23 maggio 2012

Italia: due pesi e due misure?



E’ nota la storiella di quel contadino che, caduto in povertà, pensò di risparmiare sul mangiare che dava al suo asinello. Dietro suggerimento di un amico, decise di abituarlo a mangiare ogni giorno sempre un po’ di meno. Qualche mese più tardi, all’amico che gli chiese se il metodo aveva funzionato dovette confessare che per qualche tempo aveva funzionato ma proprio quando l’asino si era abituato a mangiare quasi niente, una mattina, lo trovò morto. Per consolarlo l’amico gli disse che era destino, ma forse aveva esagerato nella cura.

Sono in molti ormai, in Italia, a lanciare messaggi incalzanti al governo perché allenti la morsa dell’austerità, soprattutto quando questa rischia di privare dei mezzi di sussistenza essenziali intere fasce sociali e di strozzare l’economia. I rischi sociali sono evidenti. Basta vedere le reazioni degli elettori nei confronti dei grandi partiti. I difensori d’ufficio dello Stato e della politica credono di poter addossare le disfatte elettorali alla ventata dell’«antipolitica» che soffia da molti mesi a questa parte in molti Paesi e anche in Italia, dimenticando che in generale essa nasce dalla cattiva politica.
Si può condividere l’opinione del Presidente della Repubblica Napolitano quando afferma che non si può rinunciare alla politica e ai partiti «purché si ponga fine alle degenerazioni della politica e dei partiti». Ma la domanda è: chi è in grado di estirpare il marcio e ridare nobiltà alla politica? Non certo la classe politica attuale che non è stata in grado di esprimere un governo «politico» efficiente, che ha assecondato tutte le misure del governo tecnocratico di Mario Monti senza interrogarsi sui possibili effetti collaterali, che si dimostra incapace di autocensura e dotata di scarso senso del bene comune («comune», ossia di tutti!) e insensibile ai richiami popolari che aspettano un segnale di rinuncia, in un momento di crisi come questo, ad alcuni privilegi ingiustificati, come quello del finanziamento pubblico ai partiti.

Occorrono verità ed equità
Quando il governo Napolitano-Monti si è insediato, l’operazione è stata giustificata affermando che «l’Italia si trovava sull’orlo del baratro» quasi come la Grecia. Ho sempre ritenuto che la metafora fosse inappropriata. La scorsa settimana, di fronte all’impossibilità di formare in Grecia un nuovo governo, per cui i greci dovranno presto tornare alle urne, si è detto e scritto che ormai «la Grecia è sull’orlo del baratro». Ma come, se la situazione greca non è ancora precipitata (e credo che non precipiterà), perché dell’Italia Monti e i suoi sostenitori han detto e continuano a ripetere che sei mesi fa l’Italia era sull’orlo del baratro e della bancarotta? Chi rappresentava Monti la settimana scorsa al G8: un Paese sfuggito per miracolo alla rovina o ancora una grande potenza?
Perché in Italia non si ha mai il coraggio di dire le cose come stanno e si preferisce parlare per allusioni, indovinelli, metafore? Se c’è da fare sacrifici e inghiottire bocconi amari si abbia il coraggio di dire perché lo si deve fare, quali sono state le cause che hanno portato all’attuale situazione e chi ne sono (stati) i responsabili. E se tra questi non ci sono i pensionati, i lavoratori dipendenti, i cosiddetti «esodati», i piccoli imprenditori che fanno di tutto per resistere alla morsa della crisi, perché le misure di rigore si concentrano su di essi? Lo vorrebbe spiegare il prof. Monti anche agli italiani come fa ai «grandi della terra» e ai «poteri forti» che determinano l’andamento dei mercati?
Perché il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio dei ministri non sembrano nemmeno sfiorati dal dubbio che forse le manovre avrebbero potuto cominciare dai tagli degli sprechi, dalla vendita di qualche bene inutilizzato dello Stato, dalla riduzione significativa (e non simbolica) della politica (cominciando magari proprio dall’istituto della Presidenza della Repubblica)? Perché lo Stato non reclama la restituzione con gli interessi delle somme erogate ingiustamente ai partiti al di là del previsto «rimborso delle spese elettorali» documentate? Perché si predica, giustamente, che tutti devono pagare le tasse, ma si dimentica che in uno Stato di diritto anche i poteri pubblici devono pagare il dovuto agli imprenditori in credito con lo Stato? Le domande di questo tipo potrebbero continuare a lungo, ma temo che non servano.
Di fronte al malcontento che si sta diffondendo in Italia e che rischia purtroppo di degenerare, non si possono liquidare i movimenti contestatori come ventate di antipolitica e tacciare i loro leader di essere dei demagoghi di turno o dei saltimbanchi buffoni. Sarebbe più saggio, a cominciare dai vertici dello Stato e dagli «opinion leader», cercare di capire il crescente disagio dei cittadini, dare il buon esempio praticando per primi un po’ di austerità, suggerendo percorribili vie d’uscita alla crisi nel rispetto della dignità dei singoli cittadini. In uno Stato civile e tutto sommat ricco, non si può morire per eccesso di austerità o per non essere in grado di pagare le tasse!

Giovanni Longu
Berna, 23.05.2012

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