09 luglio 2025

1935: Aggressione italiana dell’Etiopia

90 anni fa l’Italia fascista aggrediva l’Etiopia per mania di grandezza imperiale e per trovare una destinazione sicura all'emigrazione. Non credo che questo anniversario sarà ricordato dai grandi media, specialmente in Italia. Per fortuna il tempo cancella molte ferite, ma non mi sembra privo d’interesse sia come fatto storico, legato fra l’altro alla politica migratoria del tempo, e sia come spunto di riflessione sull'attualità e soprattutto sui rischi che anche la nostra società può correre se non si percepisce il nazionalismo come una minaccia e non si riesce a produrre i necessari anticorpi per liberarcene. E’ vero che quell'aggressione è imputabile a una politica scellerata del fascismo, ma non si può ignorare che a renderla accettabile anche da moltissimi immigrati, furono un diffuso nazionalismo, carenze democratiche e indifferenza sociale. Purtroppo il nazionalismo è nuovamente in crescita in Europa e anche in Italia e si fa poco per denunciarne la pericolosità. La corsa al riarmo, la bassa considerazione degli immigrati e dei diritti umani e lo scarso impegno per «lo sviluppo integrale dell’uomo e lo sviluppo solidale dell’umanità» (Paolo VI nell'enciclica Populorum progressio del 1967) non promettono nulla di buono. Dovremmo reagire tutti.

I fatti in breve

Va premesso che l’Italia fino allo scoppio della prima guerra mondiale aveva scelto come sfogo ai rischi della disoccupazione e della sovrappopolazione la via dell’emigrazione regolare, mentre il regime fascista, anche per aggirare le restrizioni di molti Paesi all'immigrazione in seguito alla crisi economica dei primi anni Trenta, privilegiò «il mito delle colonie di popolamento».

L’invasione dell’Etiopia rientrava in questa politica, senza rendersi conto dei rischi. Le operazioni militari si svolsero  fra il 3 ottobre 1935 e il 5 maggio 1936, a partire dalle colonie italiane d’Eritrea e Somalia. Mussolini era convinto che la potenza di una nazione dipendesse dal suo impero coloniale, pur sapendo che i territori più vantaggiosi erano già occupati. Volle ugualmente la conquista di un Paese arretrato e male armato come era allora l’Etiopia, convinto «che ormai gli fosse tutto possibile usando la forza» e una rapida vittoria fosse alla sua portata. La campagna d’Etiopia fu un’interminabile strage con centinaia di migliaia di morti militari e civili, attuata con bombardamenti massicci, l'impiego di armi chimiche e la repressione contro la popolazione etiope.

Dopo qualche momento di esitazione, a causa degli accordi di mutua convenienza sanciti dai Patti Lateranensi (1929) e della posizione del clero italiano, che appoggiava in gran parte la guerra, il papa Pio XI intervenne decisamente il 28 agosto 1935 dichiarando che «una guerra condotta unicamente per conquistare era una guerra ingiusta: qualcosa di indicibilmente triste ed orrenda”. Mussolini non lo ascoltò, ma non altrettanto fecero altre potenze che investirono del caso la Società delle Nazioni (SdN), antesignana dell’ONU. E questa decise severe sanzioni contro l’Italia, a cui aderì anche la neutrale Svizzera.

Le reazioni tra gli emigrati

Manifesto in vista della votazione del 16.5.1920
 sull'adesione svizzera alla Società delle Nazioni
(Biblioteca nazionale svizzera, Berna).
Le sanzioni non furono senza conseguenze non solo in Italia (dove suscitarono soprattutto una ventata di nazionalismo e di patriottismo che portò al successo della campagna per il dono delle fedi nuziali destinata a procurare oro alla nazione), ma in tutto il mondo italofono. In particolare negli Stati Uniti contribuirono ad accrescere la popolarità del Duce e ad animare l’orgoglio nazionale, soprattutto tra gli italo-americani, che nel 1935 raccolsero mezzo milione di dollari per sostenere l'invasione italiana dell'Etiopia.

In Svizzera non ci fu una reazione omogenea perché, come si è visto negli articoli precedenti, l’antifascismo aveva cominciato a far presa su gruppi organizzati già dagli anni Venti e sul solido gruppo socialista di Zurigo che faceva riferimento al «Cooperativo». Per questo l’aggressione dell’Italia all'Etiopia tra gli immigrati italiani non è stata particolarmente seguita, anche per il tiepido atteggiamento governativo svizzero.

Al riguardo desidero ricordare che la reazione della Confederazione alle decisioni della Società delle Nazioni è stata alquanto singolare. Infatti, pur aderendo in quanto Stato membro, alle sanzioni della SdN, decise di non applicarle rigidamente nei confronti dell’Italia, ritenuta un «Paese amico». Al consigliere federale Giuseppe Motta, capo della politica estera, più della fedeltà al Patto della SdN interessava la difesa della neutralità della Svizzera e soprattutto degli interessi economici in Italia (si pensi al problema degli approvvigionamenti). Di fatto, la Svizzera finì per adottare le sanzioni contro l’Italia solo in misura molto blanda, quasi simbolica. Non solo, nel dicembre del 1936 la Svizzera, su proposta di Motta al Consiglio federale, fu il primo Paese neutrale a riconoscere ufficialmente l’Impero italiano in Africa e a considerarne i suoi abitanti nel contesto del Trattato di domicilio e consolare tra Svizzera e Italia del 1868.

In conclusione

Oggi rievoco quella tragica aggressione, in cui i soldati italiani del Ventennio si macchiarono di atroci delitti, non solo come un fatto storico che ha influito sull'emigrazione italiana nel mondo, ma anche per denunciare che il fascismo aveva talmente contagiato il mondo degli emigrati italiani organizzati da far pensare che bastasse una vittoria militare, per altro immeritata data l’evidente differenza della preparazione degli eserciti contrapposti, per far dimenticare le umiliazioni subite nel Paese d’immigrazione. Purtroppo molti non si rendevano conto che solo una buona integrazione e uno sforzo di solidarietà collettiva li avrebbe parificati agli autoctoni.

Ricordare l’aggressione italiana dell’Etiopia, che all'epoca suscitò tra gli emigrati grandi entusiasmi un po’ ovunque, vuol essere anche un richiamo alle responsabilità individuali per evitare che il nazionalismo, anche in forme apparentemente innocue, possa produrre in futuro danni enormi e un invito a diffidare di forme ambigue e pericolose di deterrenza, perché la corsa al riarmo di oggi non promette nulla di buono e non mi sembra saggio invocare la pace preparando la guerra.

Giovanni Longu
Berna 9 luglio 2025


02 luglio 2025

1925-31: Politica immigratoria federale la legge del 1931

Facendo seguito all'articolo precedente, per completezza d’informazione mi sembra opportuno fornire ulteriori informazioni sulla legge federale che ha richiesto la modifica costituzionale approvata nel 1925 e che è stata alla base di gran parte della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera. Poiché questa storia è stata vissuta male da molti italiani e sono ancora tanti coloro che la considerano una storia di sfruttamento e persino di violazione aggravata di fondamentali diritti dell’uomo, ritengo utile fornire ai lettori non prevenuti alcuni elementi oggettivi di giudizio sulla legge federale del 26 marzo 1931 concernente la dimora e il domicilio degli stranieri (LDDS), la legge organica che ha integrato e sostituito gran parte delle ordinanze concernenti gli stranieri emanate durante e subito dopo la prima guerra mondiale. Entrata in vigore il 1° gennaio 1934, è rimasta valida fino all'entrata in vigore della nuova legge sugli stranieri (1° gennaio 2008).

Il contesto

Anzitutto merita ricordare il contesto, ossia il primo dopoguerra, in cui gli svizzeri, pur non avendo partecipato alle operazioni militari hanno conosciuto insieme agli orrori della guerra il prezzo della libertà e dell’indipendenza. Successivamente, anch'essi subirono la difficile crisi del 1929-32, che colpì duramente l’industria d’esportazione, con conseguente aumento della disoccupazione (mentre ha tenuto l’economia interna, favorita dalla crescita dei consumi e dell'edilizia abitativa). Gli anni successivi fino al 1936 furono caratterizzati da una persistente stagnazione e un ulteriore aumento della disoccupazione, con decine di migliaia di disoccupati, che rischiava di aggravare le tensioni sociali ancora esistenti dopo lo sciopero generale del 1918 e la crisi del 1920-23.

