28 marzo 2012

Il principio della buona fede e l’articolo 18

Qualche settimana fa La Posta svizzera ha emesso un francobollo commemorativo in occasione del centenario dell’entrata in vigore (1° gennaio 1912) del Codice civile svizzero (CCS), che costituisce la base del diritto privato. Più volte modificato e adeguato alle nuove esigenze, non è mai stato revisionato integralmente, segno della sua adeguatezza ai tempi.

La validità di un codice è data soprattutto dalla sua capacità di rispondere efficacemente alle esigenze dei cittadini col mutare delle condizioni storiche. La capacità di adattamento e l’efficacia del CCS dipendono sicuramente da molteplici fattori quali la sua struttura, la ragionevolezza delle norme contenute e il grado di accettazione e di rispetto da parte dei cittadini; ma non c’è dubbio ch’esse dipendono anche dall’impostazione generale e dai principi che stanno alla base delle relazioni sociali e giuridiche.

Agire secondo la buona fede
Credo che La Posta svizzera, emettendo l’8 marzo scorso il francobollo commemorativo del centenario del CCS, abbia colto se non il fondamento certamente un principio fondamentale dello stesso codice, riproducendo nelle tre lingue ufficiali tedesco francese e italiano il primo capoverso dell’articolo 2 che recita:
«Ognuno è tenuto ad agire secondo la buona fede così nell’esercizio dei propri diritti come nell’adempimento dei propri obblighi».

La validità, tuttora incontestata, del CCS non dipende evidentemente solo dal principio della buona fede, ma sicuramente ne costituisce un solido fondamento. Esso stabilisce infatti che ogni cittadino è tenuto ad agire «secondo la buona fede», non solo «nell’esercizio dei propri diritti», ma anche «nell’adempimento dei propri obblighi». I comportamenti che chiamiamo abitualmente frode, inganno, raggiro, abuso sono contrari alla buona fede.
So benissimo che la buona fede come il suo contrario sono difficili da provare in un processo, ma è in ogni caso importante che il legislatore svizzero abbia ritenuto opportuno indicare proprio all’inizio del Codice civile che i comportamenti dei cittadini devono essere sempre ispirati dalla buona fede. Tanto è vero che, pur non essendo una norma, questo principio dev’essere tenuto in considerazione anche dal giudice ogniqualvolta un cittadino si ritenga danneggiato da un altro. Si deve infatti presupporre che ognuno agisca in buona fede, salvo la prova del contrario.
Non è questa la sede per approfondire temi di natura tecnico-giuridica quali la validità e l’efficacia di una norma o di un codice. Il mio intento è solo quello di presentare una riflessione, partendo dall’emissione di un francobollo, ma anche dalle interminabili discussioni di queste ultime settimane in Italia sulla riforma del mercato del lavoro e in particolare sulla modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Mi sono chiesto se i numerosi dibattiti su questo tema, per lo più inconcludenti, avrebbero avuto la stessa carica emotiva e lo stesso risultato se si fosse partiti dal presupposto della buona fede nei rapporti tra datori di lavoro e lavoratori. Un principio questo, si badi bene, non solo giuridico, ma anche di civiltà, perché considera fondamentalmente legittimi e onesti i comportamenti di tutti i cittadini, fino alla prova del contrario. Un principio fondamentale anche nelle relazioni di lavoro, perché sta alla base della collaborazione e del rispetto reciproco delle parti, condizione indispensabile, anche se non unica, del raggiungimento degli obiettivi dell’impresa e della realizzazione delle aspettative dei lavoratori.

Buona fede e articolo 18
Nelle discussioni nei media italiani sull’eventuale modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non ho mai sentito alcun riferimento al principio della buona fede. Anzi, soprattutto tra i fautori del mantenimento di quell’articolo, ho avuto la netta sensazione che si ragionasse ancora in base a uno schema di tipo manicheo, fatto di contrapposizioni tra bene e male, buoni e cattivi, virtuosi e corrotti e persino lavoratori e padroni. Gli oppositori al licenziamento per motivi economici con indennizzo ma senza reintegro mi sembrano mossi, più che da un interesse generale per «tutti» i lavoratori e per uno sviluppo economico «sostenibile», dal preconcetto che il datore di lavoro sia un possibile anzi probabile sfruttatore, pronto ad approfittare di questa possibilità di licenziare per camuffare altre inconfessabili motivazioni.
Ma si può continuare a vedere i problemi solo in termini di buoni-cattivi, onesti-disonesti? In Svizzera, dove l’articolo 18 non esiste e il licenziamento economico non prevede mai il reintegro, allo scopo di evitare possibili abusi il legislatore ha previsto in un articolo di legge la «protezione dal licenziamento» per presunta discriminazione o per motivi ingiustificati. Non basterebbe un articolo del genere anche in Italia per evitare ingiustificate e inutili contrapposizioni ideologiche?
Non so se la legislazione svizzera sia migliore di altre, ma non mi risultano «licenziamenti facili» a valanga, anche perché il sindacato prima del giudice veglia affinché non si verifichino abusi e quando accadono vengano sanzionati. Perché non dovrebbe essere possibile anche in Italia?

