Da oltre vent’anni i leader politici di ogni orientamento nei loro proclami verbali indicano la necessità di interventi prioritari nel campo della formazione, tanto quella di base quanto quella professionale. Di fatto questi interventi vengono trattati come secondari e rinviati «per mancanza di risorse». Sono convinto che manchino anche le idee, ma soprattutto la consapevolezza che senza un sostanziale miglioramento della formazione l’Italia continuerà il suo declino.
L’ultimo leader italiano di turno, Matteo Renzi, ha
anch’egli messo tra i suoi impegni politici prioritari «il rilancio della
cultura» e «la formazione» perché, secondo lui, «la scuola è il terreno sul
quale si gioca il futuro del nostro Paese». Difficile non dargli ragione. Resta
da vedere se, in attesa che venga il suo turno di governo, riesca a superare la
fase declamatoria e populista stimolando da subito l’attuale governo Letta a
fare meglio di quelli di Monti, Berlusconi, Prodi, Amato, D’Alema, Dini, ecc.
Non è pessimismo
Purtroppo anche il dinamico Renzi e il più moderato Letta dovranno
fare i conti con le scarse risorse disponibili, la resistenza di una vecchia
burocrazia, insegnanti demotivati e forse poco disponibili all’introduzione di
criteri quali produttività e meritocrazia anche nel campo della scuola, programmi
di studio poco proattivi, centri di ricerca scarsi e inadeguati. Pertanto anche
stavolta, come ho manifestato altre volte in passato, dubito che nel prossimo
futuro la scuola italiana possa fare il salto di qualità per divenire quel
motore di rinnovamento di cui l’Italia ha bisogno in un mondo di competitori sempre
più agguerriti e competenti.
Intanto i segnali negativi ci sono tutti, a cominciare dagli insegnanti. Secondo un quotidiano italiano, «i
nostri docenti spesso non sanno usare un tablet, non conoscono l’inglese, non
leggono un quotidiano, non conoscono la Costituzione e chiedono “Cos’è un
comma?”».
Non si tratta evidentemente di pessimismo. Basta osservare le
classifiche internazionali riguardanti ad esempio la scuola dell’obbligo, la
formazione universitaria, la ricerca e l’innovazione, la formazione continua.
Ebbene, l’Italia non figura mai ai primi posti e spesso si trova in fondo alla
scala.
Allievi italiani sotto
la media OCSE
Recentemente sono stati pubblicati risultati concernenti le
prestazioni scolastiche degli allievi quindicenni a livello OCSE. In matematica,
lettura e scienze naturali, i tre campi in cui gli allievi sono stati
esaminati, gli italiani si classificano al di sotto della media OCSE. In
matematica, ad esempio, ben 128 punti separano l’Italia dalla prima
classificata Cina-Shanghai, in lettura 80 punti, in scienze 86 punti. Giusto
per fare un confronto, la distanza che separa la Svizzera sempre dalla prima classificata
è rispettivamente di 82, 61 e 65 punti.
Il quadro degli allievi italiani non è tuttavia uniforme.
Infatti gli allievi del nord (soprattutto Trentino, Friuli Venezia Giulia, Veneto,
Lombardia e Alto Adige) sono decisamente al di sopra della media nazionale,
mentre quelli del sud (Molise, Basilicata, Sardegna, Campania, Sicilia,
Calabria) ottengono punteggi sotto la media.
La distanza notevole tra nord e sud anche in questa
classifica non fa che aggiungere difficoltà a difficoltà nel rinnovamento e
nello sviluppo della scuola italiana.
Formazione continua
Va forse meglio la formazione
continua? Niente affatto. A livello europeo gli italiani sono tra i meno dediti
alla formazione permanente, mentre ad esempio gli svizzeri sono tra i più
virtuosi. Questo confronto mi sembra illuminante.
Mentre l’83% delle imprese
in Svizzera dichiara di aver sostenuto almeno uno dei propri collaboratori
nelle attività di formazione continua nel 2011 (con punte del 95-96% in campo
finanziario-assicurativo, dell’amministrazione pubblica, istruzione, sanità e
assistenza sociale), le imprese italiane risultano col 56% sotto la media
europea (EU-27) dietro a Croazia, Portogallo e altri Paesi, e poco al di sopra
di Malta e Lituania.
Queste cifre possono apparire poco significative, eppure stanno
a denotare una situazione molto diversa non solo nel concepire l’importanza
della formazione continua in azienda e fuori dell’azienda e conseguentemente
l’impegno delle aziende a investire nella formazione e nel perfezionamento dei
propri addetti. Non deve pertanto apparire strano che oggi, in Europa, le
imprese che hanno meno difficoltà sono anche quelle che investono di più non
solo nella ricerca e nell’innovazione, ma anche nella formazione del proprio
personale.
Riformare la scuola e investire nella formazione dovrebbe
essere chiaro a tutti che si tratta d’investire almeno nell’Italia del
domani, se proprio per quella di oggi non ci sono più le condizioni.
Giovanni Longu
Berna, 18.12.2013
Berna, 18.12.2013
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