Quasi tutti i discorsi
politici su Marcinelle nel 60° anniversario della disgrazia (8 agosto 1956) mi
sono sembrati di circostanza, senza alcun accenno alle cause e alle
responsabilità. Non basta commuoversi al ricordo della morte orrenda subita dai
262 minatori, ma occorre, mi sembra, anche una riflessione attenta sulle
responsabilità politiche di quella e di innumerevoli altre disgrazie occorse
agli emigrati italiani nel mondo.
Un’occasione mancata
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Presidente della Repubblica Sergio Mattarella |
Il ricordo e la visita
dei luoghi e di quel che resta della miniera del Bois du Cazier, a
Marcinelle, almeno da parte dei politici avrebbero dovuto provocare una qualche
riflessione sulle condizioni di quei minatori, sulle circostanze della
disgrazia e soprattutto sulla politica migratoria praticata nel dopoguerra
dall’Italia e proseguita per decenni. Non solo per Maullu, Fedi, Tacconi,
Garavini e compagni, ma anche per le alte cariche dello Stato è stata
un’occasione mancata.
A Marcinelle, alla
cerimonia commemorativa della tragedia di 60 anni fa, quest’anno è intervenuto
il presidente del Senato Pietro Grasso in rappresentanza del Capo dello
Stato Sergio Mattarella, del quale ha letto un messaggio. Francamente
anche questo mi è sembrato molto di circostanza e poco coraggioso.
Il presidente Mattarella
ha ricordato che quello di Marcinelle fu «uno dei più
sanguinosi incidenti sul lavoro della storia italiana ed europea, una tragedia
assurta a simbolo delle sofferenze, del coraggio e dell'abnegazione dei nostri
concittadini che lottavano - attraverso il duro lavoro - per risollevare se
stessi e le loro famiglie dalla devastazione del secondo conflitto mondiale»,
ma non è andato oltre. Eppure è risaputo che quei minatori si trovavano in
quella e in altre miniere, come pure negli innumerevoli cantieri svizzeri e
altrove, anche per contribuire al risollevamento economico e sociale
dell’Italia. Forse una parola di riconoscenza sarebbe stata gradita dai
familiari delle vittime non meno dei «sentimenti di profonda vicinanza e
solidarietà» del Presidente della Repubblica e dell’impegno del presidente Grasso
a ospitare prossimamente in Senato
una mostra dedicata a Marcinelle «rivolta soprattutto ai
più giovani».
Le responsabilità della politica
Il presidente Mattarella, o il suo
rappresentante Grasso, avrebbero anche potuto aggiungere almeno un
accenno alle gravi responsabilità della politica migratoria dissennata del
dopoguerra e magari chiedere scusa, in nome della Repubblica, per le
inadempienze gravi nei confronti di quei minatori e di quanti incontrarono
nella loro vita da emigrati grandi sofferenze e talvolta la morte.
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Marcinelle 8 agosto 1956, giorno della tragedia |
I massimi rappresentanti dello Stato avrebbero
potuto riconoscere, eventualmente con le attenuanti del caso, che l’accordo Italia-Belgio del 1946 fu un errore e
che per decenni l’Italia è stata inadempiente nei confronti degli emigrati, non
rispettando in pieno l’articolo 35 della Costituzione. Questo articolo, mentre
riconosce ai cittadini italiani la libertà di emigrare, obbliga lo Stato a tutelare
il loro lavoro all’estero. Non lo ha sempre fatto e ha dimenticato e
continua purtroppo a dimenticare anche oggi che la miglior tutela, ossia quella
più efficace, è senz’altro «la formazione e l’elevazione professionale dei
lavoratori», pure prevista dallo stesso dettato costituzionale.
Anche la terza carica
dello Stato, Laura Boldrini, ha voluto ricordare la tragedia di
Marcinelle, ma paradossalmente ha messo sullo stesso piano i minatori che
persero la vita in miniera con i profughi di oggi, senza distinguere i contesti
e le circostanze. Anche lei naturalmente si è guardata bene da qualsiasi
accenno alle responsabilità dell’Italia di ieri e di oggi. Ha ricordato giustamente
che «la tragedia di Marcinelle ci riporta al presente, parla al mondo di oggi»
e che «i processi di migrazione possono essere molto
dolorosi, ma anche processi nei quali si può veramente costruire un percorso di
sviluppo», ma si è fermata qui, mentre la domanda fondamentale resta: come è
possibile costruire un percorso virtuoso di sviluppo senza una seria politica d'integrazione?
Formazione indispensabile
Riconosco che non è facile dare risposte
soddisfacenti al riguardo, ma basterebbe riferirsi agli esiti migliori
dell’emigrazione italiana del dopoguerra per trovare indicazioni preziose.
Purtroppo dell’emigrazione si commemorano ormai quasi solo le tragedie, mai o
quasi mai i successi. Eppure ce ne sono stati moltissimi. Tutti avevano in
comune non solo la volontà di riuscita, l’impegno personale, ma anche le
opportunità: una buona scolarità e una solida formazione
professionale.
Nei confronti dei profughi e degli immigrati
nell’Italia di oggi trovo giusto che si parli di accoglienza, rispetto delle
leggi, tolleranza e quant’altro, ma sono convinto che non ci può essere una
vera politica d’integrazione senza una politica di formazione professionale
corrispondente alle capacità personali, ma anche ai bisogni dell’economia.
A che punto è la formazione professionale in
Italia, non solo per i richiedenti l’asilo ma anche per gli stessi italiani?
Com’è possibile tollerare che un giovane su tre non studia e non lavora?
Occorre davvero cambiare la Costituzione italiana per intervenire seriamente su
questa situazione, la peggiore in Europa, peggiore persino di quella della Grecia, della Croazia,
della Spagna, ecc.?
Giovanni Longu
Berna, 17.08.2016
Berna, 17.08.2016
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