02 marzo 2016

Capire la Svizzera: 17. Radici cristiane della Svizzera

El Greco, Martirio di San Maurizio

Sono profonde le radici cristiane della Svizzera e inconfondibili sono i frutti dell’albero che da esse continua a trarre linfa vitale. Impossibile eliminare dalla storia svizzera Saint-Maurice, San Gallo, San Nicolao della Flüe, ma anche Zwingli, gli Agostiniani, i Gesuiti, ecc. Impossibile negare il ruolo fondamentale svolto dalla religione nella formazione dell’identità nazionale degli svizzeri. Anche oggi, nonostante il processo di secolarizzazione e la crescente «non appartenenza», quell’albero è sempre vivo come dimostrano i numerosi fedeli che frequentano i vari culti, ma anche i milioni di turisti che visitano cattedrali e abbazie sparse in tutta la Svizzera.

Capire la Svizzera significa anche rendersi conto che senza la componente cristiana molte città svizzere avrebbero un altro volto, la stessa Confederazione sarebbe molto diversa, molte tradizioni non esisterebbero, la Svizzera non avrebbe il suo simbolo, la croce.

Il sangue dei martiri seme di cristiani
Quando la romanizzazione era già una realtà consolidata in gran parte dell’attuale territorio svizzero, come stava avvenendo in altre regioni dell’Impero, anche nel territorio degli Elvezi il cristianesimo cominciò a penetrare e a diffondersi attraverso legionari e cives romani convertiti e grazie a predicatori coraggiosi del Vangelo.
Tra i legionari convertiti, la tradizione ricorda in particolare la Legione tebana (o tebea), che non ebbe nemmeno il tempo di insediarsi sul territorio elvetico perché venne annientata, intorno al 286, non dai barbari ma dagli stessi romani pagani obbligati dall’imperatore Massimiano a fare sacrifici agli dei e a perseguitare i cristiani.
Il martirio dei soldati comandati da Maurizio e dei pagani convertiti non arrestò tuttavia la penetrazione del cristianesimo in territorio elvetico, anzi la rinforzò. Si sa infatti che verso la fine del III secolo era già molto diffusa la venerazione dei legionari martirizzati nella regione dell’attuale Saint-Maurice, confermando il famoso detto di Tertulliano, secondo cui «il sangue dei martiri è seme di cristiani».
Anche se mancano testimonianze dirette della presenza di comunità cristiane prima del 313, l’anno in cui l’imperatore Costantino dichiarò il cristianesimo religione ufficiale dell’Impero, molti racconti (benché in parte leggendari) riferiscono di monaci, eremiti, luoghi di culto che fanno pensare quanto meno a una cristianizzazione in atto della Svizzera.

Rapida diffusione dopo il 313
Dopo il 313 il cristianesimo e con esso la venerazione dei santi si diffuse in Svizzera un po’ ovunque, come dimostrano ancora oggi le numerose chiese e cappelle dedicate ai santi massacrati insieme a Maurizio (Esuperio, Candido, Innocenzo, ecc.) o sfuggiti miracolosamente al massacro come Orso, Vittore, Felice e Regula.
Basilica di Saint-Maurice
Le comunità cristiane si moltiplicarono dapprima rapidamente, approfittando delle strutture romane, soprattutto nella parte occidentale del Paese. Ovunque (a Saint-Maurice, Ginevra, Martigny, Sion, Romainmôtier, Payerne, Friburgo, Berna, Zurzach, Basilea, ecc.) sorsero chiese, cappelle, monasteri. La costruzione di luoghi di culto e di conventi si estese successivamente anche nella parte centrale e orientale, meno romanizzata (Zurigo, Einsiedeln, Engelberg, Muri, Lucerna, Sant’Urbano, Rheinau, San Gallo, ecc.), nonché nei Grigioni (Coira, Disentis, Müstair) e nel Ticino (Riva San Vitale, Biasca, ecc.).
Dal IX secolo, le storie dei santi venivano spesso arricchite di particolari leggendari atti a ravvivare la devozione popolare. Essi riguardavano in particolare i martiri della Legione tebana, ma anche altri santi e sante come per esempio santa Verena, venerata in diverse regioni della Svizzera.
Secondo una leggenda risalente al XIII secolo, uno dei primo monaci giunti in Svizzera già nel primo secolo sarebbe stato il monaco irlandese Beato, incaricato dallo stesso apostolo Pietro di recarsi in Svizzera. La leggenda racconta anche che dalle grotte che portano il suo nome («Grotte di San Beato»/Beatushöhlen, oggi celebre meta turistica), sul Lago di Thun, avrebbe scacciato un malefico drago che terrorizzava la regione. Ben presto quei luoghi divennero un importante luogo di pellegrinaggio.

