12 febbraio 2020

Immigrazione italiana 1970-1990: 4. Proteste e preoccupazioni


Dopo la bocciatura popolare dell’iniziativa Schwarzenbach, gli immigrati italiani tirarono un sospiro di sollievo, ma non si sentirono rassicurati. La destra nazionalista - pensavano in molti - avrebbe lanciato sicuramente altre iniziative antistranieri e le autorità svizzere non avrebbero cambiato rotta nella politica immigratoria, ormai orientata a ridurre la manodopera estera in entrata e a stabilizzare e integrare quella già presente. Anche l’Italia, agli inizi degli «anni di piombo», non appariva la terra che avrebbe accolto a braccia aperte i reduci dall’esperienza migratoria. 

Prime misure di politica immigratoria
Nel 1970, molti immigrati italiani pensarono al rientro definitivo in Italia.
All’inizio del 1970, il Consiglio federale era più che mai convinto che dovesse dare risposte convincenti alle richieste (provenienti non solo dalle destre, ma anche dalle sinistre, dagli ambienti sindacali, dalle chiese e dalla società civile) di contenimento della manodopera estera. Pertanto, il 16 marzo emanò un decreto che limitava il numero dei permessi stagionali (152.000) e annuali (40.000), escludendo da queste misure alcuni rami molto carenti di manodopera (scuole, ospedali, economie domestiche, ecc.).
Il senso del provvedimento era chiaro: «Per prevenire un ulteriore aumento del numero degli stranieri esercitanti un'attività lucrativa, l'ammissione di lavoratori annuali e di stagionali impiegati nelle aziende e nelle amministrazioni pubbliche e private, nonché l'ammissione di stranieri esercitanti un'attività lucrativa a titolo indipendente è limitata conformemente alle disposizioni seguenti. […]». Anche la durezza della decisione era chiara, soprattutto perché concerneva anche «gli stagionali che domandano un permesso di dimora annuale», compromettendo la trasformazione del permesso stagionale in quello annuale. Inoltre il decreto confermava i divieti particolarmente osteggiati di cambiare posto di lavoro, professione e Cantone senza una previa autorizzazione.
Era anche chiaro che il Consiglio federale con quel decreto intendeva sottoporre ai partiti politici e all’opinione pubblica un’alternativa valida all’iniziativa Schwarzenbach. In effetti nei partiti della maggioranza e nei sindacati esso fu accolto favorevolmente. Esso scontentava invece molti imprenditori e soprattutto molti immigrati che vedevano in quel provvedimento un rischio per l’occupazione e un aggravio delle limitazioni preesistenti. Le contrarietà di alcune associazioni (specialmente CLI e ACLI) giunsero fino a Roma. A recepirle furono soprattutto i comunisti e alcuni esponenti del Movimento sociale italiano (Msi).

Proteste parlamentari italiane
Il 7 aprile 1970 alcuni deputati comunisti chiesero al Governo quali iniziative intendesse adottare presso quello elvetico «in difesa dei lavoratori italiani emigrati in Svizzera e minacciati gravemente dai provvedimenti di blocco dell'emigrazione adottati in questi giorni dal vicino paese». Inoltre veniva chiesto «quali passi abbia svolto il Governo nel corso della preparazione, da parte del governo svizzero, dei provvedimenti di tipo razzistico che interessano e minacciano la collettività dei lavoratori italiani che ammonta ad oltre 650 mila unità e quali siano le ragioni per le quali tali incredibili provvedimenti adottati in Svizzera non siano stati preventivamente discussi né in sede parlamentare, né in altre sedi sindacali o associative nel nostro paese».
I comunisti italiani ritenevano che si dovesse fare pressione sul Governo svizzero «per negoziare rapidamente un nuovo accordo, tenuto conto che quello in vigore è stato ed è unilateralmente violato, più in particolare per rivendicare l'abolizione dello statuto degli stagionali, dei poteri della polizia degli stranieri nettamente in contrasto con la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e con i più elementari diritti civili, l'adozione dei principi sulla libera circolazione della manodopera».
Un altro deputato del PCI si rivolgeva al Ministro degli affari esteri per conoscere inoltre «quale azione intenda promuovere per adeguare l'accordo di emigrazione italo-svizzero alle giuste esigenze dei lavoratori italiani : 1) annullare le norme e prescrizioni restrittive sui permessi di lavoro e soggiorno, sui contingentamenti di manodopera straniera nei settori produttivi e nei Cantoni, sulla libertà di scelta del posto di lavoro e di spostamento; 2) adottare nuove norme per la garanzia del lavoro, della dimora e del ricongiungimento familiare e per garantire agli emigrati stagionali parità di condizioni di vita, di abitazione, di previdenza e assistenza; 3) rendere effettivo il diritto di insegnamento della lingua italiana per i figli dei nostri connazionali emigrati e la libertà di accedere ai vari gradi dell'ordinamento scolastico svizzero».
Come detto, anche alcuni deputati del Movimento sociale italiano (Msi) chiesero al Governo cosa intendesse fare «per bilanciare la minore quota di emigrazione di nostri lavoratori specie giovani in Svizzera, a seguito dei provvedimenti già presi da quel governo, e per prevedere, inoltre, l'assorbimento di quelle maggiori aliquote di lavoratori che, in dannata ipotesi [che l’iniziativa Schwarzenbach venisse accettata], potrebbero essere costretti a rientrare in Italia dalle nuove iniziative legislative in atto in Svizzera».
Soprattutto la sinistra era però preoccupata e con un’altra interpellanza aveva chiesto al Governo cosa intendesse fare «per favorire il reinserimento dei lavoratori italiani che rientrano dalla Svizzera o che saranno costretti ad abbandonarla, in ordine ai problemi della occupazione, della casa, dei trasporti, dell'assistenza» e quali misure intendesse adottare «per incrementare l'occupazione, con misure specifiche e straordinarie, per fronteggiare le conseguenze delle restrizioni adottate dal governo svizzero in materia di emigrazione, soprattutto nel Mezzogiorno e nelle Isole».
Le risposte del Governo erano vaghe, ben sapendo che le difficoltà degli emigrati italiani in Svizzera erano reali, ma che le possibilità d’intervento presso le autorità svizzere erano scarse. Oltretutto si rendeva conto che un inasprimento dei rapporti con la Svizzera avrebbe potuto solo aggravare la situazione in Italia. Come avrebbe potuto garantire un’occupazione a decine di migliaia di emigrati, soprattutto nel Meridione, in caso di un forzato rientro? 

