26 febbraio 2014

Democrazia diretta, un esempio per l’Europa? E per l'Italia?


All’indomani delle votazioni federali del 9 febbraio 2014 le prime reazioni dei media svizzeri sono state anzitutto di sorpresa. E’ vero che molti osservatori facevano notare alla vigilia del voto che il rigetto dell’iniziativa popolare promossa dalla destra nazionalista non era affatto scontato, tuttavia la maggioranza di essi lo dava più che probabile. Superata la sorpresa iniziale, i commentatori si sono sbizzarriti sulle conseguenze negative del voto, soprattutto nei rapporti Svizzera-UE. Nessuno, tuttavia, ha osato mettere in dubbio la democrazia diretta svizzera. Da ogni parte, anche quella dei convinti sostenitori della libera circolazione, è stata riconosciuta non solo la piena legittimità del voto, ma anche la necessità di rispettarlo.

Né populismo né «suicidio collettivo»
Gli svizzeri, direi all'unanimità e a cominciare dalle autorità politiche, hanno dato un’ennesima prova di rispetto delle decisioni prese democraticamente, pur non condividendole nel merito. Al contrario, quasi tutta la stampa estera e anche alcuni tecnocrati dell’UE hanno accusato la Svizzera di populismo, di xenofobia e perfino di razzismo, preconizzando immani sciagure e ritorsioni da parte dell’UE. Un ministro francese ha addirittura qualificato il voto svizzero come un «suicidio collettivo», pronosticando per la Svizzera rappresaglie e il suo impoverimento.
Non so quale sia l’analisi giusta del voto del 9 febbraio scorso, ma credo che una decisione popolare vada comunque rispettata, tanto più se presa da un popolo che in fatto di democrazia non ha davvero nulla da invidiare almeno in Europa. In fondo, anche le critiche piovute dai vertici europei non fanno che confermare la bontà del metodo seguito in questo Paese.

Un esempio per l’Europa?
Il sospetto che la decisione presa dagli svizzeri faccia paura ai tecnocrati europei non è del tutto infondato. In effetti la democrazia diretta svizzera potrebbe essere contagiosa. In un primo tempo potrebbe addirittura incoraggiare gli euroscettici nelle prossime elezioni europee di maggio. In un secondo tempo potrebbe spingere altri popoli a rivendicare maggiori diritti popolari, compreso quello di recarsi alle urne quando siano in gioco interessi vitali del Paese.
Un maggior coinvolgimento del popolo sovrano nelle grandi decisioni dell’UE e dei singoli Stati potrebbe apparire inizialmente come un affronto nei confronti dei tecnocrati, ma alla lunga i benefici risulterebbero evidenti: maggior rispetto della volontà popolare, maggiore responsabilizzazione dei cittadini, minore supponenza e arroganza dei governanti, in una parola maggiore democrazia.

E per l’Italia?
Certamente un po’ più di democrazia servirebbe anche all’Italia. In questi ultimi anni i giochi di Palazzo non hanno certo portato bene al Paese. Non appena l’ultimo governo Berlusconi ha dato prova di non essere più in grado di reggere, la soluzione più democratica doveva essere il ricorso immediato alle urne, persino con una legge elettorale inadeguata e parzialmente incostituzionale.
E. Letta, G. Napolitano, M. Renzi
In alternativa, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano avrebbe potuto inviare un Messaggio alle Camere, com’è nei suoi poteri, per sollecitare l’approvazione di una nuova legge. Perché non l’ha fatto e ha preferito insediare direttamente dapprima Monti (con metodi apparsi quantomeno discutibili), poi Letta e ora Renzi? Quanto bisogna ancora aspettare prima che un governo sia il risultato di una consultazione popolare, forse non indispensabile ma certamente più democratica del metodo utilizzato in questi ultimi casi?
L’Italia sarà pure, secondo la Costituzione, una repubblica parlamentare, ma nella realtà appare sempre più come una repubblica presidenziale, in cui il Parlamento rischia di contare meno del Quirinale e addirittura di una segreteria di partito. E’ parlamentare e democratica l’ultima crisi di governo? In una democrazia come quella svizzera certamente non lo sarebbe e questa è forse una delle maggiori differenze tra la Svizzera e l’Italia. Più che una democrazia diretta quella italiana sembra una democrazia distorta. Non per nulla, nei confronti internazionali incentrati sull’indice di democrazia degli Stati, l’Italia è ultima tra i grandi Paesi occidentali.

Riavvicinare la politica alla gente
Nei media si parla spesso di distacco della gente dalla politica, ma forse si dovrebbe parlare di distacco della politica dalla gente. Da alcuni anni ormai la classe politica italiana non sembra più in grado di rappresentare le idee e le preoccupazioni dei cittadini e soprattutto si dimostra incapace anche solo di attenuare i disagi della crisi. Tutti dovrebbero trarne le conseguenze, dal Capo dello Stato ai singoli deputati.
Matteo Renzi
L’ultima speranza è ora rappresentata dal tentativo Renzi. Ce la farà? Non ce la farà? A parte gli auguri di rito per il bene del Paese, l’incertezza è giustificata dalla genericità del suo programma, dalla sua ambizione velleitaria di cambiare «radicalmente» il Paese, dalla eterogenea e debole maggioranza di cui dispone in Parlamento, soprattutto al Senato, ma anche dalle fibrillazioni in seno al suo stesso partito (PD), non da ultimo per il metodo con cui il Presidente del Consiglio dimissionario, Enrico Letta, è stato defenestrato, non certo un bell’esempio di democrazia, nemmeno per un conterraneo di Machiavelli per cui «il fine giustifica i mezzi».
Tanto varrebbe tornare quanto prima alle urne. Ad ogni buon conto, per il bene dell'Italia, tanti auguri al governo Renzi.