Diffusione dei santi patroni
Sta di fatto che, col passare dei secoli, il numero dei santi venerati crebbe enormemente e praticamente ogni parrocchia, ogni diocesi (che raggruppava un certo numero di parrocchie) e, dal XII-XIII secolo, ogni città e Cantone si diedero un santo patrono. Tra i primi, oltre a San Maurizio (venerato non solo nel Vallese, ma anche in altri Cantoni) si possono ricordare i Santi Orso e Vittore (patroni di Soletta), Felice e Regula (patroni di Zurigo), San Teodulo o Teodoro (patrono di Martigny, della diocesi di Sion e del Vallese), San Gallo (patrono di San Gallo), San Nicola (patrono di Friburgo), San Leodegario (patrono di Lucerna insieme a san Maurizio), San Fridolino (patrono del Cantone di Glarona), San Lucio (patrono di Coira), Sant’Enrico (patrono di Basilea), San Vincenzo (patrono di Berna), San Carlo Borromeo (patrono del Ticino), ecc.
San Nicolao della Flüe
Nel Medioevo, almeno inizialmente, il patrocinio dei santi corrispondeva a un sentito bisogno della devozione popolare di avere santi protettori e intercessori. Ben presto, tuttavia, alcuni santi patroni divennero simbolo di un potere giuridico e politico sempre più evidente. La festa del santo patrono era spesso una ricorrenza non solo religiosa, ma anche importante sotto l’aspetto sociale, economico, tributario e persino giudiziario.
Un cenno particolare merita il patrono della Svizzera San Nicolao della Flüe (1417-1487) perché oltre alla santità i contemporanei gli riconobbero una straordinaria autorevolezza. In effetti egli svolse un ruolo determinante come mediatore nel processo di riconciliazione tra Cantoni in lotta tra loro. Durante l’assemblea dei delegati cantonali (Dieta) a Stans nel 1481, il suo intervento in cui invitava tutti a «non allargarsi troppo» fu bene accolto e almeno nell’immediato i contrasti vennero appianati. Qualche tempo dopo, Fratel Nicolao, Bruder Klaus, come veniva chiamato, scrisse un lettera ai signori del Cantone di Berna ricordando loro che «la pace è sempre in Dio, perché Dio è la pace e la pace non può essere distrutta, ma la discordia è distrutta. Cercate dunque di conservare la pace».

Religione e politica: nascita della Confederazione
Il richiamo a Dio, nella politica, non era raro anche sul finire del Medioevo, ma costituiva invece una costante nei secoli precedenti quando politica e religione formavano un binomio quasi inscindibile, nel bene e nel male. Era l'epoca della piena affermazione della società cristiana, delle cattedrali e delle prime università, della diffusione in Europa di numerosi ordini monastici, ma anche delle lotte tra Occidente e Oriente, tra Papato e Sacro Romano Impero, tra Comuni e imperatore. 
Era anche l’epoca in cui si stava formando la Confederazione, la cui data di nascita ufficiale, o perlomeno il suo battesimo, furono stabiliti nel 1291. Dunque non deve suscitare meraviglia se essa è impregnata fin dall’inizio di cristianesimo, ma anche di forti contrasti.
Effettivamente, la sua nascita (o perlomeno il suo battesimo) venne inserita fin dalle prime cronache (per es. il Libro bianco di Sarnen risalente al 1470) in un contesto religioso, il giuramento del Grütli e il primo atto pubblico attestante il patto sancito «l'anno del Signore 1291, al principio del mese d'agosto» («Patto federale») non poteva prescindere dall’invocazione a Dio («Nel nome del Signore, così sia»), anche perché doveva durare «se il Signore lo consente, in perpetuo».
Erano anche tempi difficili perché i Comuni lottavano per la loro indipendenza dal potere dell’imperatore. Anche in Svizzera le comunità valligiane e le città cercavano di sottrarsi in tutti i modi, anche con le armi, al dominio imperiale. Era una lotta destinata a durare e interessò evidentemente numerosi protagonisti.
Di fatto, per secoli la storia civile, politica e militare dei Cantoni svizzeri si è intrecciata con la storia di conventi, abbazie, ordini religiosi, capitoli (ossia corporazioni formate dal clero attivo di una diocesi), principi abati, vescovi principi e persino Stati vescovili (come la Rezia curiense fino al IX secolo) e leghe cattoliche. Nei Grigioni, fin dal XV secolo dominavano le Leghe, una delle quali era chiamata nientemeno che «Casa di Dio» (dal romancio Lia da la Chadé) ed ebbe importanza fino al 1854 anche nell’ambito dell'organizzazione politica del nuovo Cantone dei Grigioni. Nel frattempo, tra il 1845 e il 1847, un’altra lega, ben più importante, aveva messo a rischio la tenuta della sostanziale pace religiosa intervenuta dopo la Riforma tra cattolici e protestanti e addirittura la tenuta della stessa Confederazione. Era la «Lega separata» (Sonderbund) dei sette Cantoni conservatori cattolici di Lucerna, Uri, Svitto, Untervaldo, Zugo, Friburgo e Vallese. Data la sua importanza, merita un approfondimento. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 2 marzo 2016

01 marzo 2016

No all’automatismo delle espulsioni, ma resta ancora molto da fare



All’indomani di ogni votazione è inevitabile la domanda: «chi ha vinto e chi ha perso?», soprattutto se il tema da decidere è di quelli sensibili come l’espulsione automatica dei criminali stranieri condannati. Questo era infatti uno dei temi in votazione in Svizzera il 28 febbraio scorso. 

