13 novembre 2018

150 anni di «amicizia» italo-svizzera: 1. Tutto cominciò nel 1868


I 150 anni di storia dell’immigrazione «regolare» italiana in Svizzera sono anche la storia di un lungo e difficile processo d’integrazione che ha portato al rafforzamento dell’italianità in questo Paese. Tutto è cominciato, ufficialmente, col «Trattato di domicilio e consolare tra la Svizzera e l’Italia» firmato a Berna il 22 luglio 1868. La sua importanza merita un approfondimento anche per far luce sull’origine e sulla natura dei flussi migratori tra i due Paesi. Molte narrazioni, infatti, hanno il difetto di dare a un fenomeno essenzialmente socio-economico, regolamentato da trattati e accordi internazionali, un’interpretazione ideologica con connotazioni moralistiche. Alcune precisazioni iniziali mi sembrano pertanto utili per comprendere meglio i successivi sviluppi di una storia complessa che dura da 150 anni.
Premesse fondamentali
1.     Per alcuni autori la storia dell’emigrazione/immigrazione italiana in Svizzera altro non sarebbe che un esempio di scontro tra capitalismo e proletariato, sfruttatori e sfruttati, bene e male, e non semplicemente uno scambio tra società con economie forti (imprese che domandano lavoro) e società con economie deboli (che offrono forze di lavoro) secondo le regole tipiche del mercato libero in cui domanda e offerta si richiamano reciprocamente e talvolta dialetticamente, con una tendenza a prevalere della prima sulla seconda quando vi è eccesso di offerta.
2.     Nelle visioni ideologiche di tipo manicheo (scontro tra bene e male) si dimentica, fra l’altro, che nelle migrazioni «regolari» c’è sempre un terzo elemento fondamentale che gestisce l’intermediazione: lo Stato, anzi gli Stati interessati. Si può ovviamente discutere sul ruolo avuto dall’Italia e dalla Svizzera nella gestione del fenomeno migratorio tra i due Paesi, ma senza lasciarsi andare ad affermazioni insostenibili come quelle, per citare un esempio recente, di Toni Ricciardi, secondo cui l’Italia dal secondo dopoguerra avrebbe messo in piedi «il più grande sistema di esportazione di donne e uomini, di braccia e cervelli che la storia occidentale ricordi» e la Svizzera avrebbe coltivato una vera e propria «industria degli stranieri».
3.     Spesso si dimentica anche che, se la libertà di emigrazione è uno dei diritti umani fondamentali, non lo è (ancora) quello di immigrare dove si vuole. «Emigrare dal proprio Stato non significa libertà di immigrare in un qualunque altro Stato. Ogni Stato mantiene ancora il controllo pieno del proprio territorio e dei suoi confini esterni» e pertanto «la libertà di emigrazione si può esercitare concretamente solo se vi siano altri Stati che consentano l’immigrazione» (Valerio Onida).
4.     Per far incontrare legittimamente le due libertà occorre sempre l’accordo tra gli Stati interessati. Tra la Svizzera e l’Italia esso venne negoziato già nei primi anni dopo l’unità (1861) e fu concluso il 22 luglio 1868 con la firma a Berna del «Trattato di domicilio e consolare tra la Svizzera e l’Italia». Con esso la migrazione verso l’Italia e verso la Svizzera otteneva per così dire il sigillo della «regolarità» giuridica.
5.     Infine mi sembra opportuno ricordare che, sebbene il Trattato in questione tra la Svizzera e l’Italia si inserisca nel genere dei «Trattati di amicizia», l’amicizia tra Stati ha ben poco in comune col «sentimento» di reciproca stima, fiducia e simpatia che lega le persone «amiche», anche se un po’ gli rassomiglia. Infatti, pur fondandosi su un sistema di valori condivisi, l’amicizia tra Stati esprime soprattutto «interessi reciproci», ma non necessariamente della stessa importanza per ogni contraente. Il Trattato del 1868 non faceva eccezione.

