07 febbraio 2024

5. Il Sacro Romano Impero e l'Europa cristiana

Alla morte di Carlo Magno il suo impero non resistette a lungo. Rimase però la nostalgia dell’Impero Romano e l’idea di raggruppare i popoli romano-barbarici in un’unica entità sotto l’autorità civile dell’imperatore e l’autorità spirituale del Papa. Un’impresa difficile perché già con Carlo Magno le due autorità erano spesso in conflitto e nessuna voleva sottostare all'altra. Per di più entrambe volevano avere il controllo della gerarchia ecclesiastica (nomina dei vescovi e degli abati: l’Imperatore per poter esercitare la funzione di protettore della Chiesa, il Papa in nome della libertà della Chiesa (libertas Ecclesiae) e perché fin dai primi secoli i vescovi venivano eletti dal clero e dal popolo (a clero et populo). Si giungerà allo scontro sulla fine del millennio, ai tempi del Sacro Romano Impero Germanico.

Lotte tra Papato e Impero

Lotta per le investiture- Enrico IV a Canossa
Uno dei protagonisti delle lotte tra Impero e Papato è stato Ottone I (912-973), duca di Sassonia (uno degli Stati formatisi dopo la divisione dell’impero carolingio). Divenne importante agli occhi del Papato dopo aver sconfitto nel 955 gli Ungari (popolazione di origine asiatica) e sostenuto il loro capo Stefano I (969-1038) a costituire una monarchia e a convertire al cristianesimo il suo popolo. In entrambe queste operazioni ebbe il sostegno del papa Silvestro II, facendogli pervenire, nell'anno 1000, la corona regia e la croce apostolica. In questo modo il popolo magiaro entrava nella comunità delle nazioni cristiane d'Occidente e la Chiesa di Roma estendeva a Oriente la sua influenza.

Le «benemerenze» di Ottone I non si fermavano tuttavia alla sconfitta degli Ungari. Intervenne infatti anche in Italia per salvare il papa Giovanni XII (905-964) dalle minacce del re d’Italia Berengario II (900 ca.-966). Il papa fu salvo, ma dovette incoronare Ottone come Imperatore del Sacro Romano Impero (962) e concedergli il privilegio (Privilegium Othonis) di esigere la fedeltà dei vescovi, degli abati e dello stesso papa. Giovanni XII, accusato di complottare contro l’imperatore, non riuscì a salvarsi una seconda volta, fu fatto decadere nel 963 e al suo posto fu eletto Leone VIII (915-965), un fedelissimo dell’imperatore.

Crisi della Chiesa e tentativi di riforma

Abbazia di Cluny (Wikipedia)

Seguì per la Chiesa un periodo desolante con numerosi papi e antipapi (alcuni dei quali morirono in esilio o assassinati), una corruzione dilagante (avidità di denaro, acquisto di cariche e privilegi, dissolutezza di preti e vescovi, sete di potere) e la continua ingerenza dell’imperatore nelle elezioni e deposizioni di vescovi, abati e papi in base al principio di fedeltà e non della spiritualità. Inoltre la Chiesa di Roma finì per scontrarsi con la Chiesa d’Oriente, provocando lo Scisma d’Oriente (1054) non ancora definitivamente risolto.

Alla Chiesa di Roma non era bastata la riforma della vita monastica avviata dall'abbazia di Cluny (910) né la riforma del papa Gregorio VII (1020-1085) che, pretendendo di essere «il rappresentante di Cristo sulla terra» rivendicava la superiorità del Papato su ogni autorità temporale, pretendendo il diritto esclusivo di nominare, deporre e scomunicare non solo vescovi e abati ma anche i principi insubordinati.

Nella storia è ricordato il celebre atto di sudditanza dell’imperatore Enrico IV (1050-1106), scomunicato e perdonato dal papa Gregorio a Canossa, ma in realtà il dissidio tra le due autorità era destinato a durare. Tanto è vero che l’imperatore, tornato in Germania, riprese a nominare vescovi e abati ed essendo stato scomunicato un’altra volta, discese a Roma, depose il papa Gregorio VII costringendo a fuggire, nominò un antipapa e si fece incoronare imperatore. La pace era ancora lontana.

L’equivalenza Europa = Cristianità si conferma

Nonostante le difficoltà delle Chiese d’Oriente e d’Occidente e la difficile convivenza tra potere religioso e potere politico, attorno all'anno 1000 si confermava per l’insieme dei popoli del continente europeo (fatta eccezione per i Paesi scandinavi che si convertiranno al cristianesimo nel XII secolo) l’equivalenza tra Europa e Cristianità (cfr. articolo precedente).

Sotto questo profilo non è infondato parlare di radici cristiane (sia pure insieme ad altre) dell’Europa di oggi, sebbene le differenti forme di adesione ecclesiale non siano irrilevanti. Infatti, l’adesione di alcuni popoli alla Chiesa d’Oriente e di altri (compresi Ungari e Polacchi) alla Chiesa d’Occidente abbia comportato un diverso orientamento dei popoli e Stati europei nel loro sviluppo non solo in campo religioso, ma anche culturale e politico.

Giovanni Longu
Berna 7.2.2024


31 gennaio 2024

4. Carlo Magno, Imperatore cristiano

Carlo Magno (742-814) è considerato da alcuni storici il «padre dell'Europa» per il suo tentativo di riunire sotto la stessa direzione le popolazioni che dopo le invasioni barbariche si erano stabilizzate e costituite in Stati. Altri lo negano perché all'epoca mancava ancora una nozione di «Europa» nel senso che acquisterà nei secoli successivi. Il re dei Franchi e poi imperatore del Sacro Romano Impero aveva forse in mente una sorta di ricostruzione dell’Impero Romano d’Occidente, ma non la creazione di un’entità nuova perché gli mancava una coscienza «europea». Eppure gli va riconosciuto il merito di aver tentato per la prima volta l’unificazione di una parte dei popoli romano-barbarici, che tra le poche caratteristiche che avevano in comune, una era l’appartenenza alla fede cristiana.

Carlo Magno, tra papato e impero

Carlo Magno (742-814) (Electo Magazine)

Si è detto (cfr. articoli precedenti) che è stato il Cristianesimo a prendersi cura delle popolazioni indigene al tempo delle invasioni e di salvare i valori della romanità. Bisogna aggiungere che il Papato, finite le persecuzioni e acquistato enorme potere religioso (attraverso i Concili, ordini religiosi e vescovi sottomessi) e politico (attraverso ricche donazioni, diocesi importanti e grandi monasteri), ha probabilmente ritenuto di poter far rivivere il defunto Impero Romano in una forma diversa e più ampia e duratura di quella politica immaginata da
Carlo Magno
.