Mi sembra tuttavia troppo semplicistico rispondere che, in democrazia, vince sempre la maggioranza, ossia chi prende più voti, e perde la minoranza che ne prende di meno. Una legittima curiosità vorrebbe un’identificazione dei vincitori e degli sconfitti con i partiti politici, ma questo non è sempre possibile, perché per ogni oggetto in votazione si possono creare maggioranze e minoranze diverse e uno stesso partito può far parte della maggioranza in un caso e della minoranza in un altro.
Personalmente preferisco un altro approccio, chiedendomi pure chi ha vinto e chi ha perso, ma soprattutto le motivazioni che hanno determinato nel caso specifico la maggioranza che ha respinto con il 58,9% di voti l’iniziativa dell’Unione democratica di centro (UDC) e la minoranza che la sosteneva.

Ha vinto la democrazia
Anzitutto mi piace far notare che in questo Paese vince sempre e comunque la democrazia perché il popolo svizzero, chiamato periodicamente a esprimere il suo assenso o dissenso anche su temi scottanti, si reca alle urne generalmente bene informato e decide liberamente senza sentirsi obbligato a seguire le parole d’ordine dei partiti, delle chiese, dei sindacati e dello stesso Parlamento rappresentativo.
Non oso immaginare quali sarebbero i risultati se analoghi quesiti venissero proposti al voto popolare in altri Paesi, per esempio in quelli che attorniano la Svizzera. Qui il popolo svizzero, con una sorprendentemente alta partecipazione (63,4%), ha respinto con il 58,9% di voti l’iniziativa popolare dell’Unione democratica di centro (UDC) che voleva un certo automatismo delle espulsioni degli stranieri criminali. Le percentuali sarebbero state molto più alte nei Paesi vicini?
Per cercare di cogliere le motivazioni che hanno spinto l’elettorato a respingere l’iniziativa UDC mi sembra opportuno ricordare che nella votazione del 28 novembre 2010, vertente anch’essa sull’espulsione dei criminali stranieri (ma senza esigere l’automatismo), il popolo svizzero aveva accettato con la maggioranza del 52,9% l’oggetto in votazione.
Poiché a proporre entrambe le iniziative sono state le stesse forze politiche, con in testa l’UDC, il diverso risultato del 2010 e del 2016 mi fa dire anzitutto che il popolo svizzero non è condizionato dai partiti e non è sempre disposto a premiare il partito di maggioranza (alle ultime elezioni dello scorso anno l’UDC è risultato il primo partito svizzero), ma giudica e decide con la testa non con la pancia, alla luce di molteplici considerazioni.

Motivi del rigetto
E’ probabile, per esempio, che la maggioranza dei votanti abbia ritenuto sufficiente la decisione del 2010 (che prevedeva leggi, ordinanze d’applicazione e decisioni dei tribunali per attuare un’espulsione) ed esagerata la proposta del 2016 di inserire nella Costituzione una sorta di espulsione automatica (per certe tipologie di reati, anche di lieve gravità se ripetuti). Se ciò fosse vero (e personalmente ne sono convinto) sbaglierebbe chi pensasse a una sorta di addolcimento del popolo svizzero nei confronti dei criminali stranieri, come se avesse cambiato idea in questi ultimi anni nei loro confronti. L’elettorato che si è recato a votare sapeva infatti benissimo, anche perché la ministra della giustizia Simonetta Sommaruga l’ha ripetuto più volte, che sta per entrare in vigore una legge federale sulle espulsioni tra le più severe in Europa. Proprio per questo ha ritenuto inutile e forse dannosa la nuova iniziativa dell’UDC.
Credo inoltre che il popolo svizzero, notoriamente moderato e sostanzialmente conservatore, non ami affatto tutte quelle proposte innovative che potrebbero sconvolgere la vita sociale o le istituzioni consolidate da tempo. Certamente molti dei votanti hanno ritenuto che l’accettazione dell’iniziativa dell’UDC avrebbe significato esautorare in qualche modo la magistratura, attentare ai principi dello Stato di diritto (fondato sulla separazione dei poteri), sfiduciare lo stesso Parlamento incaricato di approvare una giusta legge di applicazione dell’iniziativa approvata nel 2010, esporre la Svizzera a molte critiche da parte di importanti istituzioni internazionali, ecc.
Sono anche convinto che almeno una parte di coloro che hanno respinto l’iniziativa hanno valutato anche il rischio di compromettere, se fosse stata accettata, la politica d’integrazione che le istituzioni svizzere (Confederazione, Cantoni e Comuni) stanno portando avanti da almeno una ventina d’anni con indubbi successi. Molti gruppi di popolazione straniera (e metterei ai primi posti gli italiani) non solo sono ben integrati, ma si sentono corresponsabili del futuro della Svizzera.

