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Il plurilinguismo è congenito e solido
Conoscendo la Svizzera, la sua storia, la sua
volontà di essere nazione, il suo federalismo, non dovrebbe sfuggire
l’importanza del plurilinguismo quale caratteristica genetica assurta a simbolo
identitario della moderna Confederazione (dal 1848).
Sebbene la vecchia Confederazione sia stata
fino al 1798 esclusivamente germanofona», già al tempo della Repubblica
elvetica (1798-1803) le leggi venivano stilate in tedesco, francese e italiano.
Non si può dunque affermare che nel 1848 la Svizzera è diventata «uno Stato
plurilingue per caso», come mi è capitato di leggere. Il plurilinguismo non fu
né una costruzione artificiale né una sovrastruttura imposta dai vincitori
della guerra del Sonderbund, ma una realtà, che la Costituzione federale
si limitò a confermare come conseguenza dell’uguaglianza di tutti i Cantoni.
Alla nascente Confederazione ciascun Cantone
portò in dote fra l’altro la propria lingua; il Ticino portò l’italiano. A
giusta ragione, dunque la Costituzione federale del 1848 confermava: «Le tre
lingue principali della Svizzera, la tedesca, la francese e l’italiana sono
lingue nazionali della Confederazione», anche se può sorprendere che l’articolo
sulle lingue sia stato relegato in un capitolo intitolato «Disposizioni
diverse».
Quando si discute di plurilinguismo e si
denuncia per esempio una certa disattenzione delle autorità federali ai
problemi delle lingue minoritarie o quando, soprattutto in ambito italofono, si
costata abbastanza passivamente il progressivo deterioramento della lingua di
Dante nella Svizzera tedesca e francese, non bisognerebbe mai dimenticare che
il plurilinguismo è congenito alla Confederazione, che tutte le lingue
nazionali godono di pari dignità e che sono saldamente ancorate nella
Costituzione federale. Non solo, esse sono anche presenti nella percezione del
popolo svizzero (basta sostare in qualunque piazza, entrare nei ristoranti,
salire su un tram o saltare da un canale televisivo all’altro) e sono in realtà
più conosciute (magari come lingue seconde o terze) di quel che le statistiche
lasciano talvolta intendere.
Il plurilinguismo va curato
Il plurilinguismo praticato è tuttavia altra
cosa dal suo ancoraggio costituzionale o dalla semplice percezione ed è a
questo riguardo che pone seri problemi. L’esperienza insegna che anche in un
gruppo plurilingue, la comunicazione tra gli individui che ne fanno parte
avviene quasi sempre in una sola lingua e questa è generalmente quella della
maggioranza. Le lingue minoritarie incontrano sempre più ostacoli ad essere
insegnate e praticate al di fuori della propria regione linguistica. A
soffrirne non è tuttavia solo il plurilinguismo, ma la comunicazione in
generale e il comune senso di appartenenza alla medesima nazione. A soffrirne
di più è però la lingua italiana, non certo per una fatalità o un destino
avverso, ma per incapacità e forse per incuria.
Seguendo l’andamento statistico della
conoscenza e dell’uso delle lingue nazionali dal 1941 al 2000 è facile
osservare una sostanziale tenuta delle tre lingue principali, garantita
dall’assenza di variazioni rilevanti all’interno delle rispettive regioni
linguistiche, anche se il tedesco ha perso, tra il 1941 e il 2000, più di otto
punti percentuali (dal 72,6% al 64.2%) e l’italiano è leggermente progredito
(dal 5,2% al 6.5%).
Quanto all’italiano è interessante, tuttavia,
osservare l’andamento sorprendente avuto nel periodo considerato. Infatti,
nell’arco di due soli decenni è balzato dal 5,9% (1950) all’11,9% (1970). Com’è
noto, l’incremento è dovuto essenzialmente all’immigrazione italiana del
dopoguerra (gli italiani residenti passarono nello stesso periodo da 140.366 a 583.855). Quando negli anni ’70 il saldo migratorio degli italiani
cominciò ad essere negativo, anche la percentuale degli italofoni cominciò a
diminuire fino al dato citato del 2000.
L’andamento dell’italiano pone tuttavia almeno
due interrogativi. Primo: perché gli interessati alla valorizzazione
dell’italiano (e penso soprattutto ai responsabili politici ticinesi e
all’amministrazione italiana) non hanno saputo approfittare del momento
favorevole e irripetibile, avendo a disposizione una massa critica
considerevole, per di più concentrata nelle grandi città dell’Altipiano? Secondo:
è possibile rimediare agli errori del passato, rafforzando la lobby creata a
Berna nel 2012 per l’italianità, coinvolgendo maggiormente le seconde e terze
generazioni degli immigrati italiani, sensibilizzando l’opinione pubblica
svizzera sui valori del plurilinguismo e dell’italianità?
Dovrebbe essere di grande aiuto e
incoraggiamento sapere che il plurilinguismo svizzero è vivo e attivo, anche se
bisogna averne sempre cura.
Giovanni Longu
Berna, 17.2.2016
Berna, 17.2.2016
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