Da queste esperienze trassero alcune conclusioni fondamentali:
1. Poiché la sovranità appartiene al popolo e ai Cantoni svizzeri, che insieme costituiscono la Confederazione, a questa spetta principalmente la lotta contro i pericoli di «inforestierimento» dovuti alla presenza di un numero eccessivo di stranieri.
2. Pertanto dev'essere di competenza della Confederazione e non dei Cantoni o dell’economia il controllo degli stranieri (permessi d’ingresso, permessi di dimora e di domicilio, naturalizzazione, integrazione (allora «assimilazione»).
3. Alla Confederazione spetta inoltre il compito di salvaguardare l’ordine pubblico, garantire la sicurezza dello Stato e rafforzare l’unità e l’identità nazionali.

Che la Confederazione abbia scelto la Polizia federale degli stranieri come strumento politico-burocratico per la gestione della politica immigratoria federale non dovrebbe meravigliare perché anche la Svizzera, come in generale tutti i Paesi industrializzati, almeno inizialmente ha visto l’ingresso e la dimora degli stranieri come un problema di ordine pubblico e comunque da tenere sotto controllo. Tanto più che all'epoca era molto diffusa la propaganda fascista a cui si sarebbe aggiunta poco dopo anche la propaganda nazista.

Non dovrebbe nemmeno meravigliare che la legge sia rimasta in vigore tanto a lungo, fino al 1° gennaio 2008, nonostante alcuni tentativi di abrogarla, falliti grazie all'ampio sostegno popolare, all'infondatezza delle accuse di xenofobia nei confronti delle autorità e all'efficacia della legge nel mantenere la pace sociale e la pace del lavoro. Nel frattempo, tuttavia, vennero introdotte diverse modifiche, richieste non solo ad esigenze interne (innovazione tecnologica nell'industria, cambio di mentalità sugli stranieri), ma anche ad esigenze degli immigrati, sempre più stanziali (domiciliati), nonché a pressioni internazionali (negoziati bilaterali).

Pregiudizi ingiustificati

Ciò che invece meraviglia è che qualche pseudo storico o sedicente esperto di migrazioni continui a parlare di una politica di sfruttamento con cui centinaia di migliaia di lavoratori soprattutto italiani siano stati alla mercé di datori di lavoro spietati, di organi dello Stato svizzero vessatori (Polizia degli stranieri), degli svizzeri come se tutti fossero razzisti e nonostante votassero contro le iniziative xenofobe, di rappresentanti diplomatici e consolari italiani più interessati alla loro tranquillità che al benessere dei connazionali, di attivisti politici e sindacali (specialmente svizzeri) solidali a parole e indifferenti in pratica.

Purtroppo questi detrattori seriali della politica immigratoria svizzera non s’interrogano mai sulla legittimità e costituzionalità di quella legge, altrimenti scoprirebbero che fu non solo legittima e costituzionale, ma anche democratica perché approvata all'unanimità dai rappresentanti del popolo e dei Cantoni. A molti di essi sfugge anche la considerazione che senza un rigido controllo degli ingressi e dei permessi di soggiorno degli stranieri, attratti dalla florida economia, il loro aumento illimitato avrebbe potuto pregiudicare la composizione etnica, linguistica, culturale, economica e persino politica della Svizzera, sarebbe stato difficile o forse impossibile conservare l’integrità nazionale e territoriale della Confederazione, rafforzare la fragile identità nazionale, promuovere il benessere generale e la sicurezza economica della popolazione, conformemente al senso e allo spirito della costituzione federale.

Purtroppo è stato invece sempre carente, a parere dello scrivente, il contributo al miglioramento della legge e della situazione degli immigrati da parte dell’immigrazione italiana organizzata, perché questa ha quasi sempre privilegiato la contestazione e quasi mai la proposta ragionevole e sostenibile, non ha scelto sempre gli strumenti più adeguati e non ha sempre sostenuto convintamente la via maestra dell’integrazione, non ha visto a lungo di buon occhio la tendenza alla naturalizzazione della seconda e poi della terza generazione. Ma non è questo l’ambito giusto per trattare questi temi.

Limiti della legge del 1931

Anche la legge sugli stranieri del 1931 può essere ovviamente criticata e a mio parere alcuni punti lo meritano perché avrebbe potuto essere opportunamente modificata, almeno dal momento in cui la politica svizzera si è resa conto che l’immigrazione stava diventando strutturale. Il legislatore avrebbe potuto (e forse dovuto) mitigare la rigidità dei permessi di soggiorno, intervenire contro gli abusi del permesso stagionale che creavano troppi «falsi stagionali», introdurre misure di sostegno all'integrazione senza aspettare le iniziative anti-stranieri di Schwarzenbach, facilitare la naturalizzazione della seconda generazione, superare la rigidità di una legge che era stata concepita e approvata per consentire alla Confederazione di lottare contro il pericolo dell’inforestierimento (Überfremdung), soprattutto quando la percentuale degli stranieri ha cominciato a decrescere (8,7% nel 1930).

La Svizzera si presentava ed era vista allora soprattutto
come meta «temporanea» (e precaria) di lavoro e di vita! 
L’articolo 4, per fare qualche esempio, avrebbe potuto essere eliminato o almeno riscritto dando per scontato che «l’autorità decide liberamente, nei limiti delle disposizioni di legge e dei trattati con l’estero, circa la concessione del permesso di dimora o di domicilio» e che non è obbligata al rinnovo dei permessi, qualora vengano meno le condizioni per le quali furono rilasciati. Perché insistere sul sentimento di precarietà già vissuto drammaticamente da molti immigrati?

Anche l’articolo 10 avrebbe potuto essere lasciato cadere o scritto diversamente senza elencare la nutrita casistica per cui gli stranieri indesiderati potevano essere espulsi (criminalità, malattia, indigenza (!), abuso dell’ospitalità svizzera con ripetute infrazioni gravi dell’ordine pubblico, ecc.).

L’articolo 16, giustificato nella sostanza, avrebbe potuto essere migliorato nella forma, anche per non ingenerare equivoci, inevitabili quando si dice genericamente che «nelle loro decisioni, le autorità competenti a concedere i permessi terranno conto degli interessi morali, economici del paese nonché dell’eccesso della popolazione straniera». Bastava forse dire che le nuove ammissioni dovranno avvenire tenendo presente la situazione del mercato del lavoro.

Tuttavia, il principale limite di questa legge è stato forse di mirare essenzialmente a «proteggere» gli interessi svizzeri (e i valori svizzeri contro il pericolo di un’invasione incontrollata di migranti eterogenei), trascurando, anche nell'interesse svizzero, il principio dell’integrazione degli stranieri, soprattutto di quelli residenti stabilmente. Purtroppo, solo lentamente, dopo il 1970, la politica è intervenuta a mitigare le difficili condizioni di vita degli stranieri e ad avviare lentamente l’integrazione, cominciando dalle seconde generazioni. Meglio tardi che mai?

Giovanni Longu
Berna 02.07.2025 

25 giugno 2025

1925: Basi della politica immigratoria federale

Alla fine della prima guerra mondiale la Confederazione sapeva che doveva darsi una normativa chiara e solida riguardo agli stranieri che dagli ultimi decenni dell’Ottocento giungevano in massa per sopperire alla carenza di manodopera svizzera per un’economia con ampie prospettive di sviluppo. L’Esposizione nazionale di Berna del 1914 aveva messo in luce non solo i risultati conseguiti dall’industria svizzera e riverberati nel benessere diffuso su vasta scala (la Belle Epoque), ma anche le grandi potenzialità delle nuove scoperte, dell’innovazione tecnologica e dell’organizzazione del lavoro. La guerra, però, aveva insegnato agli svizzeri che il progresso illimitato non era garantito e che l’abbondante forza lavoro straniera presente in Svizzera avrebbe potuto creare seri problemi, perché non poteva essere naturalizzata «per forza» né rinviata al Paese di provenienza, a causa degli accordi bilaterali con gli Stati fornitori, qualora non fosse stata più necessaria. L’incertezza del futuro animò a lungo il dibattito pubblico sugli stranieri, fin quando, nel 1925, giusto cento anni fa, il Popolo fu chiamato a decidere.