Il futuro esige maggiore integrazione e collaborazione
Se dopo la bocciatura dell’iniziativa UDC si può tirare un sospiro di sollievo da parte dell’elettorato moderato e maggiormente aperto agli stranieri, non credo che si possa da nessuna parte (politica) gridare alla vittoria, perché se si è evitato il peggio, non è detto che il futuro sia ormai definitivamente privo di ostacoli.
Intanto non va sottovalutata la forza dell’UDC che conserva un solido radicamento nell’elettorato svizzero e incontra ancora molti consensi (a favore dell’iniziativa si è espresso oltre il 40% dei votanti, ossia una percentuale che va ben oltre la consistenza degli elettori del 2015 che hanno portato l’UDC ad essere il primo partito della Svizzera). Inoltre si può stare certi che questa forza verrà utilizzata per vigilare sull’applicazione della legge sulle espulsioni, non certo per evitarle.
Resta pertanto ancora molto da fare per una convivenza serena e collaborativa e tutti, svizzeri e stranieri, dovrebbero contribuire a sviluppare ulteriormente la politica d’integrazione, stimolare il senso di appartenenza e di collaborazione, restare uniti perché la Svizzera prossimamente sarà chiamata a una grande prova di compattezza e di solidarietà nelle trattative con l’Unione europea.
Giovanni Longu
Berna, 1° marzo 2016

23 febbraio 2016

Iniziativa per l’attuazione: ingiustificata e odiosa!


E’ auspicabile che il popolo svizzero il prossimo fine settimana (28 febbraio 2016) dimostri chiaramente quanto sia ingiustificata e odiosa l’iniziativa per l’attuazione dell’espulsione dei criminali stranieri.

L’iniziativa mi pare ingiustificata perché la materia è già disciplinata esaustivamente dalla legge e i tribunali sono i soli competenti per la sua applicazione. Occorre anche tener conto che qualsiasi legge ha attenuanti e aggravanti e solo i giudici possono valutare la gravità del reato commesso e commisurare la pena da infliggere al condannato.
Accettando l’iniziativa si sottrarrebbe al giudice ordinario la pienezza delle sue prerogative. Inoltre, nel caso di reati gravi, i giudici sarebbero obbligati ad espellere lo straniero «a prescindere dall’entità della pena inflitta» e persino nel caso di reati minori se ripetuti nell’arco di dieci anni.
L’espulsione quale pena accessoria deve poter essere inflitta caso per caso, ma dev’essere il giudice a deciderla in base alle sue opportune valutazioni. Guai, per uno Stato di diritto – e la Svizzera lo è - se il giudice venisse privato di questo potere.
L’iniziativa è anche particolarmente odiosa, dal punto di vista dei cittadini immigrati o rifugiati e, si spera, della maggioranza del popolo svizzero, perché presuppone ancora una concezione dello straniero già superata da tempo. Era la concezione, tanto per intenderci, di Schwarzenbach e seguaci, secondo cui gli stranieri in questo Paese potevano restare finché servivano e si comportavano bene e dovevano andarsene quando non servivano più o non erano più graditi, secondo il motto «braccia sì, uomini no» (film del 1970), che richiamava la celebre frase di Max Frisch: «Abbiamo chiamato braccia… e sono venuti uomini» (1965). Da allora però sono passati, si spera non invano, cinquant’anni.
Andrebbe inoltre ricordato ai sostenitori dell’iniziativa che gli stranieri residenti non sono più solo numeri o solo braccia da sfruttare, ma persone titolari di tutti i diritti, tranne quelli politici, spettanti ai cittadini di questo Paese, in cui vivono, pagano le tasse e si comportano come loro. Non sarebbe giusto se dovessero pagare, anche penalmente, più dei cittadini svizzeri. Pertanto nei loro confronti si deve applicare né più né meno la stessa giustizia applicata ai cittadini svizzeri. La giustizia è raffigurata bendata proprio perché non fa e non deve fare distinzione in base alla nazionalità, alla provenienza o al colore della pelle. La giustizia è uguale per tutti.
Sono fiducioso. Non penso che la maggioranza del popolo svizzero sia rimasta ferma all’epoca della xenofobia imperante o che sia disposta a rinnegare gli indubbi progressi compiuti nel campo del rispetto e dell’integrazione degli stranieri. Tanto più che, accettando l’iniziativa, rinnegherebbe la stessa democrazia diretta, di cui a giusta ragione gli svizzeri vanno fieri, perché significherebbe lasciarsi manipolare facilmente e soccombere allo strapotere di una sola parte, populista e certamente minoritaria nel Paese.
Giovanni Longu

22 febbraio 2016

Italiani in Svizzera: da manovali a eccellenze



Sabato scorso 20.2.2016 si è conclusa a Grenchen, al Kultur-Historisches Museum, alla presenza di un pubblico folto e interessato, la Mostra fotografica sull’Emigrazione italiana, visitata in pochi mesi da centinaia di visitatori. La mostra, organizzata da un gruppo misto italo-svizzero guidato da Salvatore Faga, presentava uno spaccato di vita quotidiana, lavorativa, formativa e associativa di generazioni di immigrati italiani nella regione. Aveva un titolo significativo: «Si pensava di rimanere poco», che lascia facilmente intuire il seguito «e invece...). Per l’occasione sono stato invitato a tenere una relazione con un titolo non meno significativo e più esplicito: «Italiani in Svizzera: da manovali a eccellenze».