Rapporti bilaterali
Fatte queste premesse, viene da chiedersi perché la Svizzera e l’Italia cercarono un accordo sull’emigrazione in un momento in cui i flussi migratori tra la Svizzera e l’Italia, in entrambe le direzioni, erano quasi inesistenti. Non va infatti dimenticato che per l’Italia essi non erano ancora cominciati e per la Svizzera erano ormai in fase calante. Ci si può anche chiedere se la questione del domicilio costituiva un rilevante «interesse reciproco».
Per poter rispondere a queste domande mi sembra opportuno ricordare anzitutto che all’indomani dell’Unità d’Italia i due Paesi intendevano in un arco di tempo ragionevole confermare o rinegoziare diversi accordi precedenti a cominciare da quello commerciale del 1851. Senonché, appena iniziate le trattative, a questo tema ne furono aggiunti altri due dall’Italia (sulla proprietà letteraria e sull’estradizione) e un terzo dalla Svizzera (trattato di domicilio e consolare). Per la Svizzera le quattro materie potevano essere trattate separatamente, ma l’Italia insistette per una trattazione simultanea, ciò che spiega l’allungamento dei tempi, fino al 22 luglio 1868, quando i quattro trattati vennero firmati, tre a Firenze (allora capitale d’Italia) e uno a Berna. 

Interessi reciproci
Tornando alle domande precedenti, a questo punto è facile rispondere che molto probabilmente la questione dei «flussi» migratori interessava ben poco, mentre la questione del «domicilio» interessava sia la Svizzera che l’Italia avendo entrambe un numero quasi equivalente di propri cittadini nell’altro Paese (poco più di 12.000 residenti per parte). La Svizzera era tuttavia più interessata dell’Italia a garantire ai propri cittadini condizioni di vita e di lavoro favorevoli e stabili, tanto è vero che aveva concluso accordi di domicilio, in regime di reciprocità, persino con gli Stati Uniti (nel 1850, quando gli emigrati svizzeri erano già diverse migliaia, mentre gli americani in Svizzera erano poche centinaia) e con la Gran Bretagna (nel 1855), in condizione simile a quella degli Stati Uniti.
La Confederazione era tuttavia interessata soprattutto ad avere rapporti di buon vicinato, anche a garanzia della propria neutralità e integrità territoriale, con i grandi Stati confinanti. Aveva già concluso un trattato di amicizia con la Francia (1864) e intendeva fare altrettanto con l’Italia (1868), l’Austria (1875) e la Germania (1876). In quell’epoca piuttosto turbolenta la Svizzera si preoccupava che i suoi confini non fossero violati da alcun Paese, anche solo per accorciare i tempi di spostamenti di truppe e materiale bellico in caso di guerra.
Nei confronti del Regno d’Italia (1861), fin dalla sua proclamazione la Svizzera era interessata, in regime di reciprocità, a intrattenere non solo rapporti di buon vicinato, a intensificare i rapporti commerciali esistenti e ad assicurare ai propri cittadini residenti in Italia condizioni favorevoli alle loro attività, ma anche, come si vedrà, al coinvolgimento dell’Italia nella realizzazione del progetto di collegamento ferroviario nord-sud attraverso il San Gottardo.
Anche l’Italia era interessata ad avere al confine settentrionale uno Stato sovrano amico, con cui sviluppare i rapporti commerciali, e ad assicurare ai propri cittadini residenti in Svizzera ampie libertà e garanzie. La prospettiva di una collaborazione con la Svizzera e la Germania per realizzare un collegamento ferroviario da Genova all’Europa centrale attraverso il Gottardo era tuttavia solo da poco tempo una opzione del governo italiano.(Segue)

04 novembre 2018

Dall’«inutile strage» alla «collaborazione internazionale»


Oggi 4 novembre si celebra in Italia il «Giorno dell’Unità Nazionale». Per molti anni in questo giorno si è celebrata la Vittoria contro gli Austriaci ottenuta col sacrificio di centinaia di migliaia di vite spezzate durante la prima guerra mondiale. Oggi si vorrebbe onorare con sfilate e fiumi di retorica «i sacrifici dei soldati caduti a difesa della Patria», animati da «profondo sentimento di amor di Patria». 

