In Italia l’istituto del referendum è stato introdotto nella
Costituzione del 1947/48, quando in Svizzera quello obbligatorio esisteva già
da cent’anni e quello facoltativo da tre quarti di secolo. In Svizzera il
referendum è una conquista democratica delle minoranze popolari e costituisce
un diritto popolare fondamentale, un elemento cardine della democrazia diretta
svizzera. In Italia il referendum è frutto di un compromesso tra le forze
politiche rappresentate nell’Assemblea costituente (1947/48), che lo rendono di
non facile utilizzazione e meno incisivo di quello svizzero.
Perché in Italia il referendum non è obbligatorio?
Per questo, ad esempio, fu escluso il referendum
obbligatorio e ammesso solo quello facoltativo. Nemmeno nel caso di modifiche
costituzionali consistenti è previsto dall’ordinamento italiano il referendum
obbligatorio. Addirittura non è consentito
se la modifica è stata approvata con la maggioranza dei due terzi dei
componenti di ciascuna Camera. E’ ammesso solo nel caso in cui una modifica
della Costituzione non è stata approvata
dalle Camere con la maggioranza dei due terzi. In questo caso, perché
possa essere indetto il referendum, è necessario che entro tre mesi dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, ne
facciano richiesta un quinto dei membri di una Camera o 500.000 elettori o
cinque consigli regionali. In caso di un referendum costituzionale il risultato
è valido quale che sia il numero dei partecipanti al voto (ossia non esiste il
quorum).
Il prossimo referendum è stato richiesto perché la modifica
costituzionale approvata dal Parlamento il 12 aprile 2016 (riguardante
«disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del
numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle
istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte
II della Costituzione») non ha avuto l’approvazione dei due terzi dei
componenti delle due Camere.
Una prima riflessione riguarda proprio la mancata
maggioranza dei due terzi necessaria per modificare la Costituzione senza dover
sottostare, sia pure a richiesta, al referendum costituzionale. Perché
l’approvazione è avvenuta solo dai parlamentari della maggioranza di governo e
non anche almeno da una parte consistente delle opposizioni? La risposta è
semplice: evidentemente la ragionevolezza o l’opportunità delle modifiche
non era condivisa. I votanti al prossimo referendum di novembre dovrebbero
tenerne conto e chiedersi a loro volta se le modifiche apportate alla
Costituzione sono ragionevoli e opportune, senza pregiudicare altri aspetti
della vita democratica.
Senato sì, ma depotenziato
Un’altra riflessione concerne la riforma del Senato.
E’ noto che in un primo tempo la proposta del governo (Renzi-Boschi) mirava
all’abolizione del Senato per eliminare alla radice il «bicameralismo
perfetto», considerato un’anomalia tutta italiana (ignorando che esiste persino
nella vicina Svizzera!) e principale causa della lentezza legislativa. Poi si è
fatta marcia indietro, forse per evitare che l’Italia figurasse tra i
principali Paesi monocamerali insieme ad Arabia Saudita, Cina, Corea del Sud,
Indonesia e Turchia, dove la nozione di democrazia è probabilmente assai
diversa dalla nostra!).
Salvatane l’esistenza, si è cercato di ridurre il più
possibile la funzione legislativa e di controllo del Senato, supponendo valida
la relazione: meno controlli più efficienza e celerità nelle decisioni. Per non
rischiare di tenere in vita un organismo allo stato vegetativo, gli si è quindi
attribuito qualche potere, che lo rende di fatto una seconda Camera, ma anche
secondaria. Secondo i sostenitori del no, infatti, il risultato sarebbe un
Senato alquanto depotenziato. Per di più, secondo alcuni costituzionalisti, non
avrebbe le competenze dove dovrebbe averle, in quanto Camera rappresentante le
istituzioni territoriali, ossia quando si tratta
della struttura dello Stato e «dell’articolazione periferica dello Stato, delle
autonomie regionali e locali», materie su cui deciderà invece la Camera.
I sostenitori del sì affermano senza esitazione che la
riforma del Senato, eliminando il bicameralismo paritario, renderà l’iter
legislativo più veloce, più semplice e più efficace. I sostenitori del no,
invece, criticano molti aspetti di tale riforma perché ritenuta confusa e non
risolutoria del problema che si voleva eliminare e si tratterebbe, fra l’altro,
di una riforma scritta male con tratti di difficile comprensione e ambigui, che
richiederà, se approvata, numerosi interventi (lenti) della Corte
costituzionale e complicherà invece di snellire l’iter legislativo. Tanto
valeva, forse, eliminare il Senato del tutto.