L’aspirazione di alcuni papi era di finalizzare l’evangelizzazione dei popoli non cristiani alla realizzazione di una «Chiesa universale», libera e non limitata agli abitanti di alcune regioni. Per realizzarla, il primo passo, riuscito, consistette nel sottrarsi ai condizionamenti religiosi della Chiesa d’Oriente. Soprattutto grazie all’attività riformatrice di papa Gregorio Magno (540 ca.-604), in Occidente fu possibile, per esempio, adottare il latino al posto del greco come lingua della liturgia, semplificare il cerimoniale, accrescere la preparazione dei vescovi e dei sacerdoti, sviluppare il monachesimo e non da ultimo rafforzare l’autorità del Papa come «capo di tutte le Chiese d’Europa».

Il secondo passo avrebbe dovuto portare la Chiesa di Roma all'indipendenza dall'influenza politica di Costantinopoli, «la seconda Roma», ma le riuscì solo in parte, perché dovette creare un contropotere, da cui però finì anche per dipendere. Molto abilmente il papa Leone III (750-816) aveva sostenuto Carlo Magno, capo dei Franchi, dapprima nella lotta contro i Longobardi, gli arabi della penisola iberica, alcune tribù germaniche sassoni, i Bavari, gli Avari e altri popoli romano-barbarici e poi, a Roma nella notte di Natale dell’800, incoronandolo Imperatore del Sacro Romano Impero, chiaramente in funzione anti imperatore d’Oriente.

Primato contestato – scontro rinviato

Il compenso materiale per la Chiesa fu lauto perché Carlo Magno concesse alla Chiesa il possesso dell’Emilia, della Toscana, di Roma e dei territori bizantini in Italia, iniziando di fatto quello che in seguito diventerà lo Stato Pontificio. Ma anche l’imperatore non si accontentò del titolo e della corona, e si fece riconoscere come il suo omologo orientale protettore della Chiesa, difensore della fede e garante dell’ortodossia. Un riconoscimento non indifferente per un cristiano che non sapeva scrivere e leggeva a stento, ma utile anche al Papa che poteva servirsene non solo contro le pretese egemoniche di Costantinopoli ma anche contro i nemici interni alla Chiesa (soprattutto vescovi ribelli e monasteri troppo potenti).

Roma, «Donazione di Costantino» al papa Silvestro I (affresco del 1246) 
I rapporti tra Papato e Impero non erano tuttavia ben chiari, perché anche il Papa, che si considerava erede diretto dell’apostolo Pietro e capo della «Chiesa universale» era in qualche modo antagonista dell’Imperatore. Questi, d’altra parte, difficilmente avrebbe rinunciato al controllo sui vescovi e sui conventi, dove pulsava la vita, rinasceva l’agricoltura, si sviluppava l’artigianato e ricominciava il commercio. Non si giunse tuttavia a uno scontro sul primato delle due autorità perché in quel momento i protagonisti, Carlo Magno e Leone III, avevano bisogno l’uno dell’altro.

Lo scontro per il primato fu però solo rinviato, anche perché l’impero di Carlo Magno, che si estendeva ormai dai Pirenei al Danubio e dal Mare del Nord al Lazio, vasto ma fragile non avendo il controllo dei mari (e quindi dei commerci) e internamente male organizzato e poco coeso, avrebbe potuto offuscare l’ambizione del Papato al vertice della Chiesa universale solo se le ambizioni espansionistiche e centralistiche dell’imperatore fossero state proseguite.

Poiché tale condizione non si verificò, alla morte di Carlo Magno si venne a creare una situazione ideale per far emergere la superiorità della Chiesa di Roma e quindi del Papa sull'Impero e l’equivalenza fortemente voluta dalla Chiesa di allora: Europa = Cristianità.


27 gennaio 2024

Giorno della memoria e del (possibile) riscatto!

Non è facile, oggi, parlare della Shoah, per cui quasi tutti ne parlano come ricordo di un evento del passato, atroce ma non inspiegabile. Infatti fino alla seconda guerra mondiale il clima generale era avverso agli ebrei non solo in Germania. Il loro dramma era cominciato all'indomani della crocifissione di Cristo a Gerusalemme e non si era mai interrotto, anche nella Chiesa, sebbene la controversia tra cristiani ed ebrei sia stata per secoli soprattutto di carattere teologico, non sociale. Già il papa Gregorio Magno (590-604), per esempio, era favorevole a una buona convivenza con gli ebrei. 

Nel Medioevo, in molti Paesi la loro presenza non era tuttavia gradita. In Europa furono quasi ovunque discriminati, vessati e talvolta cacciati via (dalla Francia, dall'Inghilterra, dalla Germania, dalla Spagna, dal Portogallo…). Successivamente molti ebrei poterono tornare negli stessi Paesi, ma furono sottoposti spesso ad autentiche persecuzioni e angherie di ogni sorta. 

In epoca moderna i pochi Paesi disposti ad accoglierli (Stati Uniti in primis) riuscirono ad ospitarne centinaia di migliaia in fuga soprattutto dall'Europa orientale (Russia, Ucraina, Polonia,… ), ma anche in essi gli ebrei non ebbero vita facile.

Nella giornata della Memoria ci si limita spesso a ricordare il martirio degli ebrei sotto il nazismo nei campi di sterminio, ma ci si dimentica spesso dell’antisemitismo diffuso in tutta l’Europa. Ci si dimentica anche di ricordare le cause remote dell’odio razziale, l’ignoranza, la falsità consapevole, il nazionalismo, la mancanza di rispetto nei confronti della persona umana. Si evita, inspiegabilmente, anche di condannare apertamente tutti i comportamenti che suscitano odio tra le persone e tra i popoli, a cominciare dalle guerre (in Ucraina, in Palestina, nel Medio Oriente, in Africa…) e da tutte le forme di discriminazione che creano ricchi e poveri, cittadini di serie A e cittadini di serie B, benestanti e disagiati.

Il Giorno della Memoria dovrebbe essere per tutti l’occasione per una scelta di campo netta tra la Pace e la Guerra, l’Onestà e la Disonestà, il Giusto e l'Ingiusto, il rispetto dell’altro e la discriminazione, il Bene e il Male, ricordandoci che solo l'amore sconfigge l'odio, perché «Dio è amore e chi rimane nell'amore rimane in Dio». Per questo il Giorno della memoria potrebbe essere anche il Giorno del riscatto!