Le incertezze del dopoguerra

La prima guerra mondiale, pur avendo risparmiato in gran parte la Svizzera, ne aveva minato lo slancio ottimistico che aveva caratterizzato il primo decennio del secolo e che si era manifestato nella grande Esposizione nazionale di Berna nel 1914, in piena Belle Epoque. Per coloro che non vedevano più davanti a sé un futuro roseo per l’economia (e di conseguenza per la prosperità sociale) fu facile individuare nella sovrabbondante manodopera straniera l’ostacolo a cui occorreva trovare urgentemente un rimedio per non correre il rischio di dipendere dall’estero (pericolo di inforestierimento) e dover assistere migliaia di persone in più (pericolo di un’assistenza insopportabile) in caso di disoccupazione estesa.

Il dibattito era in corso dall'inizio del secolo, ma le soluzioni proposte si rivelarono inefficaci, compresa la nuova legge sulla cittadinanza del 1903 voluta per facilitare l’acquisizione della cittadinanza svizzera a chi nasceva in Svizzera da genitori stranieri già residenti in questo Paese (introducendo una sorta di Ius soli). In tal modo si pensava di poter stabilizzare la popolazione straniera residente, ma nessun Cantone se ne avvalse. D’altra parte, la Confederazione non aveva alcuna competenza sulla gestione ordinaria degli stranieri in quanto la Costituzione l’attribuiva ai Cantoni.

A questa difficoltà interna si aggiungeva per la Confederazione quella esterna di aver sottoscritto, specialmente con i Paesi vicini, per esempio con l’Italia, trattati importanti di libera circolazione delle persone in entrambi gli Stati, ai quali non intendeva rinunciare. Come avrebbe potuto la Svizzera rinviare in quei Paesi la manodopera eccedente le necessità dell’economia? Inoltre, come poteva impedire l’ingresso alle persone che volevano entrare in Svizzera?

Rimedi provvisori

Per alcuni decenni il Consiglio federale rimediò a questa lacuna costituzionale con soluzioni provvisorie, prolungando alcune misure eccezionali introdotte in tempo di guerra (come facevano generalmente tutti gli Stati belligeranti) per impedire l’ingresso indiscriminato in Svizzera a disertori, renitenti anarchici, socialisti, bolscevichi, disoccupati e persino delinquenti comuni provenienti da tutta l’Europa in seguito al crollo degli imperi russo, austro-ungarico e tedesco. Fu persino reintrodotto il «visto» sui passaporti, ma, soprattutto, avvalendosi dei poteri straordinari ricevuti durante la guerra, il Consiglio federale istituì nel 1917 l’Ufficio centrale di polizia degli stranieri (la cosiddetta Polizia degli stranieri), destinata a diventare praticamente lo strumento politico-burocratico contro l’«inforestierimento».

Si sa che grazie alle misure adottate dalla Confederazione alcuni risultati erano stati raggiunti, per esempio, la quota degli stranieri sulla popolazione residente totale era scesa dal 14,7% di prima della guerra al 10,4% del 1920, sebbene il Consiglio federale ritenesse che il 10,4 % di stranieri costituisse pur sempre «una proporzione anormale per l'equilibrio della nostra popolazione».

Nessuno, tuttavia, era soddisfatto della situazione normativa riguardante gli stranieri perché non era costituzionalmente fondata, si prestava a grandi difformità cantonali.

Necessità di una riforma costituzionale

L’insoddisfazione per le misure eccezionali adottate dal governo era molto diffusa, anche perché la regolamentazione degli stranieri differiva da Cantone a Cantone, e da più parti si reclamava un disciplinamento legislativo federale uniforme della materia. Nel corso di un dibattito parlamentare del 1923 «sui provvedimenti da prendersi per favorire l'assimilazione degli stranieri in Svizzera e specialmente sulla revisione della legislazione concernente la naturalizzazione» fu chiesto ancora una volta al Consiglio federale di presentare al Parlamento una regolamentazione federale organica delle questioni relative al problema degli stranieri, specialmente quelle del soggiorno e della naturalizzazione.

Nel 1924, nella sua risposta il Governo non fece che ribadire che un intervento regolatore della Confederazione in materia di stranieri sarebbe stato possibile solo se ne avesse avuto la competenza costituzionale. Si trattava quindi di adottare in Parlamento la modifica costituzionale necessaria e sottoporla, come ogni modifica della Costituzione federale, al voto popolare. Il 25 ottobre 1925 fu sottoposto al voto popolare il «decreto federale concernente la dimora e il domicilio degli stranieri» già adottato dall'Assemblea federale il 19 giugno 1925, il quale, col nuovo articolo 69 ter, attribuiva in sostanza alla Confederazione «il diritto di far leggi sull'entrata, l'uscita, la dimora e il domicilio degli stranieri».

Ampio consenso popolare

La riforma costituzionale fu ampiamente approvata dal Popolo (col 62,2% di sì) e dai Cantoni (solo tre Cantoni - Friburgo, Ticino e Vallese – e un Semicantone – Appenzello Interno votarono contro) per cui la Confederazione poteva ora elaborare quella che sarà per decenni la legge più importante relativa agli stranieri e consentirà di adottare tutte le misure che riguarderanno la stabilizzazione, l’integrazione e la naturalizzazione degli stranieri. 

Sui risultati ottenuti con le leggi, le ordinanze, le misure di accompagnamento e l’impegno profuso dalla Confederazione, dai Cantoni e da altre istituzioni pubbliche e private in questa complessa materia le opinioni sono divergenti, ma dovrebbe essere innegabile che tutto si è svolto sulla base di un ampio consenso popolare, nella legalità e nel rispetto della Costituzione federale democratica.

Purtroppo, invece, alcune opinioni, che tali dovrebbero restare, si trasformano in certe narrazioni di pseudo-storici dell'immigrazione italiana in Svizzera in giudizi severi in base a categorie non attuali al tempo di quei provvedimenti, ignorando totalmente non solo il contesto, ma anche la base giuridica democratica e costituzionale. Tanto è vero che di fronte alle restrizioni introdotte con la legge del 1931 (di cui si tratterà prossimamente) nemmeno l'Italia è intervenuta a difesa del Trattato del 1868, ma riconobbe tacitamente la legittimità dei nuovi provvedimenti restrittivi introdotti unilateralmente dalla Svizzera.

Giovanni Longu
Berna, 25.06.2025

18 giugno 2025

1925: Origine e sviluppo delle colonie libere italiane (2a parte)

Le Colonie Libere Italiane (CLI), fondate da esuli antifascisti avevano a cuore soprattutto le sorti dell’Italia, che pensavano di poter restituire alla democrazia una volta caduto il regime fascista. Non essendo una creazione degli immigrati per motivi di lavoro, almeno inizialmente le CLI non ebbero un interesse particolare per le tipiche problematiche immigratorie. Esso maturò solo dopo la creazione della Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera (FCLIS) nel 1943 e dopo la fine della guerra, quando apparve chiaro che l’immigrazione italiana era destinata a durare e aveva bisogno di sostegno (politico), di istruzione (per l’infanzia e per gli adulti), di cultura (ritrovi, giornali, biblioteche, conferenze), di formazione professionale e anche di un forte senso di appartenenza a un gruppo sociale consistente e talvolta persino determinante nell'economia e nella società svizzere.