Il Senato, notevolmente depotenziato perché privato del
potere legislativo ordinario e chiamato solo a «concorrere» all’esercizio della
funzione legislativa unicamente in alcuni casi, dovrebbe esercitare soprattutto
«funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della
Repubblica». In che cosa consistano esattamente queste funzioni e con quale
impatto sul Governo e sulle Regioni non è dato sapere, anche perché un tale
Senato depotenziato si verrebbe a trovare ad operare senza poteri reali.
Quanto al risparmio sui costi della politica in
conseguenza della riduzione del numero dei senatori, che i sostenitori del sì
stimano in diverse centinaia di milioni di euro, secondo i sostenitori del no
sarebbe di gran lunga inferiore e comunque molto al di sotto delle cifre che si
risparmierebbero se una analoga riduzione fosse prevista anche per i deputati.
Si obietta anche che le critiche maggiori dell’opinione pubblica sulla politica
italiana non riguardano tanto i costi in sé, quanto la evidente sproporzione
tra costi e benefici, gli sprechi e l’inefficienza della pubblica
amministrazione.
Quale rappresentanza regionale?
Inoltre, i critici della riforma sostengono che il Senato,
pur essendo composto da rappresentanti degli enti territoriali (Regioni e
Comuni) non sarà espressione della volontà popolare perché i senatori non
saranno eletti direttamente dai cittadini. Molti si chiedono anche come il
Senato potrebbe rappresentare le Regioni se non disporranno praticamente di
alcun potere reale né in campo legislativo né in quello del controllo sul
Governo.
I cittadini italiani, Regione per Regione, prima di mettere
nell’urna un sì o un no dovrebbero chiedersi se si sentirebbero meglio
rappresentati in Senato da due, tre o più rappresentanti non eletti
direttamente, fondamentalmente senza poteri e senza alcun riferimento diretto
con un proprio elettorato, o tutto sommato è ancora preferibile l’attuale
Senato. Oltretutto, con questa riforma anche le Regioni sono state depotenziate
(per es. hanno perso le competenze che avevano in materia di energia,
infrastrutture, promozione turistica) e si corre il rischio di un ritorno a un
centralismo statale, malvisto tanto a nord che a sud.
I sostenitori della riforma ritengono le Regioni inadeguate
al loro compito e fonte di abusi, sprechi e inefficienze. A loro volta gli
oppositori replicano che, invece di intervenire per correggere ciò che non
funziona con gli strumenti ordinari di cui dispone lo Stato, si è preferito
ridurre i poteri della Regioni. Con questa riforma non si commetterebbe solo un
errore di metodo, ma anche di sostanza sotto diversi aspetti. Anzitutto, con
questo depotenziamento le Regioni ordinarie verrebbero allontanate ancor di più
dalle Regioni a statuto speciale, introducendo ulteriori disparità regionali.
Gli articoli 5 e 114 sono ancora salvaguardati?
Un’altra obiezione è che questa riforma rende l’articolo
5 della Costituzione di difficile attuazione: «La Repubblica, una e
indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi
che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i
principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del
decentramento».
Inoltre, anche l’articolo 114 attualmente in vigore, da cui secondo la riforma verrebbero stralciate le Province, verrebbe vanificato: «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i princìpi fissati dalla Costituzione.
Roma è la capitale della Repubblica. La legge dello Stato disciplina il suo ordinamento».
Inoltre, anche l’articolo 114 attualmente in vigore, da cui secondo la riforma verrebbero stralciate le Province, verrebbe vanificato: «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i princìpi fissati dalla Costituzione.
Roma è la capitale della Repubblica. La legge dello Stato disciplina il suo ordinamento».
Un costituzionalista autorevole, molto critico sulla
riforma, ha affermato che se prima il Senato aveva gli stessi poteri della Camera, ora ne ha meno e per di più, non ha le
competenze là dove dovrebbe averle, ossia quando si tratta della struttura
dello Stato e «dell’articolazione periferica dello Stato, delle
autonomie regionali e locali» (lo deciderà
invece la Camera).
La riforma del Senato non è
l’unica a creare forti divergenze tra i sostenitori del SÌ e quelli del NO.
Anche la riforma della Camera è materia di scontro perché riporta in primo
piano un tema molto discusso in altri tempi e quasi dimenticato fino a questi
ultimi anni, ossia il rapporto fra centralismo e democrazia. Se ne riparlerà
nel prossimo articolo. (Segue).
Giovanni Longu
Berna, 6.9.2016
Berna, 6.9.2016
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