[1] Cfr. Paravicini 123.

24 gennaio 2024

3. Il monachesimo medievale e la nascita dell’Europa

Il monachesimo è una delle principali radici cristiane della formazione dell’Europa. Dopo aver salvato i valori essenziali della Romanità dalla distruzione durante gli sconvolgimenti dei primi secoli dopo Cristo a causa delle invasioni barbariche, esso ha conservato nella variegata realtà che si veniva configurando nel continente anche l’esigenza di un’unità ordinata e di una condotta ispirata ai valori cristiani. Né l’una né l’altra hanno avuto pieno compimento, ma sarebbe un errore fatale rinunciarvi ora a causa della guerra russo-ucraina, ingiustificata e insensata. Il monachesimo orientale e occidentale del primo millennio dovrebbe insegnare che le forze del bene possono prevalere sulle forze del male, che l’unità nella diversità è un valore, che la coesione e la collaborazione possono produrre pace e prosperità per tutti.

Monasteri: centri di spiritualità e di aggregazione sociale

S. Benedetto consegna la Regola: «ora et labora et lege et noli contristari 
in laetitia pacis!
» (prega, lavora e studia e nella gioia della pace non farti 
prendere dalla sfiducia!
)
Dopo la pace costantiniana, il monachesimo fu una forma di vita cristiana molto seguita perché consentiva sia un’esperienza di condivisione di beni materiali e spirituali e sia la sperimentazione dei vantaggi del vivere ordinato in una comunità eterogenea ma stabile e unita da valori condivisi. Soprattutto i grandi monasteri sono stati non solo rifugi sicuri contro i pericoli degli sconvolgimenti del tempo e luoghi di preghiera e di riflessione sulla vita di Gesù Cristo, ma anche centri di aggregazione sociale che garantivano attraverso il lavoro organizzato il sostentamento alle persone che gravitavano attorno ai conventi e un’intensa attività caritativa in favore dei poveri, dei malati, dei perseguitati e dei viandanti.

Non è difficile intravedere soprattutto nei grandi centri monastici, in Oriente come in Occidente, le prime forme di aggregazione sociale, che daranno vita gradualmente a vere e proprie città e più in generale a quel tipo di sviluppo che dopo il Mille assumerà una connotazione tipicamente «europea».

Infatti, al di là dei meriti del monachesimo in ambito ecclesiale, esso ha contribuito a sviluppare in tutta l’Europa (orientale e occidentale) la stabilità della popolazione (perché solo nel convento, spesso trasformato in una vera fortezza, trovava rifugio e sicurezza), l’organizzazione politica (si pensi alla formazione degli Stati slavi e, in Occidente, all'Impero di Carlo Magno e al Sacro Romano Impero), la vita sociale attraverso il lavoro organizzato (sviluppo dell’agricoltura e dell’artigianato, ripresa del commercio), la vita culturale (biblioteche monastiche, trascrizioni e traduzioni di opere, scuole), gli scambi, dapprima tramite la rete dei monasteri e poi col resto del mondo che si stava organizzando.

Monachesimo orientale e occidentale

Diffusosi inizialmente in Oriente, ha influito non poco sulla cristianizzazione dei popoli slavi d’Europa, a cominciare dalla Rus’ di Kiev (il più antico Stato slavo, convertito al cristianesimo dal principe Vladimir nel 988. Allora occupava parte del territorio degli attuali Stati Ucraina, Russia europea, Bielorussia, Moldavia, Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia). Alcune figure di grande spiritualità del primo millennio sono rimaste famose e venerate anche in Occidente come san Pacomio (292-348), sant’Atanasio (295-373), san Basilio Magno (330-379), san Giovanni Cassiano (360-435), i teologi Giovanni Crisostomo (344-407), Cirillo di Alessandria (380-444), Cirillo (827-869) e Metodio (815-885), (questi ultimi due proclamati compatroni d’Europa nel 1980 da Giovanni Paolo II).

Tra i lasciti più importanti della cristianità orientale (bizantina) medievale si possono annoverare monasteri (per es. quelli del Monte Athos della Cappadocia, in Turchia), basiliche (famose quelle di Sant'Apollinare in Classe e di San Vitale a Ravenna, allora sotto il dominio bizantino, la chiesa dei Santi Apostoli di Solaki di Atene, la cattedrale di Santa Sofia di Kiev, la basilica di Santa Sofia di Istanbul, la basilica di San Marco a Venezia, ecc.), mosaici (splendidi quelli di Ravenna), icone sacre (molte delle quali andarono purtroppo distrutte dalla furia iconoclasta di alcuni imperatori, che con la scusa di impedire rischi di idolatria - l’adorazione delle immagini invece che di Dio - intendevano limitare il potere crescente dei monasteri), tutte espressioni della profonda religiosità e della partecipazione corale alle ricche cerimonie liturgiche dei popoli orientali.

Importanza dei monasteri

In Occidente il monachesimo si è sviluppato poco più tardi che in Oriente, soprattutto con Benedetto da Norcia (480-546), ma ha prodotto anche qui risultati eccellenti. Alcuni monasteri benedettini, in gran parte ristrutturati, sono attivi ancora oggi (per es. quelli di Subiaco, vicino a Roma, Montecassino, Bobbio). In tutto l’Occidente, dall'Irlanda alla Germania, passando per la Francia e la Svizzera, il monachesimo si è diffuso rapidamente. I monasteri si sono moltiplicati, contribuendo non solo alla stabilizzazione delle popolazioni, ma anche al loro sviluppo.

Abbazia di Montecassino, fondata nel 529 da san Benedetto da Norcia. 
La Regola benedettina prescriveva: «ora et labora et lege et noli contristari in laetitia pacis!» (prega, lavora e studia e nella gioia della pace non farti prendere dalla sfiducia!). Una Regola rivoluzionaria perché nell'antichità il lavoro era l’attività degli schiavi, non degli uomini liberi. «Essere libero significava non lavorare, e dunque vivere del lavoro degli altri. La rivoluzione benedettina mette il lavoro al cuore stesso della dignità dell’uomo. L’uguaglianza degli uomini intorno al lavoro diviene, attraverso il lavoro stesso, come un fondamento della libertà dei figli di Dio, della libertà grazie al clima di preghiera in cui si vive il lavoro ... (Giovanni Paolo II). 

