11 febbraio 2020

Cacciateli! Ma perché tanta animosità?


L’autunno scorso, mentre stavo preparando alcuni articoli su Schwarzenbach, mi fu segnalato il libro di Concetto Vecchio «Cacciateli!» e lessi subito qualche recensione e alcuni estratti. Mi colpirono per l’animosità e la superficialità con cui, mi sembrava, l’autore trattasse temi molti complessi e delicati come la xenofobia, le baracche, i bambini «clandestini» e in generale la politica immigratoria svizzera prima del 1970. Quando il libro venne presentato a Berna (29.11.2019) speravo che le mie perplessità svanissero; ma non fu così. Il 3 dicembre scrissi il mio disappunto al riguardo (https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/search?q=Cacciateli). Mi proposi di leggere il libro, sperando che i miei dubbi si dissolvessero. Ho letto il libro e le mie precedenti perplessità (riguardanti l’impostazione ideologica, la superficialità, l’imprecisione, la generalizzazione, la faziosità) sono rimaste con l’aggiunta di una nuova circa il metodo di riscrivere la storia seguito da Vecchio. Ora il mio disappunto è ancor più circostanziato.

Osservazione generale
Rispetto la vicenda personale dell’autore e il contesto autobiografico del libro. Non condivido invece l’animosità con cui Vecchio tratta il contesto politico-immigratorio svizzero e lo rende non oggettivo. Non condivido soprattutto il metodo storiografico scelto, che tende a privilegiare alcune testimonianze parziali, alcune fonti citate per altro senza riferimenti bibliografici precise, talvolta manipolate, parziali e decontestualizzate, la generalizzazione di episodi e casi singoli senza alcun sostegno statistico, ecc.
Nessuno potrà mai scrivere che per gli immigrati italiani la vita fosse facile a cavallo del 1970, ma la si può raccontare senza esagerazioni, esasperazioni, falsità. Mi soffermerò in particolare su due temi che mi sembrano trattati da Vecchio in modo inaccettabile, quello riguardante le «baracche» e quello dei «bambini clandestini». Comincio però con qualche osservazione sul metodo seguito da Vecchio.

Questioni metodologiche
Cacciateli! vuol essere «un libro sulla Svizzera del 1970»), in realtà molti riferimenti concernono il decennio precedente visto in maniera statica. Vecchio usa concetti molto pregnanti come Rotationsprinzip (pag. 30) o Überfremdung (pag. 63) senza precisarli e contestualizzarli, anzi dando interpretazioni assai discutibili. Non riesce a distinguere tra «referendum», «iniziativa popolare» e «petizione».
Baracche degli anni '70 ancora in grado di ospitare dignitosamente inquilini.
L’autore riporta spesso numeri e date, ma non sempre ne verifica l’esattezza. In generale dà l’impressione di non essere mai sfiorato dal dubbio. Quando scrive: «dal 1860 ad oggi sono emigrati all’estero più di trenta milioni di italiani» (pag. 25), qualche lettore potrebbe pensare che queste persone siano partite per sempre, mentre la maggior parte degli emigrati (circa due terzi) dopo un po’ di tempo (talvolta una stagione o un anno) è rientrata.
Vecchio riferisce talvolta fatti, anche gravi, senza darne una spiegazione plausibile. Per esempio, a pag. 82, scrive che «il governo [svizzero], per pura reazione, respinge platealmente 2000 italiani alle frontiere di Chiasso e Briga», mentre in realtà il respingimento è avvenuto, ufficialmente, perché gli interessati non disponevano della necessaria assicurazione riguardante la concessione di un permesso di dimora.
Altro esempio. A pag. 88 Vecchio riassume così la sciagura di Mattmark: «[…] una valanga di due metri cubi di ghiaccio e detriti investe il cantiere […]. I sassi seppelliscono le baracche. I morti sono ottantotto, di cui cinquantasei italiani […]». A parte il fatto che si trattò forse di un milione di metri cubi e non di 2 metri cubi, leggendo in sequenza quelle espressioni, un lettore non informato su quella disgrazia potrebbe pensare che la valanga (anche se non si trattò di una valanga) si sia abbattuta sulle baracche uccidendo 88 persone. Non viene detto che queste persone al momento della disgrazia (alle 17.30 e non alle 15!) stavano lavorando, non dormendo (i grandi dormitori si trovavano infatti ad alcuni chilometri di distanza dalla diga che si stava costruendo), e che la caduta del ghiacciaio era, secondo i giudici, imprevedibile.
Eppure, nonostante che al processo siano stati assolti tutti i dirigenti del cantiere, Vecchio sembra non avere dubbi e alla domanda «Perché le baracche erano state costruite ai piedi del ghiacciaio?» dà questa risposta: «Per far perdere meno tempo agli operai, che lavoravano in condizioni disumane, anche di domenica, ché la ditta aveva fretta di chiudere i lavori». In questa frase, viene anche suggerita l’idea di sfruttamento degli operai da parte della ditta costruttrice, che aveva sì fretta di terminare i lavori, ma non per questo imponeva condizioni di lavoro disumane, anche di domenica. Erano gli stessi operai che accettavano volentieri di fare gli straordinari fino a 15-16 ore al giorno, domenica compresa.