Una metafora della lunga storia dell’immigrazione italiana in Svizzera
Prendendo lo spunto dall’immagine di due bandiere, quella italiana e quella svizzera, che mosse dal vento sembrano toccarsi, scontrarsi, baciarsi, intrecciarsi e confondersi, ho cercato di tracciare un percorso a volo d’uccello della lunga e avvincente storia dell’immigrazione italiana in Svizzera di quasi 150 anni «da manovali a eccellenze».
Commentando il titolo della mostra fotografica ho detto che la verità nascosta nell’espressione «si pensava di rimanere poco» è che agli immigrati, soprattutto dal 1946 fino all’abolizione dello statuto stagionale (2002), non era possibile scegliere o prolungare a piacere la durata del soggiorno. Gli immigrati erano essenzialmente «braccia», che servivano fintanto che l’economia ne aveva bisogno. Per questo erano soprattutto «stagionali» e «manovali».
Esisteva la possibilità di restare in Svizzera più a lungo, ma il percorso tracciato dalla legge federale sugli stranieri del 1931 (permesso stagionale, permesso annuale, permesso di domicilio) era reso estremamente lento e difficile dalla politica svizzera (leggi e regolamenti), dalla xenofobia diffusa (Schwarzenbach e seguaci), dalla politica italiana (indifferente e impotente), ma anche dall’impreparazione degli stessi immigrati.
Di fronte a tante sofferenze fisiche e morali, gli italiani hanno cercato e trovato rifugio nell’associazionismo, che ha rappresentato per tanti immigrati la salvezza (contro la solitudine, la depressione, ecc.), ma per molti altri un freno all’integrazione.
Solo negli anni ’70 avvenne la svolta della politica svizzera ormai sempre più orientata verso l’integrazione. Molti immigrati italiani erano coinvolti grazie ai loro figli (seconda generazione) che sempre più numerosi frequentavano la scuola pubblica, parlavano la lingua locale, frequentavano un apprendistato… cominciavano ad integrarsi.
Ciononostante, nel 1970 la situazione era ancora poco rassicurante. Su una popolazione di 583.850 persone, il 65,6% aveva appena terminato la scuola obbligatoria, solo il 15,8% aveva un diploma di grado secondario superiore (liceo o scuola di formazione professionale) e il 2,8% una formazione di grado universitario. Pochissimi avevano una qualifica professionale. Non c’è da meravigliarsi se per il 98% gli italiani svolgeva un lavoro dipendente.

Verso la piena integrazione
Dovranno passare trent’anni per raggiungere una situazione confortevole. Infatti, in base ai dati del censimento federale della popolazione del 2000, su 322.203 italiani (con la sola nazionalità italiana), solo il 36% non era andato oltre la formazione obbligatoria, mentre il 54% aveva una formazione post-obbligatoria e il 10% una formazione universitaria. La situazione era molto più lusinghiera tra gli italiani in età dai 20 ai 24 anni naturalizzati perché avevano in generale un grado di formazione più elevato sia rispetto ai non naturalizzati che ai coetanei svizzeri, soprattutto a livello di maturità e università.
Nel 2000 la situazione risultava notevolmente migliorata anche sul piano professionale. Al censimento risultavano infatti oltre 1000 ingegneri italiani, quasi 400 informatici, 250 insegnanti universitari o in istituti superiori, oltre 150 medici, alcune centinaia tra fisici, matematici, chimici, ecc. Ormai gli italiani erano presenti in quasi tutti i gruppi professionali (industria, commercio, banche, assicurazioni, insegnamento, ricerca, ecc.) e a tutti i livelli gerarchi, compreso il management superiore.
Dal 2000 in poi la situazione appare ulteriormente migliorata e non è più una rarità come nell’Ottocento-inizio Novecento trovare tra gli italiani, di nazionalità o di origine, vere e proprie eccellenze. Giusto qualche nome a titolo di esempio: Fratelli Gianadda, Cecilia Bartoli, Fabian Cancellara, Adriano Aguzzi, Giuseppe Bertarelli, Antonio Loprieno, Lino Guzzella, Bruno Ganz, Heidi Travaglini, Bruno Giussani, Fabiola Gianotti.
L’attuale situazione degli italiani non può che essere di buon auspicio per il futuro, ma credo che ci sia ancora molto lavoro da fare per tutti se veramente e come merita l’italianità rimanga e si sviluppi come una componente vitale della società e della cultura svizzera.
Giovanni Longu
Berna 22.2.2016


17 febbraio 2016

Capire la Svizzera: 16. Plurilinguismo e multiculturalismo




Il plurilinguismo è un vanto per la Svizzera e per questa sua caratteristica è vista spesso come un modello di tolleranza e d’integrazione. Effettivamente, nonostante le difficoltà note o immaginabili di convivenza e soprattutto di collaborazione tra persone di lingue diverse, non si può negare una sostanziale pace linguistica, che dura praticamente dall’inizio della moderna Confederazione. Questa convivenza «pacifica» non è di poco conto se si pensa che spesso alle differenze linguistiche, che possono generare da sole incomprensioni e contrasti, si aggiungono differenze culturali, sensibilità politiche diverse, diversi stili di vita e di comportamento, ecc.