La regola benedettina è divenuta nel mondo civile il fondamento stesso delle società perché fonda l’uguaglianza degli uomini e la libertà dei figli di Dio sul lavoro accompagnato dalla preghiera.

Nel primo millennio sono stati alquanto modesti i risultati nel senso dell’unificazione europea, ma è stata indicata chiaramente la direzione con l’Impero di Carlo Magno e del Sacro Romano Impero. Se ne parlerà nel prossimo articolo (Segue).

Giovanni Longu
Berna, 24.1.2024

17 gennaio 2024

2. L’Europa «sconfinata» e le sue radici

Prima di trattare da vicino l’influsso del Cristianesimo sul processo di integrazione europea, meritano alcune precisazioni le nozioni di «Europa» e «radici cristiane» qui utilizzate. Infatti in queste riflessioni l’Europa non è vista solo come un’entità geografica delimitata da confini, ma piuttosto come un contenitore di valori, una visione e forse un’utopia che per loro natura non hanno limiti precisi. Pertanto, nemmeno la guerra in atto tra Russia e Ucraina riuscirà a stabilirli, con buona pace del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, secondo cui «i confini dell'Unione Europea [UE] saranno i confini del continente europeo». Del resto neppure l’UE si è mai fissata limiti invalicabili e non ha mai negato il suo carattere espansivo, le sue origini lontane e le sue radici che hanno assorbito elementi vitali, culturali e religiosi, in una realtà, il Vecchio continente, che spazia da Oriente a Occidente lungo una storia più che bimillenaria.

L’Europa cristiana di «regni» e «nazioni»

L'Europa nell'814 (Wikipedia)
Per secoli, si è parlato di Occidente in contrapposizione a Oriente, soprattutto dopo la scissione nel 395 dell’Impero Romano e ancor più dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476) e di Costantinopoli, la capitale dell’Impero Romano d’Oriente (1453). «Europa» è rimasta per secoli una parola conosciuta quasi unicamente dai geografi.

Per designare le regioni occidentali sconvolte dalle invasioni barbariche, nel Medioevo si usavano denominazioni specifiche, dapprima «regno dei ...» (Regno dei Visigoti, Regno dei Bulgari, Regno degli Avari, ecc.), poi «Impero di Carlomagno», «Sacro Romano Impero», ma anche, dopo il loro assestamento sul territorio, «nazioni», quando era possibile trovare nella popolazione caratteristiche comuni. Si sa, per esempio, che al Concilio di Costanza (1414-1417) i votanti erano divisi in quattro «nazioni» (tedesca, francese, italiana e inglese). A loro volta, queste nazioni principali ne comprendevano altre minori (quella inglese comprendeva tutti i delegati dell’Europa settentrionale, compresi gli scandinavi, ecc.).

Raramente, tuttavia, veniva utilizzata l’espressione «Sacro Romano Impero» quale succedaneo dell’Impero Romano d’Occidente. Anche il termine «Cristianità», per designare l’insieme dei cristiani, era poco utilizzato; si preferiva parlare più specificamente della Chiesa di Roma (per distinguerla da quella di Bisanzio), che dai tempi dell’imperatore Costantino era in rapida crescita a riconosceva come autorità suprema il Papa di Roma.

In questa molteplicità di designazioni è facile notare non solo la difficoltà di trovare caratteristiche comuni tra i vari popoli, ma anche il desiderio e talvolta l’esigenza di accorpare realtà simili (per esempio per lingua) o almeno geograficamente vicine. L’idea di un’Europa costituita da popolazioni abbastanza omogenee, con caratteristiche simili e unite da vincoli territoriali (confini), culturali, religiosi, economici, … era tuttavia ancora lontana, pur essendo già presente in alcune visioni poetiche e letterarie (per esempio in Dante, Petrarca).

Radici cristiane

Carta d’Europa del 1600 ca. (BnF)
Un’altra precisazione indispensabile per comprendere il senso di queste riflessioni riguarda l’espressione «radici cristiane». Essa non va intesa in senso esclusivo o esaustivo, perché è fin troppo facile osservare nella storia dell’Europa anche altre «radici», ma non va nemmeno sminuita. Anzi, essa dev'essere considerata fondamentale e pertanto irrinunciabile perché senza quelle radici l’Europa non sarebbe quella che è.

Basti pensare che la parte ideale dell’eredità di Roma si è salvata dagli sconvolgimenti e dalle distruzioni conseguenti alle invasioni barbariche soprattutto grazie all'intraprendenza, all'organizzazione e alla lungimiranza della Chiesa di Roma. Non va inoltre dimenticato che la forza espansiva del Cristianesimo, nell'arco del primo millennio, è riuscita a unire nella stessa fede tutti i popoli del continente, quelli della parte occidentale (visigoti, ostrogoti, franchi, alemanni, longobardi, ecc.) e quelli della parte orientale (polacchi, russi, ungheresi, bulgari, ucraini, ecc.). Per secoli, anche dopo il «Grande Scisma» (1054), l’appartenenza alla religione cristiana è stata l’unica grande caratteristica che ha accomunato i popoli europei dalle rive dell’Atlantico ai monti Urali russi.

E’ vero che la Chiesa si è avvalsa sia delle infrastrutture materiali (strade, porti, acquedotti, ecc.) che della sovrastruttura immateriale (organizzazione, cultura, lingua, ordinamento giuridico, ecc.) dell’Impero romano per i propri scopi (strutturazione territoriale e diffusione del Cristianesimo), ma è innegabile che questi valori ideali e materiali sono serviti anche alla ripresa e allo sviluppo delle popolazioni sopravvissute alle invasioni barbariche. Il monachesimo, di cui si tratterà nel prossimo articolo, ne è stato una prova eloquente. (Segue)

Giovanni Longu
Berna 17.01.2024

03 gennaio 2024

1. Europa: alla ricerca delle radici

L’anno appena iniziato sarà molto importante per l’Europa e per il mondo. L’Unione europea (UE), con le elezioni, deve far capire dove vuole andare, in che direzione intende muoversi, sia internamente sul piano delle riforme che esternamente in politica estera, quali obiettivi si propone di raggiungere. Lo reclamano le opinioni pubbliche dei Paesi membri, alquanto disorientate, e lo reclamano gli eventi internazionali sui quali la sua voce in questi ultimi tempi è sempre meno udibile, tanto che molti si chiedono: dov'è l’Europa? Già, dov'è l’Unione europea, l'unione politica, sociale, culturale, artistica, religiosa dei Popoli europei? Per tentare di rispondere a queste e a simili domande, cercherò in una serie di articoli di ripercorrere le principali tappe del progetto di unione europea, seguendo come filo conduttore le «radici cristiane» (ma non solo) che hanno alimentato nei secoli il sogno di un’Europa unita, illuminata, colta, religiosa, tollerante, pur non priva di difetti.

