L’autunno scorso, mentre stavo preparando
alcuni articoli su Schwarzenbach, mi fu segnalato il libro di Concetto Vecchio
«Cacciateli!» e lessi subito qualche recensione e alcuni estratti. Mi colpirono
per l’animosità e la superficialità con cui, mi sembrava, l’autore trattasse
temi molti complessi e delicati come la xenofobia, le baracche, i bambini
«clandestini» e in generale la politica immigratoria svizzera prima del 1970. Quando
il libro venne presentato a Berna (29.11.2019) speravo che le mie perplessità
svanissero; ma non fu così. Il 3 dicembre scrissi il mio disappunto al riguardo
(https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/search?q=Cacciateli).
Mi proposi di leggere il libro, sperando che i miei dubbi si dissolvessero. Ho letto il libro e le mie precedenti
perplessità (riguardanti l’impostazione ideologica, la superficialità,
l’imprecisione, la generalizzazione, la faziosità) sono rimaste con l’aggiunta
di una nuova circa il metodo di riscrivere la storia seguito da Vecchio. Ora il
mio disappunto è ancor più circostanziato.
Osservazione generale
Rispetto la vicenda personale dell’autore e il
contesto autobiografico del libro. Non condivido invece l’animosità con cui
Vecchio tratta il contesto politico-immigratorio svizzero e lo rende non
oggettivo. Non condivido soprattutto il metodo storiografico scelto, che tende
a privilegiare alcune testimonianze parziali, alcune fonti citate per altro
senza riferimenti bibliografici precise, talvolta manipolate, parziali e decontestualizzate,
la generalizzazione di episodi e casi singoli senza alcun sostegno statistico,
ecc.
Questioni metodologiche
Cacciateli! vuol
essere «un libro sulla Svizzera del 1970»), in realtà molti riferimenti
concernono il decennio precedente visto in maniera statica. Vecchio usa
concetti molto pregnanti come Rotationsprinzip (pag. 30) o Überfremdung
(pag. 63) senza precisarli e contestualizzarli, anzi dando interpretazioni
assai discutibili. Non riesce a distinguere tra «referendum», «iniziativa
popolare» e «petizione».
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Baracche degli anni '70 ancora in grado di ospitare dignitosamente inquilini. |
Vecchio riferisce talvolta fatti, anche gravi, senza darne una
spiegazione plausibile. Per esempio, a pag. 82, scrive che «il governo
[svizzero], per pura reazione, respinge platealmente 2000 italiani alle
frontiere di Chiasso e Briga», mentre in realtà il respingimento è avvenuto,
ufficialmente, perché gli interessati non disponevano della necessaria assicurazione riguardante la concessione di un permesso di dimora.
Altro esempio. A pag. 88 Vecchio riassume così la sciagura di Mattmark:
«[…] una valanga di due metri cubi di ghiaccio e detriti investe il cantiere
[…]. I sassi seppelliscono le baracche. I morti sono ottantotto, di cui
cinquantasei italiani […]». A parte il fatto che si trattò forse di un milione
di metri cubi e non di 2 metri cubi, leggendo in sequenza quelle espressioni,
un lettore non informato su quella disgrazia potrebbe pensare che la valanga
(anche se non si trattò di una valanga) si sia abbattuta sulle baracche
uccidendo 88 persone. Non viene detto che queste persone al momento della
disgrazia (alle 17.30 e non alle 15!) stavano lavorando, non dormendo (i grandi
dormitori si trovavano infatti ad alcuni chilometri di distanza dalla diga che
si stava costruendo), e che la caduta del ghiacciaio era, secondo i giudici,
imprevedibile.
Eppure, nonostante che al processo siano stati assolti tutti i dirigenti del
cantiere, Vecchio sembra non avere dubbi e alla domanda «Perché le baracche
erano state costruite ai piedi del ghiacciaio?» dà questa risposta: «Per far
perdere meno tempo agli operai, che lavoravano in condizioni disumane, anche di
domenica, ché la ditta aveva fretta di chiudere i lavori». In questa frase,
viene anche suggerita l’idea di sfruttamento degli operai da parte della ditta
costruttrice, che aveva sì fretta di terminare i lavori, ma non per questo
imponeva condizioni di lavoro disumane, anche di domenica. Erano gli stessi
operai che accettavano volentieri di fare gli straordinari fino a 15-16 ore al giorno, domenica
compresa.