Citazioni monche e decontestualizzate
Per suffragare sue affermazioni, a mio parere avventate, Concetto Vecchio cita spesso espressioni monche estrapolate da contesti non coincidenti con le sue tesi. Forse per questo non cita mai le fonti con precisione. Eppure, si sa, in questo tipo di narrazione storica il contesto di una citazione è fondamentale.
Secondo i manuali di stile, le «citazioni» (solitamente racchiuse tra virgolette quando sono inserite all’interno del testo corrente) «devono sempre riprodurre letteralmente il testo originale da cui sono tratte» e persino la forma (tempo dei verbi, ecc.) non dovrebbe essere modificata. Inoltre le citazioni andrebbero sempre accompagnate (per es. mediante note) dall’indicazione precisa delle fonti. Infine, è buona norma evitare le generalizzazioni infondate e parlare piuttosto di «alcuni immigrati» invece «degli immigrati», di «alcuni svizzeri», invece «degli svizzeri».
Vecchio non si attiene a queste regole e «cita» a suo piacimento. Non è solo una questione di stile, come si vedrà, ma anche di sostanza. E’ stato sufficiente fare alcune verifiche a campione per scoprire, purtroppo, che molte citazioni non sono altro che parole ed espressioni veramente esistenti nell’originale, ma decontestualizzate a tal punto da modificarne il senso originario. Di seguito alcuni esempi.
A pag. 22 Vecchio accenna a una baraccopoli vicino a Ginevra su cui un inviato del Corriere della Sera nel 1963 aveva scritto un articolo, usando anche espressioni forti tipo «proprietari di stalle, di vecchi mulini, di bicocche» che «ne approfittano per affittarle agli italiani, ottenendo guadagni sproporzionati», ecc. Vecchio riprende alcuni termini, ma si guarda bene dal contestualizzarli. Nell’articolo si diceva che gli abusi venivano talvolta denunciati, ma che quando la polizia interviene,« in molti casi, gli stessi meridionali preferiscono restare in questi locali perché una camera dignitosa è troppo cara».
Talvolta Vecchio cita e manipola. Se per il giornalista Mario Cervi «l'immigrazione […] suscita reazioni irrazionali, alimenta stati d'animo contraddittori», per Vecchio «l'immigrazione suscita negli svizzeri sentimenti irrazionali» (p. 61). Solo negli svizzeri? Cervi si chiedeva: «Non l'abbiamo forse sperimentato anche in Italia negli anni del massiccio arrivo, al nord, di mano d'opera meridionale?».
Altre volte Vecchio non cita esplicitamente l’articolo a cui dice di riferirsi, ma ne travisa il senso originario. Riferendosi a una serie di articoli scritti nell’estate del 1962 da Bruno Marini, ne riprende alcune parole ma ne modifica il contesto. Così, per esempio, il «lavatoio comune», che «sembra un abbeveratoio per le mucche» (Marini) diventa per Vecchio «lavarsi la faccia con l’acqua gelida in un abbeveratoio per mucche» (p. 13). Oltretutto appare strano che nel mese di giugno a Zurigo l’acqua fosse «gelata». In ogni caso gli stagionali non si lavavano negli abbeveratoi per mucche.
Nello stesso articolo Marini parlava di «due casette gemelle» con diverse stanze e «tre o quattro brande, in ognuna», mentre Vecchio parla di «una baracca da quarantasei posti letto» (p. 13). Ben altra è infatti l’impressione che suscita una «baracca da 46 posti letto» rispetto a quella normale dei 3-4 letti per camera!