Reazione del Governo federale
Da parte sua, il Consiglio federale era convinto della necessità di prendere misure incisive contro l’«inforestierimento» e non intendeva derogare ai suoi poteri e doveri costituzionali e legali. Aveva anche le idee abbastanza chiare sulla direzione da seguire per raggiungere i suoi scopi di stabilizzazione e integrazione della manodopera estera necessaria e compatibile con le esigenze svizzere, ma era altresì consapevole che alcune misure particolarmente penalizzanti andavano attenuate, soprattutto riguardo ai ricongiungimenti familiari.
Molti immigrati pensavano invece di restare!
Per farsi assistere in questa nuova politica, già nel luglio 1970 aveva istituito un’apposita Commissione federale consultiva per il problema degli stranieri (cfr. articolo precedente: http://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2020/02/immigrazione-italiana-1970-1990-3.html).   Sapeva però che la politica degli stranieri non poteva gravare solo sulla Confederazione, ma doveva essere sentito come un problema «nazionale» anche dai Cantoni e dai Comuni. Coinvolgerli non sarebbe stato facile. Oltretutto il Consiglio federale, uscito illeso dalla votazione sull’iniziativa Schwarzenbach, sapeva che i movimenti xenofobi stavano preparando una nuova iniziativa antistranieri.

Preoccupazioni degli italiani
Il 1970 si concluse in Svizzera con una vaga speranza di rasserenamento dei rapporti tra svizzeri e stranieri perché il popolo svizzero, sia pure con una maggioranza risicata, aveva resistito all’assalto della destra xenofoba e il Consiglio federale aveva cominciato a limitare in maniera decisa ma non violenta l’immigrazione.
Soprattutto per gli italiani, però, niente sarebbe stato come prima. Non che prima tutti gli italiani stessero bene, ma tutti potevano contare su un lavoro abbastanza sicuro, su una vasta rete sociale di sopravvivenza (associazioni) e sulla speranza che in Italia l’economia riprendesse a crescere e potesse riassorbisse gli emigrati che rimpatriavano (come veniva promesso in tutte le campagne elettorali).
Dalla seconda metà del 1970, invece, per gli immigrati italiani il futuro si presentava alquanto incerto. Nessuno avrebbe scommesso un centesimo che Schwarzenbach e seguaci non avrebbero ritentato di far inserire nella Costituzione federale il blocco dei migranti in arrivo e la riduzione di quelli residenti. In molti si faceva strada l’idea ch’era forse giunto il momento di porre fine alle incertezze e rientrare definitivamente in Italia. In realtà però il dubbio persisteva.
Per molti, infatti, la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta non sembravano un buon momento per  rientrare in Italia, agitata com’era da scioperi, lotte sindacali, tensioni sociali, aumento della disoccupazione, lotte politiche, atti di violenza (strage di Piazza Fontana), ecc. Gli immigrati italiani si rendevano conto che un loro rientro in Italia in quel momento non sarebbe stato gradito perché avrebbe potuto contribuire ad aumentare le tensioni sociali.(Segue)
Giovanni Longu
Berna, 12.2.2020

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