Il plurilinguismo è congenito e solido
Conoscendo la Svizzera, la sua storia, la sua volontà di essere nazione, il suo federalismo, non dovrebbe sfuggire l’importanza del plurilinguismo quale caratteristica genetica assurta a simbolo identitario della moderna Confederazione (dal 1848).
Sebbene la vecchia Confederazione sia stata fino al 1798 esclusivamente germanofona», già al tempo della Repubblica elvetica (1798-1803) le leggi venivano stilate in tedesco, francese e italiano. Non si può dunque affermare che nel 1848 la Svizzera è diventata «uno Stato plurilingue per caso», come mi è capitato di leggere. Il plurilinguismo non fu né una costruzione artificiale né una sovrastruttura imposta dai vincitori della guerra del Sonderbund, ma una realtà, che la Costituzione federale si limitò a confermare come conseguenza dell’uguaglianza di tutti i Cantoni.
Alla nascente Confederazione ciascun Cantone portò in dote fra l’altro la propria lingua; il Ticino portò l’italiano. A giusta ragione, dunque la Costituzione federale del 1848 confermava: «Le tre lingue principali della Svizzera, la tedesca, la francese e l’italiana sono lingue nazionali della Confederazione», anche se può sorprendere che l’articolo sulle lingue sia stato relegato in un capitolo intitolato «Disposizioni diverse».
Quando si discute di plurilinguismo e si denuncia per esempio una certa disattenzione delle autorità federali ai problemi delle lingue minoritarie o quando, soprattutto in ambito italofono, si costata abbastanza passivamente il progressivo deterioramento della lingua di Dante nella Svizzera tedesca e francese, non bisognerebbe mai dimenticare che il plurilinguismo è congenito alla Confederazione, che tutte le lingue nazionali godono di pari dignità e che sono saldamente ancorate nella Costituzione federale. Non solo, esse sono anche presenti nella percezione del popolo svizzero (basta sostare in qualunque piazza, entrare nei ristoranti, salire su un tram o saltare da un canale televisivo all’altro) e sono in realtà più conosciute (magari come lingue seconde o terze) di quel che le statistiche lasciano talvolta intendere.

Il plurilinguismo va curato
Il plurilinguismo praticato è tuttavia altra cosa dal suo ancoraggio costituzionale o dalla semplice percezione ed è a questo riguardo che pone seri problemi. L’esperienza insegna che anche in un gruppo plurilingue, la comunicazione tra gli individui che ne fanno parte avviene quasi sempre in una sola lingua e questa è generalmente quella della maggioranza. Le lingue minoritarie incontrano sempre più ostacoli ad essere insegnate e praticate al di fuori della propria regione linguistica. A soffrirne non è tuttavia solo il plurilinguismo, ma la comunicazione in generale e il comune senso di appartenenza alla medesima nazione. A soffrirne di più è però la lingua italiana, non certo per una fatalità o un destino avverso, ma per incapacità e forse per incuria.
Seguendo l’andamento statistico della conoscenza e dell’uso delle lingue nazionali dal 1941 al 2000 è facile osservare una sostanziale tenuta delle tre lingue principali, garantita dall’assenza di variazioni rilevanti all’interno delle rispettive regioni linguistiche, anche se il tedesco ha perso, tra il 1941 e il 2000, più di otto punti percentuali (dal 72,6% al 64.2%) e l’italiano è leggermente progredito (dal 5,2% al 6.5%).
Quanto all’italiano è interessante, tuttavia, osservare l’andamento sorprendente avuto nel periodo considerato. Infatti, nell’arco di due soli decenni è balzato dal 5,9% (1950) all’11,9% (1970). Com’è noto, l’incremento è dovuto essenzialmente all’immigrazione italiana del dopoguerra (gli italiani residenti passarono nello stesso periodo da 140.366 a 583.855). Quando negli anni ’70 il saldo migratorio degli italiani cominciò ad essere negativo, anche la percentuale degli italofoni cominciò a diminuire fino al dato citato del 2000.
L’andamento dell’italiano pone tuttavia almeno due interrogativi. Primo: perché gli interessati alla valorizzazione dell’italiano (e penso soprattutto ai responsabili politici ticinesi e all’amministrazione italiana) non hanno saputo approfittare del momento favorevole e irripetibile, avendo a disposizione una massa critica considerevole, per di più concentrata nelle grandi città dell’Altipiano? Secondo: è possibile rimediare agli errori del passato, rafforzando la lobby creata a Berna nel 2012 per l’italianità, coinvolgendo maggiormente le seconde e terze generazioni degli immigrati italiani, sensibilizzando l’opinione pubblica svizzera sui valori del plurilinguismo e dell’italianità?
Dovrebbe essere di grande aiuto e incoraggiamento sapere che il plurilinguismo svizzero è vivo e attivo, anche se bisogna averne sempre cura.
Giovanni Longu
Berna, 17.2.2016