Pretese eccessive e miopi

Come detto nell'articolo precedente, l’impegno politico sociale e culturale delle CLI per il miglioramento delle condizioni generali degli immigrati (italiani) in Svizzera e soprattutto per una maggiore presa di coscienza dei loro diritti è incontestabile e complessivamente virtuoso, ma in una retrospettiva seria e obiettiva non si può negare che il loro contributo sia stato meno incisivo di quanto alcuni ritengono. Di seguito vengono rievocati alcuni errori clamorosi delle CLI allo scopo di fornire qualche elemento in più per comprendere (meglio) la storia dell’immigrazione italiana in Svizzera ed evidenziare che su di essa hanno probabilmente influito negativamente anche l’atteggiamento talvolta intransigente e miope e alcune pretese eccessive (si pensi per esempio all'abolizione dello statuto stagionale o alla soluzione del problema dei «falsi stagionali») della FCLIS (ma non solo di essa).

Finita la guerra, la FCLIS, rivendicò subito per sé «la rappresentanza unitaria di tutti gli italiani dimoranti in Svizzera e rimasti fedeli alle grandi tradizioni di libertà e di umanità». Si trattava non solo di una rappresentanza morale (ispirata ai principi della libertà, della solidarietà e della difesa dei lavoratori), ma anche politica (caratterizzata da un forte spirito antifascista e, da quando il PCI guidò l’opposizione, anche antigovernativo), che sollevò però forti dubbi e contrasti persino all'interno della FCLIS, ma soprattutto presso altre organizzazioni di immigrati e persino in alcuni ambienti svizzeri.

Errori clamorosi

Un primo errore è stato commesso proprio nell'ambito dell’associazionismo. Infatti i successi conseguiti dopo il 1943 con un’ampia adesione di immigrati alle prime CLI ha fatto credere ad alcuni dirigenti che la neocostituita FCLIS fosse la vera e unica rappresentante di tutti gli italiani residenti in Svizzera. In effetti, il Terzo Convegno delle Colonie Libere della Svizzera, tenutosi a Berna nel marzo 1945, approvò all'unanimità la seguente risoluzione: «La Federazione delle C.L.I. della Svizzera […] rivendica anzitutto alle Colonie libere e alla loro Federazione […] il merito di aver preso un'iniziativa valsa a trarre l'emigrazione italiana in Svizzera dallo stato di disorientamento e di inerzia seguito agli avvenimenti del luglio e settembre del 1943 [e] riconferma per questa iniziativa e per l’autorità morale e politica che le Colonie Libere hanno saputo acquistarsi, la sua qualità di unica rappresentante dell’emigrazione italiana nella Svizzera».

Si trattò di una decisione che peserà moltissimo, negativamente, sull’evoluzione della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera. Infatti, invece di unire i vari enti ormai epurati dal fascismo, le CLI fomentarono spesso la disunione soprattutto nei confronti delle Missioni cattoliche italiane (MCI) e associazioni aderenti, che consideravano antagoniste, sebbene rappresentassero importanti centri d’incontro, gestissero numerose scuole e svolgessero altre importanti opere sociali.

Un secondo errore clamoroso è stato l’opposizione della FCLIS alle rappresentanze diplomatiche e consolari, come quando pretendeva l’epurazione perentoria dei (presunti) fascisti dalle organizzazioni e istituzioni ex-fasciste o che in qualche misura erano state compromesse col regime (Consolati, Società Dante Alighieri, Case d’Italia, Istituti di cultura, scuole, gruppi sportivi, ecc.). Quanto bastava per avere contro, oltre alle MCI, numerose istituzioni e creare molta diffidenza anche tra le rappresentanze diplomatiche e consolari italiane e nei sindacati svizzeri.

Si legge ad esempio nel verbale di una riunione del 1973 della «Commissione federale consultiva per il problema degli stranieri» che il Consigliere nazionale e presidente del sindacato FLMO Wüthrich si rammaricava che le Colonie Libere Italiane (CLI) fossero ancora così tanto ascoltate.

Si temeva, infatti, che alla base di queste operazioni non ci fosse solo il desiderio di far valere le ragioni dell’antifascismo o di apportare miglioramenti alle condizioni degli immigrati, ma anche l’obiettivo di gestire il malcontento e «iniziare alla pratica della libertà le collettività italiane uscenti da una specie di medioevo spirituale». Questo atteggiamento creò qualche timore anche in alcuni ambienti svizzeri, per i quali sembrava che l’obiettivo vero fosse quello di creare disordine e far penetrare in Svizzera l’ideologia comunista attraverso la propaganda sovversiva.

Nei confronti delle autorità italiane alcune rivendicazioni dovevano apparire palesemente eccessive, come quando su alcune questioni le CLI preferivano investire direttamente Roma, attraverso i partiti di riferimento (PCI e PSI) o i sindacati di riferimento (CGIL e UIL), senza rendersi conto che scavalcando le autorità diplomatiche e consolari finivano per indebolirle agli occhi degli svizzeri e potevano creare screzi importanti nei tradizionali buoni rapporti italo-svizzeri, come nel caso di vistose intromissioni in questioni di politica interna svizzera da parte di certi ministri, sottosegretari e ambasciatori.

Grave è stato anche l’errore, nell'ambito di rivendicazioni lavorative, di fare esplicitamente più affidamento sui sindacati e patronati italiani che sui sindacati svizzeri, che non gradivano per nulla di essere messi in competizione e talvolta opposizione con le organizzazioni sindacali italiane. In questo contesto, una conseguenza negativa, di cui poco si sa e meno si parla, fu il diverso atteggiamento dei principali sindacati svizzeri nei confronti delle varie istituzioni di formazione professionale italiane, che non riuscirono mai a concepire programmi formativi comuni e ancor meno a gestire in comune strutture, finanziamenti, retribuzioni, formazione del personale, ecc.

Un terzo errore, gravissimo, perché divise profondamente la collettività immigrata, fu proprio quello di aver diviso, sebbene per lo più involontariamente e in contraddizione col desiderio diffuso di unità (che portò nel 1970 alla fondazione del Comitato Nazionale d’Intesa CNI), le associazioni degli immigrati, riproducendo anche in un ambiente tradizionalmente apolitico la lotta tra i partiti che si accese nel dopoguerra in Italia. Le CLI non fecero abbastanza per risolvere le divergenze, anzi si schierarono prevalentemente da una parte, lasciando che i sospetti di filocomunismo gravassero sull'insieme della collettività italiana immigrata.

In altri ambiti, e specialmente in quelli della cultura, della scuola, del tempo libero, del dibattito pubblico, della formazione politica, della fedeltà all'antifascismo, ecc. le CLI sono state indubbiamente molto più efficienti, per cui resta difficile se non impossibile stilare un bilancio obiettivo complessivo, tanto più che alcune CLI sono ancora in piena attività. Semmai starà al lettore fare la sintesi che ritiene più giusta.

Giovanni Longu
Berna, 18.06.2025

10 giugno 2025

1925: Origine e sviluppo delle Colonie Libere Italiane (1a parte)

Le Colonie Libere Italiane (CLI) meritano di essere ricordate in questa serie di anniversari significativi perché hanno inciso profondamente sullo sviluppo dell’immigrazione italiana in Svizzera, sebbene agli inizi (1925) non fossero né una sua emanazione diretta né funzionali alla sua evoluzione. Le prime CLI nacquero infatti in ambienti di esuli antifascisti intenzionati a riportare in Italia la democrazia e la libertà, una volta abbattuto il regime fascista. Solo in seguito, dopo la fondazione nel 1943 della Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera (FCLIS), cominciarono ad occuparsi anche della situazione migratoria e della sua trasformazione. Il loro contributo al miglioramento delle condizioni degli immigrati (italiani) fu intenso, ma meno incisivo e risolutivo di quanto alcuni ritengono. Pesarono negativamente sull'efficacia delle loro iniziative specialmente l’atteggiamento iniziale di una loro presunta superiorità sulle altre organizzazioni e la loro connotazione, ampiamente percepita, di movimento politico-sociale filocomunista. Se da una parte le CLI hanno contribuito alla crescita tra gli immigrati italiani di una maggiore consapevolezza culturale e politica, dall'altra ne hanno forse rallentato la coesione e, soprattutto, ritardato l’integrazione.