2024: per l’UE un anno di scelte coraggiose

A giugno si svolgeranno le elezioni per il Parlamento europeo. Sono già partite le grandi manovre e c’è da augurarsi che oltre agli interessi comprensibili dei principali gruppi parlamentari, tutte le forze politiche prestino ascolto alle richieste e ai desideri degli europei che chiedono soprattutto pace, riforme e sviluppo.

Infatti, tutti aspettano la fine della guerra tra Russia e Ucraina con una pace «giusta», che garantisca cioè alle popolazioni coinvolte il rispetto dei diritti fondamentali «senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione», compreso il diritto all'«autodecisione dei popoli» (Statuto ONU). E tutti aspettano riforme «europee» efficaci per colmare i divari tra gli Stati, per superare i nazionalismi, per stabilire una politica immigratoria comune e solidale, per essere forza trainante dello sviluppo e non a traino di presunte superpotenze.

Non sarà facile all'UE far sentire la sua voce, ma deve mettersi in condizione di poter esprimere sempre il proprio punto di vista autonomamente e autorevolmente. Per questo ha bisogno di garantire sia la coesione interna che la sua autonomia e il suo peso nel mondo con una vera Costituzione, senza la quale l’Unione sarà una chimera. Con essa sarà più facile realizzare le riforme e una conveniente forma di unione politica, monetaria, culturale, di difesa comune, ecc.

Non solo, ha anche bisogno di scelte coraggiose perché prima o poi, finita la guerra, dovrà scegliere se rafforzare l’Occidente a conduzione americana contro la Russia e la Cina oppure cercare di riannodare i contatti con l’Oriente russo-cinese in chiave multipolare, operando una sorta di riconciliazione e collaborazione con la Russia e la Cina, pur mantenendo un legame privilegiato con l’Occidente transatlantico.

Non credo che l’Europa abbia altre possibilità, certamente non quella di ergersi a sua volta come grande potenza equidistante da Occidente e Oriente, perché farebbe la fine del classico vaso di coccio tra vasi di ferro.

Una scelta condizionata

La scelta definitiva dovrà tener conto di due condizionamenti oggettivi, uno di tipo geografico, l’altro di tipo ideologico. Sotto il profilo geografico l’Europa non può ignorare che è una sorta di penisola eurasiatica, situata ad occidente del super-continente Eurasia. Sotto il profilo ideologico non sarà possibile rinunciare agli stretti rapporti storici, culturali, economici e militari dell’Europa con gli Stati Uniti d’America.

Soprattutto per tali condizionamenti la scelta sarà difficile e la nuova Europa che emergerà dopo le elezioni di giugno dovrà valutare attentamente i pro e i contro di ciascuna opzione. In ogni caso non potrà sottovalutare la continuità territoriale con la Russia e la potenza economica della Cina, soprattutto con riferimento alla transizione ecologica che imporrà importanti risparmi energetici e intense ricerche di fonti energetiche alternative sostenibili. Tuttavia, non potrà essere sottovalutato neppure il profondo condizionamento ideologico, morale ed economico dell’Europa, dovuto agli strettissimi legami storici, commerciali, culturali e militari con i Paesi dell’altra sponda dell’Atlantico.

Per quanto difficile possa apparire la scelta che dovrà fare l’UE, non sarà rinviabile pena una sua pesante perdita di consenso interno e internazionale, che dimostrerebbe il definitivo tramonto del Vecchio Continente sulla scena internazionale. Anche per questo è auspicabile che nei dibattiti preelettorali il tema della Costituzione europea non venga trascurato e il nuovo Parlamento si attivi per elaborarla e attuarla. Solo se unità l’Europa potrà ambire anch'essa a diventare un vaso di ferro.

Giovanni Longu
Berna 3.1.2024

21 dicembre 2023

ANNIVERSARI: 7. 1943-2023 Pio XII, il genocidio e la pace

Il 1943 è stato per l’Italia un anno drammatico: nonostante la destituzione di Mussolini come capo del fascismo e del governo, la guerra continuò a mietere morti e a spargere dolore e lacrime. L’armistizio dell’8 settembre provocò la spaccatura dell’Italia in due parti: quella del centro-nord occupata dai nazifascisti e sconvolta da episodi di guerra civile e quella del sud liberata dagli Alleati dopo la fuga del Re Vittorio Emanuele III in Puglia. Roma, la Città eterna e centro della cristianità, non fu risparmiata né dai tedeschi, che l’occuparono, né dagli americani che la bombardarono. Lo stesso Vaticano si sentì minacciato e la sua diplomazia ammutolì di fronte alle minacce naziste. Persino il papa sembrò rinunciare a far sentire la sua voce, forse ritenendola ininfluente e persino dannosa per molte persone. Nel 1943, tuttavia, Pio XII (ruppe il silenzio, ma non riuscì a fermare la guerra.

Pio XII e gli ebrei

Sul «silenzio» di Pio XII si continua a discutere, ma nessun documento e nessun ricercatore serio potrà mai sostenere che Pio XII non abbia agito secondo coscienza o senza un’attenta valutazione delle informazioni che riceveva da ogni parte del mondo, sia attraverso la propria rete diplomatica ed ecclesiastica (nunzi, vescovi, ordini religiosi) e sia tramite i diplomatici accreditati presso la Santa Sede. Poiché non tutte avevano lo stesso grado di fondatezza è comprensibile che al papa venissero inoltrate dai servizi di controllo solo quelle informazioni ritenute importanti e credibili. Del resto sarebbe stato impossibile anche per il geniale papa Pacelli leggere tutto e pure verificare l’attendibilità delle fonti e la veridicità dei contenuti.

Pertanto, dedurre, come ha fatto il noto giornalista italiano Massimo Franco, dal semplice ritrovamento negli archivi vaticani di una lettera del dicembre 1942 in cui si accennava ad alcuni campi di concentramento e a un forno crematorio, che Pio XII «era a conoscenza dei crimini compiuti dai nazisti nei campi di sterminio», ossia della Shoah, mi pare francamente azzardato e senza fondamento. Non è dato sapere, infatti, se quella lettera il papa l’abbia mai letta e se l’autore, «un gesuita tedesco antinazista» fosse considerato in Vaticano una fonte sicura. Del resto, non si parlava ancora né di genocidio né di sterminio.