Giovanni Longu
Berna, 26.02.2014

Voto svizzero e Accordi bilaterali


In Svizzera le reazioni negative all'esito della votazione del 9 febbraio 2014, che ha approvato la limitazione dell’immigrazione di massa, lentamente si stemperano. Nessuno crede più che si sia trattato di una disfatta per la Svizzera e che non ci siano vie d’uscita. Persino in Europa nessuno fa più la voce grossa, anzi si levano voci autorevoli, a cominciare dalla Merkel, che lasciano intravedere possibili soluzioni. Certo, anche i vincitori della votazione si rendono conto che i rapporti con l’Unione Europea (UE) non saranno più gli stessi, ma si dimostrano nonostante tutto ottimisti.
I più ottimisti sono ovviamente i vincitori della consultazione popolare, l’Unione democratica di centro (UDC) e la Lega dei Ticinesi. Entrambe le organizzazioni si rendono conto che i prossimi negoziati con l’Europa e con l’Italia saranno tutt’altro che facili, ma sanno di potersi battere col sostegno del voto popolare, risicato a livello nazionale, molto ampio in Ticino.

Svizzeri decisi e ottimisti
L’UDC, per bocca soprattutto dello storico tribuno Christopf Blocher, pur ritenendo che la partita con l’UE sarà difficile, ritiene persino che alla fine la Svizzera potrebbe ritrovarsi più forte come accadde nel 1992, quando venne respinto l’accordo sullo Spazio economico europeo. Con la votazione del 9 febbraio, ritiene Blocher, la Svizzera si è riappropriata della propria sovranità, sottraendosi a quel «rapporto di tipo coloniale con l’UE», che subiva da tempo anche per la debolezza della classe politica svizzera al riguardo. Bruxelles deve ora prenderne atto e riprendere i negoziati.
E’ opinione diffusa che tra la Svizzera e l’Europa, appena saranno archiviate le reazioni a caldo (e soprattutto dopo le elezioni europee di maggio), riprenderà il dialogo perché tanti sono gli interessi comuni: oltre alla libera circolazione, la ricerca, il programma di scambi universitari Erasmus, il mercato dell’energia, il sistema dei trasporti transalpini, ecc. D’altra parte nessuno dà per scontato che la via degli accordi bilaterali sia esaurita.

Difficoltà con l’Italia
Anche con l’Italia, il dialogo dovrebbe riprendere quanto prima, ma non sarà facile trovare nuovi accordi accettabili da entrambe le parti, almeno in tempi brevi, come forse s’illudevano il ministro Saccomanni e lo stesso capo del governo Enrico Letta pochi mesi fa.
La speranza di un accordo con Berna «entro maggio», appare irrealistico. A meno che il nuovo governo italiano non imprima alla trattativa una forte accelerazione e si riesca a concludere almeno l’accordo sulla fiscalità entro maggio, quando è prevista la visita di Stato in Svizzera del presidente Giorgio Napolitano.
L’accordo sulla fiscalità, in effetti, sembra essere ormai a portata di mano, perché la Svizzera è disposta ad abbandonare il modello Rubik e ad accettare lo scambio automatico delle informazioni. Restano tuttavia numerosi dettagli, alcuni non di poco conto, che devono essere ancora regolati. La Svizzera chiede, ad esempio, di essere cancellata dalle «liste nere» italiane, dove figurano i Paesi ritenuti «canaglia» in ambito fiscale (i cosiddetti «paradisi fiscali») e la garanzia di poter partecipare al mercato finanziario italiano. Inoltre, non è ancora ben chiaro se il trattamento fiscale delle persone e delle imprese italiane con conti in Svizzera sarà o meno discriminatorio rispetto a persone e imprese con capitali nei Paesi dell’UE.

Il problema dei frontalieri
Le difficoltà maggiori nella trattativa con l’Italia non riguardano tanto il negoziato sulla fiscalità, quanto gli altri accordi in discussione, soprattutto quello sui frontalieri. La Lega dei Ticinesi, forte del consenso ottenuto in Ticino dal fronte dei sì all'iniziativa sulle limitazioni dell’immigrazione di massa (quasi il 70%), insiste perché si metta mano in tempi brevi alla trattativa, per chiudere definitivamente il contenzioso.
E’ probabile che questa volta l’attivismo dei ticinesi la spunti sul presunto immobilismo di Berna, che probabilmente ha sottovalutato la questione dei frontalieri. Oltretutto oggi la classe politica ticinese è compatta nel chiedere a Berna d’intervenire su Roma e di disdire l’accordo sui frontalieri del 1974 (anche se proprio ieri il Consiglio federale, per bocca della ministra delle finanze Widmer-Schlumpf, ha fatto sapere che intende migliorarlo ma non disdirlo). Si è parlato persino di bloccare i ristorni fiscali dei frontalieri all’Italia (ma il Consiglio federale si è detto contrario), di aumentare le imposte dei frontalieri, di intervenire subito sugli autonomi italiani, i cosiddetti «padroncini», di controllare meglio i flussi dei frontalieri, almeno fino a quando la crisi occupazionale italiana non si affievolirà, ecc.
A questo punto è difficile prevedere la conclusione dei vari negoziati, ma una cosa è certa: gli scambi tra l’Italia e la Svizzera (specialmente il Ticino) non cesseranno mai, anzi sono destinati a crescere. Basti pensare all’interscambio tra i due Paesi, ai trasporti, ai rapporti culturali, all’Expo 2015 di Milano, alla forte presenza italiana in Svizzera. Tanto varrebbe che il dialogo riprendesse immediatamente perché la soluzione dei problemi appare indispensabile e urgente.

Giovanni Longu
Berna, 26.02.2014