10 febbraio 2016

Capire la Svizzera: 15. Ricerca, innovazione e collaborazione le carte vincenti



Quando la Confederazione Svizzera si diede la prima Costituzione federale (1848) si diede anche come obiettivo primario il raggiungimento della «comune prosperità». I costituenti dovettero tuttavia costatare subito il divario economico e sociale esistente rispetto ai principali Stati europei dov’era in atto da tempo l’industrializzazione: Inghilterra, Francia e Germania. Competere con questi Paesi dovette apparire assai difficile, ma non impossibile, benché la Svizzera partisse molto svantaggiata, non disponendo né delle materie prime che essi possedevano in grande quantità né delle conoscenze necessarie (know-how). A distanza di oltre un secolo e mezzo si può tranquillamente affermare che quella sorta di sfida fu vinta: la «comune prosperità» è stata ampiamente raggiunta e la Confederazione attraverso un solido sistema formativo di alto profilo ha collocato la Svizzera ai primi posti nel mondo per la ricerca, lo sviluppo e l’innovazione.

Compito chiaro, ma difficile da realizzare
Il compito assegnato dalla Costituzione alla nuova Confederazione era chiaro: favorire il progresso e sviluppare le conoscenze necessarie. Dato il punto di partenza di relativa arretratezza, la strada da percorrere non dev’essere stata tuttavia né breve né facile. La Confederazione non poteva scavalcare le competenze dei Cantoni né sostituirsi ad essi in materia di formazione né ostacolare in campo economico la libertà di commercio e di industria dei cittadini garantita costituzionalmente.
Alla Confederazione restava, oltre a una competenza generale di coordinamento e una competenza propria di istituire il Politecnico federale, il compito non facile di «promuovere la comune prosperità». In altre parole, doveva creare le condizioni quadro perché l’istruzione fosse generale e di buon livello e l’economia potesse svilupparsi liberamente, sia pure nel solco tracciato dalla Costituzione, ossia tenendo conto che lo sviluppo economico dev’essere sostenibile e responsabile «verso le generazioni future» e che «la forza di un popolo si commisura al benessere dei più deboli dei suoi membri» (Preambolo della Cost. vigente).

Avvio promettente prima della crisi
Per la Confederazione, almeno inizialmente, si trattò soprattutto di eliminare alcuni vincoli interni come i dazi e le dogane per favorire la formazione di un mercato interno unico con una moneta unica e regole minime valide per tutti. Ben presto, tuttavia, si dovette affrontare insieme (Cantoni, Confederazione, banche, economia privata) il problema dei trasporti, indispensabili per lo sviluppo del Paese e le comunicazioni con i Paesi vicini. Altra sfida superata: in pochi decenni la Svizzera riuscì a darsi una delle reti ferroviarie e stradali più fitte ed efficienti d’Europa.
Già all’inizio della prima guerra mondiale la Svizzera aveva un’economia florida. La produzione industriale era in rapida crescita, il turismo interno e internazionale fioriva, le esportazioni contribuivano ad innalzare di un terzo il reddito della popolazione. Secondo alcune stime, la Svizzera superava l’Inghilterra e la Germania per valore di esportazioni pro capite di macchine e altri prodotti industriali. Il benessere si diffondeva tra la popolazione.
Durante la prima guerra mondiale, sebbene la Svizzera non partecipasse al conflitto in forza della sua neutralità, risentì fortemente della sua condizione di Paese interamente circondato da Stati belligeranti soprattutto nelle esportazioni e importazioni. Le difficoltà economiche inasprirono i contrasti sociali, soprattutto tra la classe operaia e alcuni imprenditori che avevano tratto enormi profitti dall’economia di guerra, che sfociarono nel famoso sciopero generale del 1918, fatto cessare con l’intervento dell’esercito che provocò quattro morti.
La chiusura lampo, un'invenzione svizzera.
Tra le due guerre mondiali la Svizzera attraversò un lungo periodo di crisi caratterizzato dal perdurare dei contrasti interni, dalla depressione degli anni ’30, dall’aggravarsi della disoccupazione (da 8000 disoccupati nel 1929 si era passati a 93’000 nel 1936) e dall’incertezza del dopoguerra. Per rasserenare il clima sociale e attenuare la contrapposizione tra i partiti borghesi e le sinistre, sindacati e datori di lavoro delle industrie meccanica e metallurgica sottoscrissero il 19.7.1937 un accordo, noto come pace del lavoro. Con esso le parti contraenti s’impegnavano a risolvere i conflitti lavorativi mediante negoziati, rinunciando alle tradizionali forme di lotta quali scioperi e serrate. Il clima sociale migliorò.