Affermare che «Pio XII preferì tacere o al massimo esprimere in termini generici la sua pena», come se mancasse di coraggio e consapevolezza dei suoi poteri è un’accusa gratuita e senza fondamento. Avendo ereditato dal suo predecessore Pio XI un’avversione profonda al comunismo e al nazismo ed essendo fin dall'inizio del suo pontificato nel 1939 a conoscenza di tanti crimini nazisti sarebbe sicuramente intervenuto volentieri per condannarli. Se non lo fece è dovuto anche alla prudenza, dunque una virtù, che gli suggerivano soprattutto i vescovi tedeschi, ma anche considerazioni di opportunità.

Pio XII e la pace

L'ingresso del campo di sterminio di  Auschwitz con la
famigerata scritta: Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi.

Una chiave autentica di interpretazione del «silenzio» di Pio XII la diede egli stesso in un discorso al Collegio cardinalizio e alla Prelatura romana alla vigilia di Natale 1943. Dopo aver accennato al profondo turbamento che si stava diffondendo tra la popolazione e specialmente tra i romani e ricordato di aver raccomandato loro «la calma e la moderazione e di astenersi da qualsiasi atto inconsulto, che non farebbe se non provocare ancor più gravi sciagure», Pio XII fornì una spiegazione del suo silenzio: «Davanti a tale oscuro avvenire, il riserbo, inerente alla natura del Nostro ministero pastorale e da Noi sempre mantenuto di fronte alle vicissitudini dei conflitti terreni, Ci sembra in questo momento più che mai necessario, per evitare che l'opera della Santa Sede, rivolta al bene delle anime, corra il pericolo, per false o mal fondate interpretazioni, di venir travolta ed esposta ai colpi del fuoco incrociato dei contrasti politici».

In realtà si potrebbe anche aggiungere che il «silenzio» del papa sulla Shoah fu dovuto oltre che all'oscurità che regnava su di essa, almeno fino al 1942, anche al fatto che gli interessi di Pio XII erano focalizzati sui tentativi dapprima di evitare la guerra e poi di giungere presto alla pace. Allo scoppio della seconda guerra mondiale aveva ammonito: «Nulla è perduto con la pace; tutto può essere perduto con la guerra». Non fu ascoltato e «lo spirito della violenza vinse sullo spirito della concordia e della intesa: una vittoria che fu una sconfitta»

Pio XII non cessò mai, tuttavia, in particolare nei discorsi di Natale dal 1939 al 1943, di invocare la pace e «delineare con chiarezza le basi psicologiche, giuridiche e religiose di una pace duratura» (Hans Küng). Ma non si limitò a parlare e a scrivere. Durante l’occupazione di Roma il suo impegno a favore della cittadinanza, degli ebrei (riuscì a salvarne almeno15.000) e di quanti fuggivano dal nazifascismo fu incondizionato.

Ricordarlo, oggi, alla vigilia di un Natale nuovamente insanguinato, quando un altro grande papa, Francesco, rinnova costantemente gli stessi appelli per una pace giusta e duratura e si prodiga in tutti i modi per dare al mondo intero una casa sicura e accogliente per tutti, mi sembra doveroso e utile per la nostra riflessione.

Giovanni Longu
Berna 20.12.2023

13 dicembre 2023

ANNIVERSARI: 6. MCLI di Berna necessaria nel passato, utile nel futuro

La Missione cattolica di lingua italiana (MCLI) di Berna ha celebrato quest’anno nel corso di alcune manifestazioni e attraverso un libro i 60 anni della chiesa dedicata alla Madonna dei migranti. Sono stati anche ricordati il 1° anniversario della canonizzazione di San Giovanni Battista Scalabrini, fondatore della congregazione scalabriniana, i 96 anni della Missione cattolica italiana (MCI) di Berna e i 76 anni di attività dei missionari scalabriniani. Ciascuno di questi anniversari meriterebbe una trattazione specifica, ma evidenti ragioni di spazio la rendono impossibile. Mi limiterò pertanto ad alcune considerazioni generali sulla «missione» di questa istituzione bernese certamente benemerita.

La MCI è stata un punto di riferimento importante

Sede della MCLI di Berna.

La MCI, oggi MCLI, ha accompagnato per un lungo tratto l’evoluzione dell’immigrazione italiana nel Cantone di Berna, offrendo servizi importanti non solo religiosi, ma anche sociali, assistenziali e d’intrattenimento. Benché la sua storia, contrariamente a quel che si legge nel sito della Missione («la storia della MCLI di Berna è la storia della comunità italiana...»), non coincida con quella della comunità italiana di Berna, questa non sarebbe completa senza la prima. Ha contribuito, infatti, in misura rilevante, a dare unità, senso di appartenenza e sviluppo alla collettività italiana, rafforzandone alcuni caratteri identitari.

Bisogna tuttavia ricordare che allora, soprattutto nei primi decenni del dopoguerra, i bisogni esistenziali degli immigrati erano tanti e non c’erano istituzioni e servizi in grado di soddisfarli. Poiché nello spirito scalabriniano ed evangelico agli emigrati andava garantita comunque una forma di assistenza essenziale, la MCLI si è investita anche di compiti che hanno a che fare più col «sociale» che col «religioso».

Da alcuni decenni, tuttavia, la collettività italiana è molto cambiata. E’ venuta meno per la maggioranza dei residenti di oggi gran parte degli ostacoli (incomunicabilità, isolamento, nostalgia, precarietà, ecc.) che rendevano problematica la permanenza in Svizzera di molti immigrati. Purtroppo sta cambiando velocemente in Svizzera (ma non solo) anche il panorama religioso. Il virus della secolarizzazione, del relativismo e dell'indifferenza religiosa sta contagiando anche la collettività italiana. La MCLI ne ha dovuto tener conto, abbandonando alcuni compiti «sociali» che si era assunti per dedicarsi maggiormente alla «cura spirituale».

La MCLI di fronte a nuove sfide.