Citazioni monche e decontestualizzate
Per suffragare sue affermazioni, a mio parere
avventate, Concetto Vecchio cita spesso espressioni monche estrapolate da
contesti non coincidenti con le sue tesi. Forse per questo non cita mai le
fonti con precisione. Eppure, si sa, in questo tipo di narrazione storica il
contesto di una citazione è fondamentale.
Secondo i manuali di stile, le «citazioni» (solitamente racchiuse tra
virgolette quando sono inserite all’interno del testo corrente) «devono sempre
riprodurre letteralmente il testo originale da cui sono tratte» e persino la
forma (tempo dei verbi, ecc.) non dovrebbe essere modificata. Inoltre le
citazioni andrebbero sempre accompagnate (per es. mediante note)
dall’indicazione precisa delle fonti. Infine, è buona norma evitare le
generalizzazioni infondate e parlare piuttosto di «alcuni immigrati» invece
«degli immigrati», di «alcuni svizzeri», invece «degli svizzeri».
Vecchio non si attiene a queste regole e «cita» a suo piacimento. Non è
solo una questione di stile, come si vedrà, ma anche di sostanza. E’ stato
sufficiente fare alcune verifiche a campione per scoprire, purtroppo, che molte
citazioni non sono altro che parole ed espressioni veramente esistenti
nell’originale, ma decontestualizzate a tal punto da modificarne il senso
originario. Di seguito alcuni esempi.
A pag. 22 Vecchio accenna a una baraccopoli
vicino a Ginevra su cui un inviato del Corriere della Sera nel 1963
aveva scritto un articolo, usando anche espressioni forti tipo «proprietari di stalle, di vecchi mulini,
di bicocche» che «ne approfittano per affittarle agli italiani, ottenendo
guadagni sproporzionati», ecc. Vecchio riprende alcuni termini, ma si guarda
bene dal contestualizzarli. Nell’articolo si diceva che gli abusi venivano talvolta denunciati, ma che quando la polizia interviene,« in molti
casi, gli stessi meridionali preferiscono restare in questi locali perché una camera
dignitosa è troppo cara».
Talvolta Vecchio cita e manipola. Se per il giornalista Mario Cervi «l'immigrazione […] suscita reazioni irrazionali, alimenta stati d'animo
contraddittori», per Vecchio «l'immigrazione suscita negli svizzeri sentimenti
irrazionali» (p. 61). Solo negli svizzeri? Cervi si chiedeva: «Non l'abbiamo
forse sperimentato anche in Italia negli anni del massiccio arrivo, al nord, di
mano d'opera meridionale?».
Altre volte Vecchio non cita esplicitamente l’articolo a cui dice di
riferirsi, ma ne travisa il senso originario. Riferendosi a una serie di
articoli scritti nell’estate del 1962 da Bruno Marini, ne riprende alcune parole
ma ne modifica il contesto. Così, per esempio, il «lavatoio comune», che «sembra
un abbeveratoio per le mucche» (Marini) diventa per Vecchio «lavarsi la faccia
con l’acqua gelida in un abbeveratoio per mucche» (p. 13). Oltretutto appare
strano che nel mese di giugno a Zurigo l’acqua fosse «gelata». In ogni caso gli
stagionali non si lavavano negli abbeveratoi per mucche.
Nello stesso articolo Marini parlava di «due casette gemelle» con
diverse stanze e «tre o quattro brande, in ognuna», mentre Vecchio parla di
«una baracca da quarantasei posti letto» (p. 13). Ben altra è infatti
l’impressione che suscita una «baracca da 46 posti letto» rispetto a quella
normale dei 3-4 letti per camera!
Ma di quali baracche parla?
Leggendo alcune pagine del libro di Vecchio, un
lettore sprovveduto potrebbe pensare che nel 1970, l’anno della votazione
sull’iniziativa Schwarzenbach, «i nostri connazionali» fossero «costretti a
vivere in luride bicocche dai muri scrostati, in mulini adattati a casolari,
nelle stalle», «in abitazioni incivili» (pag. 22). Questo è falso. Infatti, pur
ammettendo che nel 1970 ci fossero qua e là baracche «incivili», la stragrande
maggioranza degli immigrati italiani non abitava in queste strutture (vedi
appresso). E poi, perché generalizzare («i connazionali», «gli emigrati») e non
dire, invece, «alcuni emigrati», «alcuni stagionali»?