Nuovo slancio dopo il 1945
Finita la seconda guerra mondiale, la Svizzera si trovò in una condizione di vantaggio rispetto a tutti i Paesi vicini (che dovevano pensare anzitutto alla ricostruzione e abbisognavano di molti beni di consumo e strumentali) e non perse l’occasione per riprendere con slancio tutte le attività produttive che aveva dovuto ridurre prima. Per far fronte alla domanda crescente di beni e servizi proveniente dall’interno e da numerosi Paesi, già dalla fine del 1945 si rese conto di aver bisogno di molta manodopera generica e qualificata, che non aveva ma che poteva far arrivare dall’estero, soprattutto dall’Italia.
Per alcuni decenni la Svizzera beneficiò della congiuntura favorevole e presto divenne uno dei Paesi più progrediti e ricchi del mondo. Molto superficialmente si è pensato talvolta che il benessere della Svizzera sia dipeso dalle disgrazie altrui, dallo sfruttamento della manodopera estera come pure da un uso spregiudicato del segreto bancario, mentre le vere ragioni del benessere svizzero vanno cercate altrove, senza con ciò assolvere nella maniera più assoluta quanti hanno approfittato delle disgrazie altrui, della manodopera a buon mercato e abusato del segreto bancario.
Alla base del successo svizzero ci sta, a mio parere, anzitutto la capacità, la costanza e la risolutezza della classe politica svizzera dal 1848 ad oggi nell’attuazione del dettato costituzionale che impone alla Confederazione di promuovere la «comune prosperità». Va dato merito al Consiglio federale e al Parlamento di aver saputo creare nel tempo condizioni quadro perché l’economia evolvesse secondo le leggi del mercato, ma anche tenendo conto delle esigenze sociali attuali e future. I risultati, mi sembra, premiano globalmente l’attività del Governo e del Parlamento svolta finora.
La carta di alluminio, un'altra invenzione svizzera
Sarebbe tuttavia un errore attribuire il merito dell’attuale prosperità solo alla politica. Non vanno infatti dimenticati i veri protagonisti del successo svizzero, ossia gli svizzeri e quanti insieme a loro hanno saputo trasformare le materie prime in prodotti ad alto valore aggiunto, hanno creato ogni sorta di manufatti, si sono immersi nella ricerca, quella fondamentale e quella applicata, hanno inventato nuovi prodotti e nuove tecnologie, hanno contribuito alla diffusione del benessere e continuano incessantemente nella formazione, nella ricerca, nell’innovazione. Svizzeri e stranieri, in efficace sinergia, anche se non sempre armoniosa, sono i veri artefici del benessere svizzero.

Sinergie tra svizzeri e stranieri
A conferma di questa sinergia basterebbe ricordare la realizzazione delle maggiori infrastrutture (ferrovie, strada, autostrade, ponti, edilizia, riassetto urbanistico di molte città, ecc.), l’attività nelle grandi fabbriche di ogni tipo di produzione e nei servizi di ogni genere, ma anche l’intensa collaborazione nei centri di ricerca e di sviluppo, pubblici e privati. Bastano pochi nomi per dare l’idea della dimensione e dell’intensità dell’apporto di ingegno e d’imprenditorialità di molti stranieri allo sviluppo economico della Svizzera: Julius Maggi, Henry Nestlé, Carl Franz Bally, Karl Albert Wander, Charles Brown e Walter Boveri, Nicolas Hayek, Ernesto Bertarelli, ecc.
Il primo orologio da polso fu creato in Svizzera nel 1910
 per la regina di Napoli, Carolina Bonaparte
In questo contesto favorevole, che oltre che sulle sinergie tra svizzeri e stranieri si basa, soprattutto, sulle sinergie tra pubblico e privato, sono nate anche innumerevoli invenzioni, molte delle quali sono conosciute quasi esclusivamente in ambito scientifico e tecnologico, altre, pur essendo divenute di uso quasi quotidiano, non sono per nulla o poco conosciute dal grande pubblico.
Oltre a grandi scoperte come il motore a scoppio per le automobili, la turbina idraulica, la turbina a vapore, la turbina a gas, la sintesi delle vitamine, i nano robot, il rilevatore delle vittime di valanghe, ecc. meritano qui un accenno alcune invenzione che si sono rivelate di grande utilità pratica. Si pensi, per esempio, al latte in polvere, ai prodotti Maggi, al caffè solubile (Nescafé), alle capsule per il caffè Nespresso, all’orologio da polso, al swatch, alla cerniera lampo, alla chiusura a strappo velcro, alla carta di alluminio, al cellofan, alla catena della bicicletta, al pelapatate, allo stendibiancheria ad ombrellone, all’anitra WC, ecc.

La ricerca continua
Quando si discute di immigrazione e in generale di stranieri, talvolta con atteggiamenti di superiorità o comunque inappropriati, bisognerebbe ricordarsi che senza immigrati, magari prontamente naturalizzati, l’economia svizzera sarebbe evoluta diversamente, il benessere non avrebbe raggiunto l’ampiezza e il livello attuali e anche la ricerca e l’innovazione non occuperebbero le posizioni avanzate che detengono.

Quanto al futuro è rassicurante che il presidente della Confederazione Schneider-Ammann anche recentemente abbia confermato che «il mantenimento della posizione di punta della Svizzera nel campo dell'educazione, della ricerca e dell'innovazione resta una priorità del Consiglio federale», ma per esserne certi bisognerà che la Svizzera non esca dal quadro europeo della ricerca e faccia chiarezza sui suoi rapporti con l’Unione europea.
Una delle chiavi del successo svizzero dovrà essere anche in futuro la sinergia tra svizzeri e stranieri (integrazione) e l’intesa tra Svizzera e Unione europea. Nessun’altra strada dà maggiori garanzie.
Giovanni Longu
Berna, 10.02.2016