Se fino agli anni ’60 la stragrande maggioranza della popolazione residente era cristiana, oggi più del 30% si dichiara senza appartenenza religiosa e aumentano le persone che lasciano le confessioni cattolica ed evangelica, anche tra gli italiani. Inoltre, molti «credenti» considerano la religione una questione «privata» e non sentono alcun bisogno di chiese e di comunità. In effetti le chiese sono sempre più vuote e la pratica religiosa sempre più ridotta.

Questa situazione rappresenta per la MCLI una sfida difficile, anche perché la sua popolazione di riferimento ha ulteriori esigenze. I due gruppi principali che la compongono, quello «giovanile» (nuovi immigrati e giovani di seconda e terza generazione non «immigrati») e quello «anziano» (per lo più immigrati pensionati della prima generazione) hanno infatti bisogni diversi da quelli degli italiani degli anni Cinquanta e Sessanta. Se non incontrano risposte adeguate, la reazione è pressoché scontata: i giovani fanno a meno della chiesa e della MCLI, gli anziani si rassegnano.

Per questo la MCLI sta modificando da tempo la sua offerta, riorientandola verso la cura spirituale secondo lo spirito del fondatore san Giovanni Battista Scalabrini, che stimolava i sacerdoti a «lavorare, affaticarsi, sacrificarsi in tutti i modi per dilatare quaggiù il Regno di Dio e salvare le anime» (Lettera pastorale per la Quaresima del 1892). In questa prospettiva, la chiesa della MCLI, di cui si celebra quest'anno il 60°, riacquista la piena centralità.

La «cura spirituale»

Ambone della chiesa della MCLI di Berna, dedicata alla Madonna dei migranti.
Per vincere la sfida, i missionari della MCLI di Berna dovrebbero forse continuare ad autolimitarsi in qualche compito «sociale» (delegando ai laici, uomini e donne, tutto ciò che non compete al ministero sacerdotale) per concentrarsi nella «cura spirituale». L’offerta, già ampia, potrebbe estendersi ulteriormente, proponendo, per esempio, brevi corsi di autoanalisi dello spirito (esercizi spirituali), scambi di esperienze e di proposte, incontri di preghiera e di approfondimento religioso, migliorando la comunicazione scritta in italiano (utilizzando anche lo spazio disponibile sul Pfarrblatt), favorendo il dialogo interreligioso, promuovendo gruppi ecclesiali anche nelle parrocchie a forte presenza di italiani e stranieri, ecc.

«Prendersi cura di…», il tema del progetto pastorale della MCLI di Berna per il 2023-2024, potrebbe essere inteso non solo come «aver cura di…», ma anche come «cura spirituale degli emigranti», come voleva San Giovanni Battista Scalabrini, nel senso di «curare» le loro ferite, i loro dubbi, le loro fragilità. Poiché il compito non è facile, la MCLI dovrà continuare a chiedere e a favorire la collaborazione dei laici, al centro e nella periferia. Solo così sarà possibile garantire lunga vita alla MCLI e alla collettività italiana e italofona di Berna il suo prezioso sostegno.

Giovanni Longu
Berna, 13 dicembre 2023 

06 dicembre 2023

ANNIVERSARI: 5. 1949-2023: Le Convenzioni di Ginevra necessarie e utili, ma insufficienti

In questi tempi turbati dagli orrori di molte guerre, che evidenziano quanto odio e quanta ingiustizia ci siano ancora nel mondo, invano s’invocano le «Convenzioni di Ginevra» perché venga rispettato almeno il diritto umanitario internazionale. L’opinione pubblica è sconvolta da quel che avviene in Ucraina, nel Vicino Oriente e in altre parti del pianeta, ma non riesce a mobilitarsi contro i veri responsabili di crimini di guerra. Talvolta si ha l’impressione che trincerandosi dietro un senso d’impotenza, di fatto si voglia lasciare ad altri il compito di denunciarli, per esempio all'ONU, alla UE, al Papa o a qualche governo influente. Del resto è difficile escludere che questo senso d’impotenza nasconda una diffusa indifferenza e acquiescenza di fronte alla presunta inevitabilità della guerra.

Necessità di una presa di coscienza universale

Si può comprendere don Abbondio nei Promessi Sposi del Manzoni, che di fronte al rimprovero del cardinale Federico Borromeo di essere venuto meno ai suoi doveri cerchi di giustificare le sue paure dicendo che «il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare»; infatti il povero prete rischiava davvero. Ma come si può comprendere che le nostre società, securizzate da servizi d'«intelligence» efficienti, da potenti sistemi di difesa e da alleanze militari superdotate, accettino che continui la guerra devastante in Ucraina con centinaia di migliaia di morti e una regione altamente popolata come la Striscia di Gaza sia rasa al suolo con migliaia di morti? Come si può non denunciare che la guerra è una violazione evidente dei diritti umani, del diritto alla vita, del diritto alla prosperità comune?

Purtroppo, anche quando si richiamano le Convenzioni di Ginevra, adottate soprattutto per proteggere le popolazioni civili, si dà per scontato che le guerre siano inevitabili, benché tutti aspirino a vivere in pace. Eppure è difficile dar torto a Papa Francesco, quando sostiene che «la guerra è sempre una sconfitta», che «non dobbiamo abituarci alla guerra, a nessuna guerra» e che «non dobbiamo permettere che il nostro cuore e la nostra mente si anestetizzino davanti al ripetersi di questi gravissimi orrori contro Dio e contro l'uomo».

Manca evidentemente la volontà comune di estirpare la guerra non solo dai vocabolari di tutto il mondo, ma anche e soprattutto dalle coscienze di quanti non hanno ancora recepito i nuovi orientamenti del diritto internazionale basato sui diritti delle persone prima che sul diritto degli Stati. Una falsa coscienza patriottica impedisce ancora di superare il vecchio principio dell’integrità territoriale degli Stati e di accettare principi come la soluzione pacifica delle controversie internazionali, l’uguaglianza dei popoli, il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzioni di razza, di sesso, di lingua o di religione, ecc.

Le Convenzioni di Ginevra

Le Convenzioni di Ginevra, di cui ricorre quest’anno il 74° anniversario della loro adozione, hanno sempre ricordato ai belligeranti alcune esigenze minime nel condurre le operazioni militari, ma non sono ancora riuscite a indurli a risolvere pacificamente le controversie, evitando l’uso delle armi. Eppure, per citare ancora Papa Francesco, «la pace è sempre possibile», basta cercarla e volerla! Ma basterebbe anche solo ricordare l’origine di quelle Convenzioni. La prima e la seconda guerra mondiale avevano prodotto decine di milioni di vittime militari e civili, intere generazioni di giovani decimate, nazioni devastate dalle distruzioni e dalle lacerazioni profonde nel tessuto sociale, popolazioni ridotte alla fame e costrette ad emigrare.