Ma di quali baracche parla?
Leggendo alcune pagine del libro di Vecchio, un lettore sprovveduto potrebbe pensare che nel 1970, l’anno della votazione sull’iniziativa Schwarzenbach, «i nostri connazionali» fossero «costretti a vivere in luride bicocche dai muri scrostati, in mulini adattati a casolari, nelle stalle», «in abitazioni incivili» (pag. 22). Questo è falso. Infatti, pur ammettendo che nel 1970 ci fossero qua e là baracche «incivili», la stragrande maggioranza degli immigrati italiani non abitava in queste strutture (vedi appresso). E poi, perché generalizzare («i connazionali», «gli emigrati») e non dire, invece, «alcuni emigrati», «alcuni stagionali»?
Nel 1970 erano ancora decine di migliaia i nuovi immigrati italiani Svizzera.
Ma di quali baracche parla l'autore? Gli sarebbe bastata una piccola indagine per sapere che le baracche erano destinate soprattutto agli stagionali dell’edilizia, che nel 1966 ne ospitavano poco più di un quarto (il 28%) e poi sempre di meno. Allora gli stagionali italiani erano 170-180 mila, mentre i residenti annuali e domiciliati erano quasi mezzo milione e non abitavano nelle baracche. Forse avrebbe anche scoperto che nel corso degli anni Sessanta la qualità delle baracche era cresciuta notevolmente e le «baracche di lamiera, legno e cartone» e le «abitazioni incivili» (p. 22) erano andate via via scomparendo.
Vecchio riconosce che negli anni Sessanta c’era in Svizzera una penuria di abitazioni (pag. 29), ma si guarda bene dal riferire che per superarla venivano costruite ogni anno circa 40-50 mila nuove abitazioni e che dal 1946 al 1966 ne furono costruite oltre 710.000. E’ vero, non erano tutte a buon mercato, per cui molti immigrati preferivano restare in alloggi con meno confort, specialmente mansarde o vecchie case. In generale, tuttavia, fin dal 1960 gli italiani (residenti) disponevano in Svizzera di abitazioni meglio equipaggiate (bagno, doccia, riscaldamento, acqua corrente) che in Italia (UST 1960). Perché l’autore non dice che spesso gli italiani non andavano ad abitare in alloggi «decenti» perché volevano risparmiare sull'alloggio?
Quanto all'abitabilità delle baracche, l’autore avrebbe dovuto sapere che la pulizia e l’ordine nelle baracche dipendevano soprattutto da chi ci abitava e dai capibaracca, non dai proprietari. La maggior parte delle baracche, anche secondo molte indagini degli anni Sessanta, erano «decenti» e non davano certo l’immagine di «un lercio stanzone» (pag. 23). C’erano sicuramente anche situazioni indecenti (cfr. pag. 124ss.) e molte baracche non erano a norma. Ciononostante, paragonarle alle baracche dei campi di concentramento e di sterminio nazisti di Dachau e Auschwitz (pag. 12) mi lascia esterrefatto.

Bambini clandestini
La questione riguardante i bambini «clandestini» (pag. 102), di per sé molto complessa, non sembra esserlo per Vecchio secondo il quale agli stagionali, i muratori, ecc. si presentavano solo tre opzioni: lasciarli da parenti in Italia, metterli in istituti vicini al confine, oppure portarli clandestinamente per poi lasciarli «chiusi a chiave tutto il giorno con l’ordine di non fare rumore […] segregati nelle soffitte, in minuscoli appartamenti: piccoli reclusi, come Anna Frank» (p. 101s.).
L’opzione, pure adottata sporadicamente da qualche coppia di rientrare in Italia per stare vicino ai figli (pag. 106s), rappresenta l’eccezione e non viene presa in considerazione. Vecchio ritiene invece una sorta di ripicca contro «l’iniquo diritto» il fatto che ci fossero genitori che dopo aver fatto finta di riportare in Italia il bambino lo facessero rientrare in Svizzera «rannicchiato tra le valigie» (pag. 107), nascondendolo nel portabagagli (pag. 108). Egli s’indigna contro gli svizzeri… ma non s’indigna affatto che dei bambini fossero tenuti rinchiusi in una mansarda perché i genitori dovevano andare a lavorare (cfr. pag. 108s.). Per Vecchio questi bambini erano solo «vittime di una legge crudele» (pag. 110).
L’autore non sembra avere dubbi nemmeno sul numero dei «minori clandestini» e non si pone il problema delle fonti. Gli basta che un giornale romando abbia «calcolato» nel 1971 una cifra piuttosto vaga (pag. 102), senza peraltro citarla correttamente e senza nemmeno chiedersi come sia stata calcolata, trattandosi di clandestini, o se si trattasse di figli di stagionali o di annuali o di entrambi.
Sebbene la condizione dell’«alloggio adeguato» fosse prevista dall’accordo italo-svizzero del 1964, l’autore sembra quasi contestare il diritto e persino il dovere delle autorità svizzere di garantire a priori che le condizioni d’abitazione fossero idonee e di vigilare che durante il giorno avessero un’assistenza adeguata
Mi fermo qui. Potrei continuare, ma quanto detto mi pare sufficiente per giustificare il mio convinto disappunto sull'opera di Concetto Vecchio Cacciateli! Qualche mese fa mi ero ripromesso di confermare o eliminare alcuni dubbi leggendo il libro. Poiché i dubbi sono stati confermati, ho voluto fornire all’eventuale lettore alcuni esempi di narrazione che non condivido. Ho evitato osservazioni sulla parte principale concernete l’iniziativa Schwarzenbach e il titolo dell’opera per evidente mancanza di spazio, non perché l’approvi.
Giovanni Longu
Berna,10.02.2020

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