Il dibattito in corso sul referendum costituzionale in
Italia si fa sempre più vivace anche in Svizzera, ma si caratterizza, a parere
di chi scrive e fatte salve rare eccezioni, anche da molta confusione,
dall’assenza di un’approfondita riflessione sulla portata del SÌ e del NO e
dalla mancanza di attenzione alle obiezioni degli avversari. Per un approccio
più sereno e consapevole al tema in questione, propongo in una breve serie di
articoli alcune osservazioni di carattere storico, politico e di merito. Ritengo
utile, soprattutto per i residenti in Svizzera, anzitutto qualche richiamo alla
storia del referendum in questo Paese.
Premessa fondamentale: la divisione dei poteri
Per comprendere
l’importanza originaria dell’istituto del «referendum» occorre ricordare, sia
pure sommariamente, le discussioni sull’organizzazione dello Stato moderno del
XVIII e XIX secolo, quando cominciò ad affermarsi il principio basilare dello
Stato democratico, ossia la distinzione e separazione dei poteri (legislativo,
esecutivo e giudiziario) e la sovranità popolare. Se in teoria l’affermazione
non poneva particolari problemi, nella pratica la lotta per la supremazia tra
questi poteri e l’esercizio della sovranità popolare fu alquanto lunga.
Tra i sostenitori
della priorità dell’esecutivo (governo) e i sostenitori della priorità del
legislativo (parlamento) per molti decenni prevalsero i primi, anche perché il
governo era espressione dei vincitori e delle élites e al parlamento mancava una
piena legittimazione non essendo eletto a suffragio universale. A sua volta il
diritto di voto libero e democratico era negato dai vertici dello Stato per la
convinzione che il popolo, poco istruito o analfabeta, non fosse in grado di
eleggere propri rappresentanti.
Uno degli Stati in cui
la democrazia si affermò per prima fu la Svizzera. Il politico ed economista
svizzero, naturalizzato francese Jacques Necker (1732-1804), sosteneva
che l’unico rapporto virtuoso tra legislativo ed esecutivo consisteva nel
riconoscimento preliminare della loro distinzione e separazione. Questo
comportava nella pratica che il legislativo fosse pienamente autonomo nella
discussione e deliberazione delle leggi nonché nel controllo dell’esecutivo, e
a questo spettasse l’attuazione delle leggi e l’iniziativa parlamentare. Fra
l’altro, Necker, ispirandosi soprattutto al modello americano, riteneva il
controllo più efficace se fosse esercitato da una doppia camera.
Inizi del referendum in Svizzera
La Svizzera, anche
nell’antica Confederazione (ossia prima del 1848), conosceva già una forma di referendum, assai diversa da quella di oggi, ma
pur sempre una espressione di democrazia: equivaleva a una sorta di procedura
di ratifica da parte dei vari Cantoni delle decisioni prese dai loro delegati
riuniti in assemblea o Dieta. Nella Costituzione federale del
1848, il referendum acquistò invece un altro valore, perché rappresentava
una forma concreta di esercizio della sovranità popolare, ormai accettata
dalla maggioranza dei Cantoni.
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Non era molto, ma non
si dimentichi che nella prima metà dell’Ottocento molti Stati non avevano
ancora nemmeno una costituzione, non prevedevano elezioni e i diritti popolari
erano alquanto ridotti. La sovranità popolare doveva essere ancora proclamata
da quasi tutti gli Stati europei.
Richiesta di un più ampio controllo popolare
Ben presto ci si
accorse tuttavia quanto sia vero che non basta il riconoscimento formale di un
diritto perché esso venga rispettato. In effetti, i costituenti del 1848, che
erano principalmente i liberali-radicali vincitori della guerra del Sonderbund
(1847) scatenata dai Cantoni conservatori (cattolici), avevano pensato bene di limitare
il diritto del referendum alle modifiche costituzionali. Bastava pertanto non
modificare la Costituzione e il referendum saltava. In questo modo l’attività
legislativa e l’attività politica, per decenni nelle mani dei liberali-radicali
(le minoranze socialista e conservatrice contavano poco), erano praticamente senza
controllo.
Per controbilanciare lo strapotere della maggioranza
radicale borghese nell’Assemblea federale e nel Consiglio federale, si costituì
negli anni 1860-70 il «Movimento democratico». Esso chiedeva un maggior
controllo popolare delle attività di governo, la partecipazione diretta del
popolo nella formazione definitiva delle leggi, consentendogli di richiedere a
determinate condizioni il voto popolare su qualsiasi decisione del legislativo
e dell’esecutivo e una revisione della Costituzione.
Il referendum come espressione della sovranità popolare
Dopo tanto insistere, si giunse nel 1874 a una
revisione totale della Costituzione federale ed è in essa che venne introdotto,
in aggiunta al referendum obbligatorio, il referendum
facoltativo. E’ interessante notare che questo diritto popolare
figurava nella sezione dedicata all’Assemblea federale, per segnalare che
l’attività legislativa non era assoluta, ma esercitata sotto riserva di
approvazione, per lo più tacita, talvolta esplicita (tramite referendum)
del diritti del Popolo e dei Cantoni. Il nuovo diritto stava anche a segnalare
che l’«autorità suprema della Confederazione» non era più l’Assemblea federale,
come nella vecchia Costituzione, ma «il Popolo e i Cantoni».