Perché colonie «libere»?
Per le prime CLI (anche se fino al 1943 non si chiamavano «Colonie libere italiane») costituitesi a Ginevra (1925), a Zurigo (dal 1930) e dopo il 1943 anche in altre città svizzere, «libere» significava «antifasciste», una connotazione distintiva nei confronti delle organizzazioni che avevano aderito al regime o ne avevano a vario titolo accettato il controllo. Le prime due colonie (di Ginevra e di Zurigo) illustrano bene questa caratteristica. 

La CLI di Ginevra, anzitutto, considerata da numerosi studiosi la prima nata, nel 1925 (anche se agli inizi non aveva tale denominazione, trattandosi in effetti della Società Dante Alighieri, già esistente dal 1894) divenne «libera» quando rifiutò di partecipare a una manifestazione organizzata dal Fascio locale, lasciando intendere che non riconosceva l’egemonia fascista. Questo rifiuto provocò non solo lo smembramento della Dante e la perdita dei contributi pubblici per la parte separatista, ma anche il cambio della sede e, dal 1928, pure del nome, divenuto «Associazione Dante Alighieri».

Altra importante conseguenza fu la perdita del sostegno alle «Scuole italiane di Ginevra», frequentate da centinaia di allievi e sostenute dalla Dante Alighieri, perché rifiutarono di sottomettersi al regime. Riuscirono tuttavia a sopravvivere, sia l’Associazione che le Scuole, grazie all'impegno e al prestigio di due grandi antifascisti, Egidio Reale a capo dell’Associazione e Giuseppe Chiostergi alla direzione delle Scuole. Entrambi preferirono la libertà per sé e per le istituzioni che dirigevano.

A Zurigo la situazione ebbe un’evoluzione analoga o forse un tantino più facile perché da decenni c’era già una concentrazione di socialisti attorno al centro storico del «Cooperativo» (cfr. https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2025/04/1915-conferenza-di-zimmerwald-5-891915.html). Il rifiuto dell’assoggettamento al fascismo si accentuò tuttavia nel 1927 quando fu creata una combattiva associazione di antifascisti denominata «La Mansarda», come punto di riferimento per tutte le associazioni che non intendevano sottostare al regime fascista. Nel 1930, per sottolineare l’opposizione al fascismo la Mansarda venne ribattezzata «Colonia libera italiana» e da allora Zurigo divenne uno dei principali centri dell’antifascismo all'estero.

Analogamente a quel che succedeva a Ginevra, anche a Zurigo la Mansarda creerà una «Scuola Libera» per i figli degli emigrati italiani, in opposizione al tentativo di penetrazione fascista attraverso la scuola oltre che tramite il Fascio e la Casa d’Italia locali.

Evoluzione delle CLI

Con la costituzione della Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera (FCLIS) nel corso di una riunione storica ad Olten (21 novembre 1943), le prime dieci Colonie Libere Italiane già costituite o in via di costituzione decisero di migliorare i contatti, coordinare le attività, adottare una linea comune nei confronti delle istituzioni fasciste e neofasciste presenti in Svizzera, sensibilizzare il maggior numero possibile di lavoratori emigrati ai valori democratici che avevano guidato la Resistenza, darsi un’organizzazione centrale, uno statuto e finalità comuni.

La nascita della FCLIS, che avrà come sede provvisoria Ginevra e poi, definitiva, Zurigo, fu salutata con grande interesse non solo dagli ambienti antifascisti, ma anche, secondo il resoconto fattone dal quotidiano socialista ticinese Libera Stampa, da «scuole, società ricreative, mutue, cooperative, gruppi sindacali, ecc.». In breve tempo, alle prime dieci Colonie se ne aggiunsero altre quindici, che giustificarono ben tre convegni federali, due a Zurigo (1944) e uno a Berna (1945), e un Congresso a Lugano (1945).

Per l’immigrazione italiana in Svizzera sembrava l’inizio di una nuova era, anche perché a quell'incontro avevano partecipato numerose personalità molto in vista dell’antifascismo e ben preparate politicamente e culturalmente come Giuseppe Chiostergi, Egidio Reale, Fernando Schiavetti, Giuseppe de Logu, Manlio Sancisi, Mario Mascarin e altri. Il loro impegno fu all'inizio contagioso e si riverberò nella costituzione di numerose CLI in tutta la Svizzera. Ma la loro evoluzione non sempre corrispose alle aspettative dei fondatori e ai reali bisogni degli immigrati. (Segue).

Giovanni Longu
Berna 10.6.2025

03 giugno 2025

1925: Conferenza di Locarno tra realtà e illusione

La cittadina di Locarno, in Svizzera, sul Lago Maggiore, gode di un microclima particolare che la rende una meta turistica di prim'ordine a livello nazionale e internazionale. Oggi, la sua notorietà è legata soprattutto al Festival internazionale del cinema di Locarno, la più importante manifestazione cinematografica svizzera e una fra le più importanti d’Europa, Locarno era già molto rinomata agli inizi del secolo scorso, quando fu scelta come sede di una conferenza di pace. Si trattava in particolare di garantire il confine renano tra la Francia, il Belgio e la Germania, stabilito dal Trattato di pace di Versailles dopo la prima guerra mondiale (1914-1918). La Conferenza di Locarno di cent’anni fa viene qui rievocata perché rappresentò per l’Europa una grande speranza, trasformatasi pochi anni più tardi in una cocente delusione, da cui non sembrava potersi facilmente riavere.

Dal Trattato di Versailles alla Conferenza di Locarno

Foto-ricordo della Conferenza di Locarno
Col Trattato di Versailles, firmato il 28 giugno 1919 da 44 Stati, i vincitori della guerra decisero di far pagare cara ai tedeschi l’immane tragedia che avevano provocato ai popoli europei. Esso infatti obbligava la Germania a cedere territori al Belgio, alla Cecoslovacchia e alla Polonia, imponeva ingenti riparazioni di guerra, lo smantellamento dell'impero coloniale tedesco, la demilitarizzazione della Renania, la riduzione massiccia dell’esercito, della marina e dell’aviazione, il divieto di aggressione e l’obbligo di ricorrere all'arbitrato pacifico in caso di controversie. Si sapeva però che il punto più fragile sarebbe stato il confine del Reno tra Francia, Belgio e Germania, per cui su di esso si concentrarono le preoccupazioni maggiori dei partecipanti alla Conferenza di pace di Locarno, che si tenne dal 5 al 16 ottobre 1925.

Finalizzata a preservare gli Stati europei dal flagello della guerra, regolare pacificamente eventuali controversie e garantire soprattutto il confine renano, tra i delegati dei vari Paesi interessati (Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Cecoslovacchia e Polonia) sembrò regnare fin dall'inizio uno spirito positivo (l’«ésprit de Locarno») e un certo ottimismo. Alla conclusione dei lavori, con la firma di un Patto di garanzia per la frontiera del Reno e quattro trattati di arbitrato, tutti sembravano ritenere che la «pace del Reno» avrebbe garantito «la pace d’Europa» e tutti speravano di ripristinare in Europa una pace stabile. Persino la Germania, che aveva subito il diktat più pesante, era ottimista: accettava il nuovo confine renano, garantito da Gran Bretagna e Italia (potenze garanti), e s’impegnava con la Polonia e la Cecoslovacchia a regolare secondo il diritto internazionale le eventuali divergenze.

L’ottimismo dei delegati pareva giustificato perché tra loro regnava effettivamente un’atmosfera distesa, positiva e produttiva e tutti speravano che con la Conferenza di Locarno si aprisse in Europa «un’era di efficiente pacificazione» e «un periodo nuovo, fondato sul principio dell’uguaglianza dei vinti con i vincitori e sul funzionamento dei patti d’arbitrato sotto l’egida della Società delle Nazioni», che era stata appositamente creata col Trattato di Versailles, con sede a Ginevra.

La Conferenza sembrava segnare in effetti una pietra miliare nella storia della pace e della civiltà umana perché forse per la prima volta al rappresentante di un Paese vinto e schiacciato, il ministro degli esteri tedesco Gustav Stresemann (1878-1929), fu concesso di partecipare attivamente ai lavori della conferenza alla pari degli altri rappresentanti. Alla conclusione della Conferenza, riconoscente, dichiarava non solo di «accettare» di firmare i trattati «in piena lealtà», ma aggiungeva che «con sincera gioia» la Germania si augurava una pace stabile e il riavvicinamento dei popoli e dei governi, nella convinzione che «solo la pace e la collaborazione possono assicurare l’avvenire e lo sviluppo dei popoli».