Di fronte a questi disastri umani, su invito del Consigliere federale Max Petitpierre, nel 1949 si riunirono a Ginevra i rappresentanti di molti Paesi per cercare strumenti efficaci di protezione delle vittime della guerra. Furono discusse e firmate quattro Convenzioni (note appunto come Convenzioni di Ginevra), che impegnano gli Stati belligeranti a rispettare la dignità dei combattenti, a proteggere le strutture sanitarie (ospedali, posti di soccorso, infermerie, ambulanze, ecc.), il personale medico e paramedico, in particolare i malati e i feriti, ad assistere, curare e rispettare i prigionieri, a proteggere da atti di violenza e dall'arbitrio i civili che si trovano in mano nemica o in territorio occupato.

A distanza di 74 anni, nessuno può negare la necessità e l’utilità di quelle Convenzioni nei conflitti armati, ma non si può dimenticare che si tratta di misure «curative». E’ tempo di porre mano a misure «preventive» e non c’è dubbio che l’opinione pubblica può determinare la volontà delle Nazioni Unite e degli Stati membri ad adottarle e a farle rispettare. Se si è in pochi ad invocare la pace e la giustizia, quell'invocazione è come una voce che grida nel deserto; ma se è una moltitudine a reclamarle a gran voce è come un vento che scuote la foresta rigogliosa ma intorpidita.

Giovanni Longu
Berna 6.12.2023

22 novembre 2023

ANNIVERSARI: 4. 1948-2023 75 anni della Costituzione italiana

Il 1° gennaio 1948 entrava in vigore la Costituzione della Repubblica italiana, dunque 75 anni fa. Per l’età e la lentezza di funzionamento di qualche suo organo, c’è chi la considera «vecchia» e, almeno in parte, da sostituire. Certamente è modificabile, ma prima di metter mano a cambiamenti discutibili, non si dovrebbe almeno cercare di realizzare pienamente le parti non modificabili (Principi fondamentali), che conservano un’incredibile potenzialità di sviluppo? Mi soffermerò, a titolo di esempio, soltanto su un paio di articoli, che illustrano bene sia la serietà e lungimiranza dei padri costituenti che li hanno pensati e imposti e sia la loro insufficiente attuazione da parte di Governi distratti evidentemente da altri interessi.

L’Italia è fondata sul lavoro e sui lavoratori

L’articolo 1 recita: L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Non può essere senza significato che la Costituzione italiana inizi con questo articolo di una forza e una portata straordinaria. Infatti, esso indica non solo il fondamento su cui i padri costituenti hanno voluto che nascesse e si sviluppasse l’Italia repubblicana, ma anche il metodo con cui gli organi dello Stato avrebbero dovuto svolgere le loro funzioni, ossia in maniera solida, democratica, costituzionale, sostenibile.

Nella prima frase, questo articolo stabilisce anzitutto che l’Italia è fondata sul lavoro dei propri cittadini, non potendo contare né su materie prime inesistenti nel suo sottosuolo, né su rendite coloniali o di altra origine e nemmeno sul prestigio internazionale perché l’Italia aveva perso la guerra e si trovava in uno stato pietoso. L’unica vera potenzialità su cui potevano e quindi dovevano contare gli italiani era il lavoro.

Solo attraverso il lavoro la nuova Repubblica si sarebbe riscattata dall'onta della sconfitta e avrebbe affrontato con determinazione e fiducia la grande sfida della ricostruzione, del riposizionamento nel contesto delle grandi democrazie occidentali, della riconquista del benessere e della spinta innovativa verso quella cooperazione fra i popoli che si stava prospettando a livello europeo e mondiale.

La sovranità appartiene al popolo

La seconda frase è un’estensione della prima, dove già si diceva che l’Italia è una Repubblica «democratica», ossia basata sul governo del «popolo» (demos). Ora, tuttavia, il popolo che lavora viene indicato espressamente come «sovrano», ossia come autorità suprema che non ne ha alcun’altra al di sopra. Non è «suddito» che dipende dalla sovranità dello Stato, ma è lui il «sovrano», protagonista e artefice del proprio destino, anche se esercita il potere solitamente tramite organismi delegati ad agire in suo nome.

Dicendo che «la sovranità appartiene al popolo», i costituenti non hanno voluto soltanto escludere altre fonti superiori del diritto e del potere (come si sosteneva spesso nel passato), ma hanno inteso segnalare che è il popolo che lavora l’unico «sovrano» d’Italia, a cui si deve rispetto e pieno sostegno per poter raggiungere attraverso il lavoro i suoi obiettivi di sviluppo e prosperità. E per non restare nel vago e nell'incerto hanno voluto precisare che la sovranità è esercitata «nelle forme e nei limiti della Costituzione». E’ ovvio, perché una società ordinata ha le sue regole, le quali, però, non vengono imposte dall'alto, ma sono condivise dal basso.

La Repubblica tutela il lavoro

Per le ragioni dette, una delle principali conseguenze derivanti dall'articolo 1 della Costituzione dovrebbe essere l’obbligo dello Stato di tutelare il lavoro non solo in Italia la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni», art. 35, comma 1), ma anche all'estero («tutela il lavoro italiano all'estero», art, 35, comma 4). E’ invece sotto gli occhi di tutti che questa tutela è carente, non solo perché si assiste ancora a troppe morti sul lavoro e a forme inaccettabili di sfruttamento, ma soprattutto perché mancano specialmente al Sud sufficienti e adeguati posti di lavoro e non si riesce a evitare che molti cittadini siano costretti a emigrare al Nord e persino all'estero.

Si può dire, come ripete spesso il presidente Mattarella, che emigrare dovrebbe essere un’«opportunità», ma di fatto è ancora una «scelta obbligata» e bisognerebbe richiamare lo Stato all'obbligo di tutelare maggiormente il lavoro, a favorire gli investimenti e l’occupazione specialmente al Sud e a porre in essere, finalmente, misure efficaci per arrestare i flussi emigratori involontari. Se lo facesse sarebbe un bell'omaggio alla Costituzione, sempre vitale, e ai padri costituenti che hanno visto bene e lontano, ma anche una forma di rispetto verso il popolo sovrano e un contributo alla prosperità comune.

Giovanni Longu
Berna 22.11.2023