Perché rievocare
ancora la tragedia di Marcinelle? - mi sono chiesto prima di stendere le righe
che seguono. Certamente perché quest’anno ricorre il 60° anniversario di quella
che è stata una delle più grandi tragedie occorse all’emigrazione italiana di tutti
i tempi (Belgio 8 agosto 1956: in una miniera di carbone muoiono 262 minatori, tra i quali 136 italiani). In seguito a quella tragedia, l’8 agosto è
stato dichiarato dal governo italiano «Giornata
del sacrificio e del lavoro italiani nel mondo». Trovo tuttavia un’altra buona
ragione per ricordare: gli insegnamenti di quella tragedia non sono stati
ancora pienamente realizzati, anche se molti progressi sono stati fatti
soprattutto nel campo della sicurezza.
Responsabilità dirette…
Per rendersi conto della
gravità della tragedia basta ricordare brevemente i fatti e le cifre. A
provocare la catastrofe fu un tragico incidente, certamente evitabile, avvenuto nella miniera di carbone del «Bois du Cazier» a Marcinelle, sobborgo di
Charleroi, in Belgio. Alcune centinaia di persone lavoravano ad una profondità
di oltre 900 metri, quando un cortocircuito provocò un vasto incendio e la
liberazione di gas asfissianti in diverse gallerie. Una morte atroce, non per
tutti immediata, colpì 262 minatori, tra i quali 136 italiani. Solo pochi
minatori riuscirono a mettersi in salvo.
Ritengo doverosa, ancora
oggi, la domanda: quella tragedia poteva essere evitata? Altrettanto doverosa
mi sembra la risposta: certamente sì. Fu facile, allora e forse anche oggi,
addossare le responsabilità maggiori all’insufficienza dei sistemi di sicurezza
di quella e di molte altre miniere belghe e quindi ai padroni della miniera, al
governo belga più interessato a «vincere la battaglia del carbone» che a
garantire la sicurezza dei lavoratori, ma anche ai sindacati belgi che non
vigilarono a sufficienza e persino alla CECA, la Comunità europea del carbone e
dell’acciaio che controllava il mercato ma non le condizioni di lavoro e di
sicurezza nelle miniere. In seguito alle innumerevoli denunce il Belgio dovette
cambiare la sua politica mineraria, alcune miniere furono chiuse, come quella
di Marcinelle, altre messe in sicurezza.
… e indirette
Sulla stampa italiana di
allora non ho trovato invece quasi nessun rimprovero alla politica emigratoria
italiana. Molte furono le interpellanze parlamentari sulla tragedia, ma
pochissime accennavano alle responsabilità politiche del governo. Eppure ce
n’erano tante e pesanti.
Prima della tragedia di
Marcinelle, quasi nessuno si accorse dei difetti del «famigerato» (così fu
considerato in seguito) accordo tra l’Italia e il Belgio, con cui l’Italia s’impegnava a favorire l’emigrazione nelle miniere del Belgio di circa
50.000 lavoratori, circa 2000 ogni settimana, e il Belgio a vendere mensilmente
all’Italia almeno 2500 tonnellate di carbone per ogni mille operai inviati.
L’Italia disastrata aveva assoluto bisogno del carbone per la ricostruzione e
lo sviluppo, ma anche di esportare la manodopera in esubero. Erano tutti
d’accordo, persino Nenni e Togliatti, per cui il capo del governo italiano De
Gasperi e il ministro belga Van Hacker poterono firmare tranquillamente il 23
giugno 1946 il relativo Protocollo d’intesa.
Nemmeno in seguito, le autorità e i politici
italiani s’indignarono per le condizioni miserevoli che dovevano sopportare i
minatori italiani in Belgio, ben diverse da quelle sbandierate nella propaganda
per attirare emigranti volontari che dovevano sostituire i fiamminghi non più
disposti a lavorare in miniera. Vivevano ammassati in baracche invece che in
case, fuori degli abitati, senza famiglia e separati dalla popolazione locale.
Giungevano in Belgio senza alcuna preparazione e abbandonati a sé stessi. «Eravamo
trattati come bestie o poco più, in balia
di tanti eventi» denuncerà in seguito un ex minatore.
Un articolo costituzionale disatteso
Quando si cominciò a considerare la reale
situazione degli emigrati si gridò allo scandalo perché cittadini italiani
erano come «venduti per un sacco di carbone». Lo scandalo maggiore però era, a
mio avviso, che si lasciasse partire e poi si abbandonassero al loro destino
migliaia di persone senza alcuna preparazione linguistica e professionale,
senza punti di riferimento e senza tutele. (Questo, purtroppo, riguardava non
solo gli emigranti in Belgio, ma in generale tutti gli emigranti in Francia, in
Svizzera, ecc.). Eppure, dal 1° gennaio 1948 era in vigore la nuova
Costituzione italiana che all’articolo 35 recita:
«La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.
Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori. Riconosce la
liberta di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse
generale, e tutela il lavoro italiano all’estero».
Purtroppo questo
fondamentale articolo costituzionale, che non riguarda evidentemente solo gli
emigrati, è stato abbondantemente disatteso. Se, al contrario, fosse stato
applicato, almeno nella parte riguardante l’emigrazione, certamente sarebbero
state evitate numerose disgrazie dovute a errore umano, la seduzione di una propaganda
ingannevole sul lavoro sicuro e le retribuzioni elevate, le condizioni di
sfruttamento e di frustrazione che dovettero subire milioni di emigrati nel
dopoguerra per carenza d’informazione, di formazione, di assistenza. L’Italia,
o meglio, la politica era assente, non formava e non tutelava affatto il lavoro
italiano all’estero. Il ricordo di Marcinelle e di altre numerose disgrazie
rimane ancora oggi, nonostante i numerosi progressi compiuti, un monito per il
governo italiano.
Berna, 3.8.2016
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