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Nel 1970 erano ancora decine di migliaia i nuovi immigrati italiani Svizzera. |
Vecchio
riconosce che negli anni Sessanta c’era in Svizzera una penuria di abitazioni
(pag. 29), ma si guarda bene dal riferire che per superarla venivano costruite ogni
anno circa 40-50 mila nuove abitazioni e che dal 1946 al 1966 ne furono
costruite oltre 710.000. E’ vero, non erano tutte a buon
mercato, per cui molti immigrati preferivano restare in alloggi con meno
confort, specialmente mansarde o vecchie case. In generale, tuttavia, fin dal
1960 gli italiani (residenti) disponevano in Svizzera di abitazioni meglio
equipaggiate (bagno, doccia, riscaldamento, acqua corrente) che in Italia (UST
1960). Perché l’autore non dice che spesso gli italiani non andavano ad abitare
in alloggi «decenti» perché volevano risparmiare sull'alloggio?
Quanto all'abitabilità delle baracche, l’autore
avrebbe dovuto sapere che la pulizia e l’ordine nelle baracche dipendevano
soprattutto da chi ci abitava e dai capibaracca, non dai proprietari. La
maggior parte delle baracche, anche secondo molte indagini degli anni Sessanta,
erano «decenti» e non davano certo l’immagine di «un lercio stanzone» (pag. 23).
C’erano sicuramente anche situazioni indecenti (cfr. pag. 124ss.) e molte
baracche non erano a norma. Ciononostante, paragonarle alle baracche dei campi
di concentramento e di sterminio nazisti di Dachau e Auschwitz (pag. 12) mi
lascia esterrefatto.
Bambini clandestini
La questione riguardante i bambini «clandestini»
(pag. 102), di per sé molto complessa, non sembra esserlo per Vecchio secondo
il quale agli stagionali, i muratori, ecc. si presentavano solo tre opzioni:
lasciarli da parenti in Italia, metterli in istituti vicini al confine, oppure
portarli clandestinamente per poi lasciarli «chiusi a chiave tutto il giorno
con l’ordine di non fare rumore […] segregati nelle soffitte, in minuscoli
appartamenti: piccoli reclusi, come Anna Frank» (p. 101s.).
L’opzione, pure adottata sporadicamente da
qualche coppia di rientrare in Italia per stare vicino ai figli (pag. 106s),
rappresenta l’eccezione e non viene presa in considerazione. Vecchio ritiene
invece una sorta di ripicca contro «l’iniquo diritto» il fatto che ci fossero
genitori che dopo aver fatto finta di riportare in Italia il bambino lo
facessero rientrare in Svizzera «rannicchiato tra le valigie» (pag. 107),
nascondendolo nel portabagagli (pag. 108). Egli s’indigna contro gli svizzeri…
ma non s’indigna affatto che dei bambini fossero tenuti rinchiusi in una
mansarda perché i genitori dovevano andare a lavorare (cfr. pag. 108s.). Per
Vecchio questi bambini erano solo «vittime di una legge crudele» (pag. 110).
L’autore non sembra avere dubbi nemmeno sul
numero dei «minori clandestini» e non si pone il problema delle fonti. Gli
basta che un giornale romando abbia «calcolato» nel 1971 una cifra piuttosto
vaga (pag. 102), senza peraltro citarla correttamente e senza nemmeno chiedersi
come sia stata calcolata, trattandosi di clandestini, o se si trattasse di figli di stagionali o di annuali o di entrambi.
Sebbene la condizione dell’«alloggio adeguato»
fosse prevista dall’accordo italo-svizzero del 1964, l’autore sembra quasi
contestare il diritto e persino il dovere delle autorità svizzere di garantire
a priori che le condizioni d’abitazione fossero idonee e di vigilare che
durante il giorno avessero un’assistenza adeguata
Mi fermo qui. Potrei continuare, ma quanto detto mi pare sufficiente per giustificare il mio convinto disappunto sull'opera di Concetto Vecchio Cacciateli! Qualche mese fa mi ero ripromesso di
confermare o eliminare alcuni dubbi leggendo il libro.
Poiché i dubbi sono stati confermati, ho voluto fornire all’eventuale lettore
alcuni esempi di narrazione che non condivido. Ho evitato osservazioni sulla
parte principale concernete l’iniziativa Schwarzenbach e il titolo dell’opera
per evidente mancanza di spazio, non perché l’approvi.
Giovanni Longu
Berna,10.02.2020
Berna,10.02.2020
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