l’integrazione dei popoli europei. Ancora, quando parlava di Europa, si riferiva evidentemente solo all'Europa occidentale, dimenticando (?!) il resto, compresa la Germania che in quel momento era divisa e sotto occupazione, anche britannica. Pertanto, la proposta di Churchill, pur suggestiva, non ebbe seguito e fu ascritta all'utopia di un grande personaggio.

Denis de Rougemont

Alla categoria degli utopisti merita di essere associato anche il grande pensatore e scrittore svizzero, che pure aveva al suo attivo l’esperienza di vivere in un Paese che era riuscito a superare diversità e contrasti grazie al federalismo, Denis de Rougemont (1906-1985). Anch'egli infatti propugnava per l’Europa una sorta di federalismo, da realizzare applicando un «metodo educativo e culturale» a lungo termine, che puntasse a salvaguardare la diversità dei popoli europei, «il nostro male e il nostro bene» e comunque la base su cui costruire «la nostra unione, se vogliamo che essa si meriti il nome di Europa».

Per Rougemont, un elemento centrale del federalismo era rappresentato da un nuovo umanesimo cristiano, che ha il suo modello di riferimento fondamentale nella figura del Cristo, riuscendo a integrare l'eredità greca e romana in una nuova nozione dell uomo, in cui convivono solitudine e solidarietà, libertà personale e responsabilità, l’amore per sé e l’amore per il prossimo. 

La persona è per Rougemont «il tesoro dell'Europa», ma è fedele a sé stesso, solo «quando accetta il dialogo, assume il dramma e li supera in creazioni». Questo «personalismo», secondo il pensatore svizzero, non solo sostanzia il federalismo quale metodo di unione nella diversità e di convivenza delle differenze, ma rappresenta anche l'unico rimedio possibile ai nazionalismi che rischiamo di portare l’Europa alla rovina.

Rougemont era anche consapevole del contributo che avrebbero potuto fornire le Chiese praticando un sincero dialogo interconfessionale, pur nel riconoscimento delle loro diversità. La sua visione politica complessiva fondata sul personalismo, il federalismo e l'ecumenismo non fu tuttavia seguita perché la sua implementazione avrebbe richiesto tempi lunghi, non garantiva il superamento di molti pregiudizi e soprattutto non teneva conto del radicamento in numerosi Stati del nazionalismo.

Pio XII

Può essere considerata quella meno utopistica la posizione assunta da Pio XII quando dalla fine della guerra augurava all'Europa l’unità e l’autonomia e sosteneva i movimenti federalistici (in cui apprezzava particolarmente il richiamo alla «comune eredità di civiltà cristiana»), sebbene si rendesse conto che «il ristabilimento di una Unione europea presenti serie difficoltà» (Radiomessaggio dell'11 novembre 1946  in occasione del II congresso internazionale per dar vita all'Unione federale europea), ma anch'egli verosimilmente non si rendeva conto degli impedimenti insormontabili costituiti dai due blocchi e dalla guerra fredda.

E' possibile, tuttavia, che ne fosse ben consapevole quando, nel radiomessaggio citato, invitava «le grandi nazioni del continente, dalla lunga storia piena di ricordi di gloria e di potenza», ma in grado di «causare l’insuccesso della formazione di una Unione europea», «a misurare se stesse alla scala del loro passato piuttosto che a quella delle realtà del presente e delle previsioni dell’avvenire. È giusto esigere da esse che sappiano fare astrazione dalla loro grandezza di altri tempi, per allinearsi su una unità politica ed economica superiore». 

In un altro radiomessaggio natalizio (24.12.1953) ai popoli di tutto il mondo, la preoccupazione di Pio XII è ancor più esplicita, perché «al Nostro sguardo, costantemente ansioso di scoprire all'orizzonte segni di stabile schiarita (...), si offre invece la grigia visione di un’Europa tuttora inquieta [...]». Le apprensioni di Pio XII riguardo all'Europa, aggiungeva, erano motivate «dalle incessanti delusioni in cui vanno a naufragare, ormai da anni, i sinceri desideri di pace e di distensione accarezzati da questi popoli, anche per colpa della impostazione materialistica del problema della pace...».  

Per questo, Pio XII richiamò l’esigenza e l’urgenza di produrre in Europa «quella unione continentale tra i suoi popoli, differenti bensì, ma geograficamente e storicamente l’uno all'altro legati». Il suo appello, come si vedrà prossimamente, fu accolto e seguito soprattutto dal trio democristiano De Gasperi, Adenauer e Schuman.

Giovanni Longu
Berna 10.7.2024