Giovanni Longu
Berna 28.03.2012

Italia-Svizzera : a quando la ripresa del dialogo?

A dar credito ad autorevoli voci nazionali e internazionali, l’Italia del secondo semestre dell’anno scorso sembrava dirigersi inesorabilmente sulla scia della Grecia verso la bancarotta. Personalmente non ho mai condiviso tanto pessimismo, anche se ritenevo allarmante il crescente divario tra l’Italia e i principali Paesi competitori europei. Ho pure sempre individuato nella cattiva politica la causa principale del mancato sviluppo dell’Italia negli ultimi decenni, per cui ho ben visto le iniziative del governo «tecnico» a guida Monti, anche se non mi hanno convinto del tutto la tempistica e l’ordine di priorità degli interventi.

Sul medio e lungo periodo ritengo tuttavia che il governo Monti riuscirà a «rimediare a molti mali fatti negli ultimi decenni» e a «mettere l'Italia sul sentiero della crescita e sulla diminuzione delle tasse», come annunciato recentemente dallo stesso premier . Soprattutto l’introduzione di alcune riforme strutturali riguardanti il sistema pensionistico, la flessibilità nel mercato del lavoro, le liberalizzazioni, il sistema fiscale e la lotta all’evasione sembrano dare speranza per la messa in sicurezza dei conti dello Stato e per un prossimo allineamento dell’Italia alle prestazioni dei Paesi europei più dinamici ed efficienti.
In questo sforzo di avvicinamento all’Europa del governo Monti ha certamente rappresentato uno stimolo l’esempio tedesco e il plauso delle principali istituzioni europee e internazionali. Proprio guardando all’esempio tedesco trovo alquanto sorprendente che l’Italia non abbia imitato la Germania (e la Gran Bretagna) nel tentativo di regolare bilateralmente i rapporti fiscali con la vicina Svizzera .

Peggioramento dei rapporti bilaterali
Come noto, la Gran Bretagna ha concluso giorni fa l’accordo con la Svizzera sul modello Kubik (di cui si è più volta parlato in questa rubrica) e anche la Germania si appresta a farlo, salvo imprevisti legati alla forte opposizione dei socialisti tedeschi. Resta comunque il fatto che il negoziato anche tra Germania e Svizzera è stato avviato e da entrambe le parti si nutre ottimismo circa la sua conclusione . Perché il governo Monti si ostina a non volerlo nemmeno iniziare?
La sorpresa è legittima anche alla luce dell’ottimo andamento degli scambi commerciali (l’interscambio aumenta costantemente e soprattutto l’export italiano «continua a correre» , come ha scritto recentemente un quotidiano ticinese). Ed è ancor più sorprendente che ciononostante l’Italia unilateralmente si ostini a tenere la Svizzera in una «black list», sebbene non rappresenti più un paradiso fiscale .
Sorprende e preoccupa questo atteggiamento di chiusura dell’Italia perché è facile osservare che le relazioni tra due Paesi tradizionalmente amici e solidali sono in continuo peggioramento . Cresce, soprattutto in Ticino, un sentimento antitaliano, che rischia di scaricarsi sulle decine di migliaia di lavoratori frontalieri. Nei loro riguardi sono ricomparsi titoli di giornale che richiamano il blocco della frontiera svizzera durante la guerra nei confronti degli ebrei in fuga: «Frontalieri, quando la barca è piena» (on. Lorenzo Quadri, Lega dei Ticinesi) . All’inizio di marzo è risuonato l’appello del Ticino alle autorità federali per una «reintroduzione dei contingenti» attivando una clausola prevista dagli Accordi bilaterali Unione Europea-Svizzera .
Praticamente non c’è più opposizione al mantenimento del blocco parziale del versamento all’Italia della parte d’imposta alla fonte prelevata sui salari dei frontalieri. A nulla sono valse finora le contrarietà del Consiglio federale a questa misura, che rischia di danneggiare ancora di più le relazioni bilaterali con l’Italia .

Il Consiglio nazionale sostiene il Ticino
E’ di qualche settimana fa l’approvazione da parte del Consiglio nazionale (contro il parere del Consiglio federale) di un’iniziativa del Cantone Ticino per una riduzione della percentuale di ristorno delle imposte dei frontalieri dal 38,8 al 12,5% (suscitando le ira dei Comuni lombardi e piemontesi della fascia di frontiera con la Svizzera). Si è voluto così lanciare un segnale forte all’Italia per il suo «atteggiamento ostile al libero mercato e alla reciprocità nel campo degli Accordi bilaterali» (on. Fulvio Pelli, presidente del PLR svizzero).
Le reazioni negative a questo stato di cose sono davvero tante. Credo che il governo Monti dovrebbe tenerne conto, pensando anche al mezzo milione di connazionali che in Svizzera si guadagnano degnamente da vivere e soffrono di questa mancanza di dialogo, che rende anche più difficile la collaborazione soprattutto per la valorizzazione dell’italianità.

Giovanni Longu
Berna, 28.03.2012