Da sin.: G. StresemannA. Chamberlain e A. A. Briand
Alle parole di Stresemann si associarono il delegato francese Aristide Briand (1862-1932) e quello britannico Austen Chamberlain (1861-1937), sottolineando l’importanza per la pace della «cooperazione dei popoli europei», nella convinzione che si dovesse «lavorare in comune in tutti i campi per la realizzazione di un’Europa pacifica, fedele a tutto ciò che rappresenta il suo passato di civiltà e di nobiltà». Anche Benito Mussolini (1883-1945) non esitò a considerare la Conferenza «un avvenimento memorabile, destinato ad affratellare i popoli».

Dall'ottimismo alla cocente delusione

L’azione seria e fiduciosa di Stresemann, Briand e Chamberlain e specialmente l’impegno di Stresemann per la riconciliazione tra i popoli europei e per l’ingresso della Germania nella Società delle Nazioni furono giustamente premiati con l’assegnazione ai tre politici del Premio Nobel per la Pace. Si deve anche riconoscere che nel 1926, con l’entrata in vigore del Patto di Locarno e l’ingresso della Germania nella Società delle Nazioni, cominciò in Europa un intenso periodo di distensione e collaborazione. Lo spirito di Locarno sembrava aleggiare tra le nazioni e niente lasciava presagire l’immane tragedia che le avrebbe colpite nuovamente.

«Quasi tutta l’Europa – ha scritto Sergio Romano – tirò un sospiro di sollievo ed ebbe la sensazione che cominciasse finalmente nella storia del mondo, undici anni dopo lo scoppio della Grande guerra, un capitolo nuovo». Illusione! 

Dieci anni più tardi, però, apparve chiaramente a tutti che lo spirito di Locarno si era dileguato. Lo dimostrava Hitler, da poco al potere in Germania, che il 7 marzo 1936 denunciò gli Accordi sottoscritti ritenendoli una prosecuzione della politica di Versailles e occupò militarmente la Renania; ma lo dimostrò anche Mussolini, che sognava anch'egli l’impero e le colonie. E da allora fu solo una lunga e intensa preparazione della seconda guerra mondiale, la più grave catastrofe dell’umanità.

In realtà, che Mussolini si attendesse altro dalla Conferenza di Locarno non tardò a farlo capire egli stesso. Sperava infatti che la garanzia limitata al confine renano venisse estesa alla frontiera italiana del Brennero, preoccupato di poter avere prima o poi una frontiera comune con la Germania qualora questa avesse deciso di assorbire l’Austria. Ma gli altri partecipanti alla Conferenza non erano d'accordo e glielo fecero capire fin dal suo arrivo a Locarno. 

Infatti, arrivato in motoscafo da Stresa, non ebbe l’accoglienza che forse si aspettava nemmeno da parte della stampa internazionale e della popolazione, sia per il comportamento arrogante delle camicie nere che lo accompagnavano e sia perché in Ticino erano note le violenze squadriste dei suoi fanatici seguaci. Da parte loro, anche i rappresentanti degli Stati si mostrarono nei suoi confronti del tutto indifferenti (ad eccezione del britannico Chamberlain) se non addirittura sprezzanti. Non godeva evidentemente già allora di una buona reputazione. 

Lo «spirito di Locarno» è ancora vivo

Del resto, anche il Consiglio federale rispose tiepidamente al messaggio che il Duce gli aveva inviato prima di metter piede in Svizzera. Rispose, infatti, che «il Consiglio federale Le è gratissimo dell’amichevole saluto rivoltogli e nel mentre Le dà il più cordiale benvenuto sul territorio svizzero, è lieto di constatare che la di Lei presenza a Locarno testifichi in modo così manifesto che la Conferenza Internazionale sta per mettere il proprio sigillo alla grande opera di pace per la quale è stata convocata». Da allora Mussolini non metterà più piede in Svizzera, anche se vi sperò fuggendo precipitosamente da Milano nel 1945.

Lo spirito di Locarno tuttavia non morì, anzi riprenderà vita, sotto nuove forme e incarnato in nuovi personaggi. Subito dopo la seconda guerra mondiale  ricominciò ad aleggiare e prendere forma nella nuova Europa che anche se non ben definita comincia a intravedersi.
Giovanni Longu
Berna, 3 giugno 2025

27 maggio 2025

1925: Un eroe per l’Ambasciata d’Italia a Berna

Con la presa del potere in Italia da parte di Benito Mussolini (1883-1945), il regime fascista cercò di conquistare anche gli italiani emigrati all'estero, per lo più politicamente apatici e alcuni decisamente contrari, creando una rete di sezioni del Fascio (cfr. articolo precedente). Si sa che il primo tentativo di crearne uno anche a Berna, nel 1923, non andò a buon fine, nonostante il sostegno del ministro Carlo Garbasso, capo della Legazione italiana. I promotori ebbero invece successo due anni dopo (21 giugno 1925) in occasione della commemorazione dell’eroe e medaglia d’oro Fulcieri Paulucci de Calboli (1893-1919) nel corso di una manifestazione, un evento che ebbe nella stampa nazionale un’eco enorme, soprattutto per la partecipazione del Consigliere federale Giuseppe Motta (1871-1940), un successo per la numerosa colonia italiana salutata rispettosamente dal governo svizzero.

Giuseppe Motta: una presenza contestata

Berna, lapide con epigrafe di Mussolini in onore di Fulcieri Paulucci de Calboli
sul muro esterno dell'Ambasciata d'Italia a Berna.
La partecipazione di Motta alla manifestazione del 21 giugno 1925, che si svolte nel bel parco della Legazione italiana alla Elfenstrasse di Berna («in una cornice di carpini, piste da bocce, specchi d'acqua bordati da rose in fiore, di fronte ad alti alberi dal fogliame chiaro le cui cime erano mosse da un vento leggero») divenne per molti svizzeri un caso politico, perché era inusuale che un Consigliere federale si recasse in visita ufficiale in un’ambasciata straniera, ma soprattutto perché quel gesto rischiava di apparire un riconoscimento del regime fascista, dal quale il Consiglio federale intendeva invece prendere le distanze e verso il quale era già intervenuto con fermezza.

Alcuni critici insinuarono che il ticinese Giuseppe Motta praticasse nei confronti dell’Italia fascista una «politica condiscendente», ma altri, forse più realisticamente, ritennero ch'egli, amante e sostenitore dell’italianità, pur provando come altri governanti europei una certa simpatia per Mussolini, cercasse solo di evitare i motivi di attrito col regime e di favorire le buone relazioni bilaterali. Bisogna però anche aggiungere che Motta ammirava del giovane Fulcieri soprattutto l’eroismo sul campo di battaglia e ancor più durante la sua malattia. Ricordandolo su un quotidiano ticinese poco dopo la morte, non aveva esitato a considerarlo «un santo sublime, il santo dell’amor di patria», ritenendo che quanto Dante attribuiva nel canto quattordicesimo del Purgatorio al suo antenato Rinieri, a meraviglia s'addicesse all'eroe Fulcieri: «quest’è 'l pregio e l’onore / della Casa da Calboli…».

Non va nemmeno dimenticato che Motta provava una grande ammirazione anche per il padre di Fulcieri, il marchese Raniero Paulucci de Calboli (1861-1931) che era stato Capo Legazione dal 1913 al 1919. In quei sei anni non solo aveva dato alla Legazione italiana una sede stabile acquistando a proprio nome alla Elfenstrasse di Berna i due edifici dell’attuale Residenza e Ambasciata d’Italia, ma aveva dimostrato molta empatia verso gli oltre 200 mila connazionali immigrati spesso sfruttati e nello stesso tempo, durante la guerra, aveva tranquillizzato le autorità svizzere che il governo italiano non solo avrebbe rispettato la «neutralità perpetua» della Svizzera, ma anche gli accordi commerciali col Paese amico.