Bisogna dire che l’Assemblea federale non si sentì usurpata
della supremazia, tanto è vero che anche il Parlamento, secondo la
Costituzione, poteva sottoporre oggetti al voto popolare quale decisione
ultima.
Un ostacolo da eliminare
Sebbene il referendum, quello obbligatorio e quello
facoltativo, esprimesse bene la sovranità popolare (e per certi versi dei
Cantoni), in realtà questa non riusciva ancora ad affermarsi pienamente. Per
esempio, secondo la Costituzione del 1874, non potevano essere sottoposti a
referendum i cosiddetti «decreti urgenti» del Governo. Il Popolo, cioè,
poteva sanzionare l’attività del Legislatore, ma non del Governo, che spesso e
volentieri ricorreva appositamente ai «decreti urgenti» per evitare il
referendum. L’esclusione di questi decreti fu dovuta alla preoccupazione di non
intralciare e persino bloccare l’attività dell’esecutivo, soprattutto in caso
di urgenza vera.
Questa prassi veniva
tuttavia aspramente criticata dai partiti di sinistra e da alcune
organizzazioni mantello dell’economia che si sentivano private del loro potere
d’influenza sul governo. Con una iniziativa popolare (1938) venne
chiesto, invano, di «limitare l'applicazione della clausola d'urgenza». Otto
anni dopo, un’altra iniziativa popolare denominata «Ritorno alla democrazia
diretta» chiese di rivedere la regolamentazione della clausola d'urgenza e il
ritorno alla democrazia diretta. Il Popolo l’approvò (1949), nonostante
l'opposizione dell'Assemblea federale e del Consiglio federale.
Il ricorso ai decreti urgenti fu da allora riservato ai casi
veramente urgenti, ma per evitare il ricorso ai referendum, nel 1959 si
decise un maggiore coinvolgimento dei principali partiti nell’attività di
governo. Venne infatti trovata per il Consiglio federale la cosiddetta «formula
magica», che voleva in governo due rappresentanti dei tre principali
partiti (allora: radicale, conservatore cristiano-sociale, socialista) e un
rappresentante del quarto maggiore partito (quello dei contadini e degli artigiani). Insieme questi
quattro partiti rappresentavano almeno l’80% dell’elettorato, quanto bastava
per evitare o quanto meno limitare sconfitte referendarie! La formula magica è
ancora attuale, anche se la forza dei partiti e la loro rappresentanza nel Consiglio federale è cambiata.
Referendum come arma potente e pericolosa
Pur con questi limiti, lo strumento del referendum (a cui si
era aggiunto nel 1891 il diritto di iniziativa popolare per la revisione
parziale della Costituzione) è stato ed è un potente strumento di democrazia
che ha fatto avanzare lo sviluppo dei diritti popolari, ma è anche un’arma
pericolosa. Introdotta per limitare lo strapotere della maggioranza e avendo
raggiunto cospicui risultati, molti dei quali fatti propri dalla moderna
Costituzione in vigore, c’è il rischio che ora diventi un’arma impropria di
lotta politica, non tanto tra Popolo e Istituzioni, ma tra politica ed
economia, tra gruppi d’interesse, tra partiti politici.
![](https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjsx9kbzH0w2iKLXda6W7XC0FHBh5xDcucsk4WQdNgF5-7Ir1ZTi9Tf6nSwpdn-ZYA-ezMFHvBnbo5C3RZbGkb_a_zl2n0wGhlqWLzY0DDQvWObn5i8yvX5UkSAVo2AV_c-9LwIUv5k3xk/s1600/Bandiera+svizzera.jpg)
Da tempo, alcune forze politiche, Parlamento e Governo si
rendono conto dei rischi che comporta il possibile abuso del referendum e
cercano di ridurne la pericolosità per esempio aumentando il numero delle firme
richieste per provocarlo (30.000 fino al 1977, 50.000 dal 1978) e con una
corretta e ampia informazione sugli oggetti in votazione. Un rimedio preventivo
è costituito dalla procedura di consultazione che si svolge prima del dibattito
parlamentare su ogni disegno di legge o provvedimento importante. Se l’oggetto
in questione riesce a ottenere l’appoggio delle principali forze politiche, si
spera che il referendum non venga richiesto o che in votazione non trovi il
consenso sperato. In realtà, a tutt’oggi, su 218 referendum obbligatori, 163
sono stati approvati (55 respinti), mentre su 180 referendum facoltativi, ben 102 sono stati accettati (78 respinti). E’ la dimostrazione dell’efficacia del
referendum,
quando è pura espressione della sovranità popolare. (Segue)
Giovanni Longu
Berna 31.8.2016
Berna 31.8.2016
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