Consigliere federale Giuseppe Motta, 

Fulcieri, medaglia d’oro ed esempio per gli italiani

Fulcieri, volontario nella prima guerra mondiale, ferito ripetutamente e insignito della medaglia d’oro, era morto il 28 febbraio 1919 in una clinica di Saanen, vicino a Gstaad, nel Cantone di Berna. Con la sua morte, per il padre Raniero era venuta meno la motivazione per restare in Svizzera e lo stesso anno lasciò Berna per recarsi a Tokyo come ambasciatore. Vi ritornò nel 1925 solo in occasione della manifestazione in onore del figlio.

Fotoritratto di Fulcieri Paulucci de Calboli, medaglia d'oro.
La morte di Fulcieri, però, che aveva impressionato l’opinione pubblica nazionale italiana, non lasciò indifferente lo stesso Mussolini, che ne approfittò per esaltarne le virtù eroiche e celebrarne la memoria a Berna, da dove era partito per arruolarsi volontario e dove era stato accolto e assistito amorevolmente dalla famiglia, quando vi ritornò gravemente ferito. Per onorare in maniera esemplare la memoria dell’eroe di guerra e intestare al suo nome la stessa Legazione fu organizzata a Berna una imponente manifestazione nel lussureggiante parco della Legazione a cui parteciparono le rappresentanze di tutte le associazioni fasciste della Svizzera con i loro stemmi tricolori.

Per l'occasione fu distribuito un fotoritratto di Fulcieri in migliaia di copie, con un saluto manoscritto di Mussolini , che diceva fra l'altro: «Al cuore dell'Italia, tutti i cittadini morti in armi sono egualmente cari, tutti i morti in guerra sono egualmente gloriosi ... Di Fulcieri noi non ricordiamo solo il sacrificio estremo e il nome di soldato, ricordiamo la vita perfetta...».

Dedicare la Legazione di Berna alla memoria di Fulcieri sembrò a Mussolini non solo un atto dovuto per ricordare nella sua casa paterna l’eroe nazionale, ma anche un’occasione unica per celebrare l’amicizia italo-svizzera. Per queste ragioni fu lui a dettare l’epigrafe sulla lapide da affiggere sul muro esterno della Legazione («Da questa sua casa paterna - nel santo entusiasmo dell'italica fede - partì volontario per la grande guerra - Fulcieri Paulucci de' Calboli - Qui ritornando crudelmente ferito - e già sacro alla Morte - dopo il glorioso olocausto - diè tutto sè stesso alla Patria») e a insistere per invitare alla cerimonia non solo i delegati delle numerose associazioni fasciste presenti in Svizzera ma anche una rappresentanza del Consiglio federale, anzi proprio il consigliere federale Giuseppe Motta, che non nascondeva una certa ammirazione per Mussolini.

Questo episodio non è ricordato solo da una lapide e da una famiglia molto unita e amorevole (sulla sua tomba Raniero Paulucci de Calboli volle che si scrivesse solo: «Fu il padre di Fulcieri»), ma dalla storia molto interessante della sede diplomatica di Berna (in parte sconosciuta anche agli stessi attuali inquilini), ma soprattutto dalla profonda amicizia che lega ancora due Stati e due Popoli, in cui molti italiani immigrati si sono così bene inseriti da farne parte a tutti gli effetti, in tutti i campi e a tutti i  livelli.

Giovanni Longu
27.05.2025


19 maggio 2025

1920-1940: L'immigrazione italiana in Svizzera durante il fascismo

In Italia il fascismo si affermò sfruttando non solo il malcontento di molti italiani ai quali la grande guerra aveva cambiato la vita, ma anche il loro basso livello linguistico e culturale (analfabetismo altissimo, attorno al 36% a livello nazionale, con punte del 70% al Sud). Molta gente, infatti, male informata, sperava in una ripresa del lavoro e del benessere promessa da Mussolini. Intanto, subito dopo la guerra era ripresa l’emigrazione verso la Svizzera, ma i flussi si ridussero drasticamente quasi subito perché la Svizzera aveva introdotto misure severe di controllo alle frontiere, ma anche perché l’Italia fascista preferiva dirottare l’emigrazione verso le «colonie». Da allora il numero degli italiani presenti in Svizzera si è progressivamente assottigliato fino al minimo storico toccato sul finire della seconda guerra mondiale. Nel frattempo, tuttavia, il regime fascista ha cercato in molti modi di «fascistizzare» gli immigrati rimasti, riuscendovi però solo in parte.

Il fascismo blandì gli immigrati in Svizzera

Casa d'Italia di Zurigo, costruita nel 1930-31.
Probabilmente l’ideologia fascista non ha mai avuto larga presa tra gli immigrati italiani in Svizzera, nonostante la massiccia adesione (circa il 26% degli italiani residenti) ai circa 25 «Fasci» diffusi in tutta la Svizzera, da Chiasso a Zurigo, Berna, Basilea…». È tuttavia innegabile che oltre le istituzioni pubbliche italiane (Legazione e Consolati) molte associazioni aderirono al fascismo, se non altro per averne i benefici finanziari.

Fu infatti sotto il regime mussoliniano che strutture note come «Casa degli Italiani» o «Casa d’Italia» si moltiplicarono non solo in Ticino (dove ce n’erano ben tre), ma in tutta la Svizzera: a Zurigo, Ginevra, Losanna, Berna, Lucerna, Soletta, San Gallo, Neuchâtel, ecc.

Una delle prime e più importanti Case degli Italiani è quella di Zurigo, costruita nel 1930-31 allo scopo di riunire in un unico edificio le sedi del Fascio, delle Organizzazioni giovanili, del Dopolavoro, della Dante Alighieri, dell'orfanatrofio e di altre istituzioni. Il centro era dotato di una grande sala degli spettacoli, di una «mensa popolare del Fascio», di un bar, di una sala da bigliardo, di aule scolastiche, dell’abitazione del custode, ecc. Il fatto che sia sorta a Zurigo è dovuto non solo alla forte presenza di immigrati italiani in questa città e in questa regione, ma anche alla volontà del regime di contrastare l’influenza antifascista dei numerosi operai e intellettuali che avevano il loro punto di riferimento nel già famoso ristorante «Cooperativo».

Mussolini e la Svizzera

Se il fascismo ha potuto diffondersi in Svizzera ed entrare in numerose associazioni fu dovuto soprattutto alla tradizione liberale della Svizzera, tollerante fino alla prova di comportamenti pericolosi per la sicurezza nazionale da parte di stranieri, ma anche a una certa simpatia iniziale delle autorità federali, che vedevano benevolmente l’atteggiamento dichiaratamente anticomunista di Mussolini. Sapendo che anche qualche membro influente del Consiglio federale, addirittura il ministro degli esteri Giuseppe Motta, provava una certa simpatia nei suoi confronti (come risulterà meglio nel prossimo articolo), non poteva che fargli piacere.

Da parte sua, anche Mussolini, soprattutto agli inizi del suo governo, nutriva una certa ammirazione per la Svizzera, che considerava un valido baluardo contro l’influenza tedesca che detestava come una seria minaccia dell’italianità del Ticino. Per questo, ogniqualvolta se ne presentava l’occasione, non lesinava gli elogi alla Svizzera e al suo popolo laborioso e amante della libertà, sottolineando «i sentimenti di fraterna amicizia dell’Italia verso la Svizzera».

Non c’è dubbio che questi atteggiamenti, forse più formali che sostanziali, contribuissero a rinsaldare i rapporti bilaterali tra i due Stati, ma non va né sottovalutata né esagerata la precauzione della Confederazione e dello stesso Dipartimento politico federale diretto da Motta, di evitare per quanto possibile forti contrasti col regime fascista. Questo spiega, per esempio, la tolleranza dei Fasci, il cui Statuto, come si vedrà appresso, non contrastava con le disposizioni costituzionali sulla libertà di associazione, ma anche la decisione del 1923 del Consiglio federale di vietare sul territorio della Confederazione di portare la camicia nera, per evitare scontri con gli antifascisti.

Fascisti e antifascisti

A Mussolini non poteva ovviamente far piacere che la Svizzera ospitasse con una certa facilità numerosi fuorusciti italiani, i quali si dimostravano ben organizzati ed attivi, specialmente attraverso la rete sempre più fitta delle Colonie Libere Italiane; ma sapeva che la tolleranza della Confederazione era subordinata all'impegno dei profughi di astenersi da ogni attività politica che potesse turbare le relazioni fra il Paese di provenienza e la Confederazione, pena l’espulsione.

Nel 1923 il Consiglio federale vietò le manifestazione in camicia nera
Mussolini, però, sapeva anche che il miglior antidoto all'antifascismo era la diffusione del fascismo per cui favorì fin dal 1922 la formazione pure in Svizzera dei Fasci e per evitare eventuali difficoltà di ordine legale o burocratico impose uno «Statuto dei fasci all'estero» (del 29 gennaio 1928), che conteneva ai primi posti questi due «comandamenti»: «1. I fascisti che sono all'estero devono essere ossequienti alle leggi del paese che li ospita. Devono dare esempio quotidiano di questo ossequio alle leggi e dare, se necessario, tale esempio agli stessi cittadini. 2. Non partecipare a quella che è la politica interna dei paesi dove i fascisti sono ospitati».

Infine, va anche ricordato che i rapporti di vertice non influirono significativamente sulla politica immigratoria federale, che continuava ad essere restrittiva, tanto da indurre l’Assemblea federale ad adottare nel 1931 una legge sulla dimora e il domicilio degli stranieri (entrata in vigore il 1° gennaio 1934) che consentiva al Consiglio federe di adottare misure contro il pericolo d'«inforestierimento» della Svizzera, rendendo di fatto inapplicabile il Trattato con l’Italia del 1868. Poco male, visto che l’immigrazione dall'Italia durante il fascismo era quasi ridotta a zero; molto male quando, finita la guerra, la Svizzera spalancherà nuovamente le porte all'immigrazione soprattutto dall'Italia, ma a condizioni ben diverse.

Giovanni Longu
Berna 19.05.2025

14 maggio 2025

1915-18: L’Italia in guerra (terza parte: conseguenze nefaste)

Della prima guerra mondiale (1914-18) nessuno ha più ricordi diretti, delle conseguenze invece sì. Se in questa serie di anniversari significativi se ne riparla non è però solo perché le conseguenze furono indelebili, specialmente per l’Italia, ma anche perché l’opinione pubblica sembra considerare la guerra, anche nel mondo d’oggi, inevitabile e la pace raggiungibile solo con le armi, dunque del più forte. Eppure proprio la conclusione della prima guerra mondiale dovrebbe far capire che non basta vincere per garantire una pace giusta e durevole. L’Italia uscì vincitrice dallo scontro con l’Austria, la Germania e la Russia, ma la pace successiva non fu ritenuta soddisfacente, anzi i nazionalisti guidati da Benito Mussolini parlarono subito di una «vittoria mutilata» … e cominciarono a pensare a una «rivincita». Nel frattempo l’Italia sprofondò in una spaventosa crisi economica, civile e politica, per uscire dalla quale si affidò proprio a Benito Mussolini e al regime fascista, ignorando ovviamente su che strada sarebbe stata condotta.

Perché non basta vincere

Marcia su Roma (28 ottobre 1922) del pittore futurista Giacomo Balla
L’Italia fu tra i Paesi vincitori della prima guerra mondiale, ma non fece tesoro di quanto era costata sia in termini finanziari che, soprattutto, in costi umani. Quella vittoria fu infatti pagata a un prezzo troppo alto: quasi 1.300.000 morti tra militari (oltre 650.000) e civili (quasi 600.000), circa 450.000 mutilati permanenti, 3.000.000 di reduci (cfr. articolo precedente). L’Italia avrebbe dovuto imboccare definitivamente la strada della pacificazione interna e internazionale.

La guerra fu un disastro nazionale non solo per le innumerevoli vite umane sacrificate sull'altare di un nazionalismo insensato, ma anche per lo scontento che generò tra chi aveva combattuto, chi aveva sperato in una vittoria dopo una guerra breve e con poche vittime, chi aveva fatto inutilmente tanti sacrifici e si ritrovava disoccupato, più povero di prima (non solo nel Mezzogiorno, ma anche al Nord) e senza prospettive. «E alla fine di tre anni di guerra civile strisciante sarà Mussolini […] a uscire vittorioso dalla competizione», ma anche a gettare le basi del successivo conflitto mondiale.

Con la fine della guerra andò completamente in crisi il settore industriale che l’aveva alimentata: i comparti cantieristico, siderurgico e meccanico cominciarono a smobilitare lasciando senza lavoro decine di migliaia di operai (molti dei quali emigreranno in Svizzera). L’agricoltura si trovò abbandonata, perché molte terre rimasero incolte (specialmente quelle appartenute alle famiglie dei morti e degli invalidi). Il disagio economico e sociale crebbe ovunque, anche perché il potere d’acquisto delle famiglie diminuiva costantemente a causa dell’inflazione galoppante. Aumentarono i disordini, gli scioperi, le occupazioni di fabbriche, i saccheggi e persino gli scontri a fuoco. La mancanza o carenza di assistenza esasperava i più bisognosi, specialmente nelle regioni centro-meridionali. Le lotte sociali divamparono soprattutto nel triangolo industriale Milano-Torino-Genova. Il futuro stava diventando più incerto che mai per tutti.

Nessuno, nel dopoguerra, sembrava rendersi conto che in quella situazione l’Italia poteva risollevarsi solo unendo le forze, individuando bene le responsabilità di chi aveva voluto la guerra, ma soprattutto proponendo obiettivi di ripresa raggiungibili in un clima di pacificazione e concordia nazionale.

Ne approfittarono i fascisti

I nazionalisti, guidati da Benito Mussolini, erano gli unici che promettevano per l’Italia un avvenire migliore, a condizione tuttavia che il popolo fosse unito in un’unica «nazione» (ovviamente «fascista»), animato dai «sacri valori» della patria e ripudiasse la «lotta di classe», perché la nazione, sosteneva, il «Duce», «contiene la classe di tutte le classi, mentre la classe non contiene affatto la nazione». L’abile retorica mussoliniana e la spregiudicatezza di alcuni suoi seguaci riuscì a fare molti proseliti per opposte ragioni sia tra i diseredati e sia tra la borghesia. Tra la seconda metà del 1920 e i primi mesi del 1921 l’offensiva dei fascisti prese vigore.

Non è possibile qui rievocare le varie fasi che portarono all'affermazione del regime fascista di Mussolini in Italia, ma si può sostenere che quell'esito fu possibile non solo a causa della spregiudicatezza dei metodi usati dai fascisti, ma anche a causa dell’inconsistenza e alla mancanza di compattezza delle opposizioni liberale, popolare-cattolica e socialista (benché alle elezioni del 1919 il PSI avesse ottenuto il 32% dei voti e il Partito popolare, specialmente dopo la scissione del Partito Socialista e la nascita del Partito Comunista d’Italia (21.01.1921). Eppure, alle elezioni politiche del 1919 il Partito Socialista Italiano aveva ottenuto il 32% dei voti e il Partito Popolare Italiano di don Sturzo il 20%, mentre i fascisti non erano riusciti a eleggere alcun rappresentante.

Nel 1921-22 le bande fasciste sparsero terrore un po’ ovunque ma specialmente in Romagna. La crisi politica precipitò e il governo Bonomi fu costretto a dimettersi. La sua successione normale fu resa impossibile dai veti incrociati di alcuni partiti e il re Vittorio Emanuele III il 30 ottobre 1922 dovette dare l’incarico di formare il nuovo governo a Benito Mussolini, che due giorni prima aveva organizzato la «Marcia su Roma».

L’avvento del fascismo e le sue conseguenze sono oggetto di intere biblioteche ed esulano dagli intenti di questa serie di articoli, ma non si potrà dimenticare che il regime tenterà di «fascistizzare» anche gli emigrati, compresi quelli immigrati in Svizzera, di cui si tratterà nel prossimo articolo.

Giovanni Longu
Berna, 14.05.2025