Non ho sentito o letto alcuna voce di dissenso. Non perché gli oltre seicentomila morti non meritino rispetto e il nostro ricordo, ma perché le loro vite potevano essere risparmiate. Non perché non si abbia diritto all’amor di patria, ma perché quel sentimento non può essere estorto e strumentalizzato. Non perché non si abbia il diritto e persino il dovere di difendere la Patria, ma perché l’Italia nel maggio del 1915 non era sotto attacco, ma fu l’Italia, il 23 maggio 1915, a dichiarare guerra all'Austria-Ungheria.
Papa Benedetto XV
Non ho sentito o letto alcuna dichiarazione che ammettesse l’«inutile strage» (Benedetto XV) della prima guerra mondiale e che sottolineasse le nefaste conseguenze economiche, sociali e politiche del dopoguerra per milioni di italiani.
Condivido, tuttavia, il richiamo di oggi a Trieste del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: «La Costituzione Italiana, nata dalla Resistenza, ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie; privilegia la pace, la collaborazione internazionale, il rispetto dei diritti umani e delle minoranze». E ancora: «Bisogna ribadire con forza tutti insieme che alla strada della guerra si preferisce coltivare amicizia e collaborazione, che hanno trovato la più alta espressione nella storica scelta di condividere il futuro nella Unione europea».
Giovanni Longu
Berna, 4 novembre 2018

31 ottobre 2018

La prima guerra mondiale e l’emancipazione femminile


La prima guerra mondiale è stata un enorme massacro. Ha lasciato sul campo almeno 20 milioni di morti e ha comportato distruzioni per un valore incalcolabile e una crisi economica e sociale gravissima. Per molti popoli la prima guerra mondiale segnò tuttavia anche l’inizio di una rivoluzione silenziosa e benefica, destinata a cambiare il mondo: il movimento femminista, nato sul finire del Settecento, cresciuto idealmente nell’Ottocento, stava per conseguire i primi importanti risultati concreti in campo sociale e politico.

Banco di prova per i movimenti femministi
La prima guerra mondiale, com’è noto, fu un grande laboratorio tecnologico che sviluppò malauguratamente soprattutto nuovi armamenti: nuove armi automatiche e più precise (micidiali), nuovi carri armati, sommergibili, aerei, portaerei, ecc.). La guerra, al di fuori di qualsiasi pianificazione, costituì tuttavia anche un decisivo banco di prova per i movimenti femministi. Se ne parla poco, perché si è abituati a considerare le guerre soprattutto in termini geopolitici, meno in termini di conquiste sociali.
L’imperativo della sopravvivenza e del supporto agli uomini sotto le armi fece sì che alla loro sostituzione nella produzione agricola, ma anche industriale, fossero destinate milioni di donne. Molte furono impiegate anche nella produzione di munizioni per l’approvvigionamento della macchina bellica. Tutto questo in aggiunta ai tradizionali lavori domestici, alla cura dei figli e all’assistenza degli anziani.
Questa esperienza, gravosa ma ben superata, aveva dato alle donne e pure agli uomini la prova lampante delle loro capacità e virtù anche al di fuori dell’ambito familiare. Da quel momento sarebbe stato più facile avanzare richieste fino ad allora irricevibili dagli uomini di potere, per esempio il diritto alla formazione, l’esercizio di ogni professione, i diritti politici. E sarebbe stato più difficile per gli uomini obiettare che le donne dovevano occuparsi della casa e della famiglia come spose e madri.

Rivendicazioni e conquiste
Finita la guerra, l’emancipazione femminile trovò davanti a sé una sorta di strada spianata. Le donne, che già sapevano gestire una casa e una famiglia, avevano dimostrato di saper gestire anche il lavoro in fabbrica, nei laboratori, negli uffici. Avevano dimostrato di non aver bisogno di alcuna tutela maschile e di saper badare a sé stesse.
Donne in una fabbrica di munizioni in Gran Bretagna.
Per portare avanti le loro rivendicazioni sociali e politiche, le donne sapevano però che dovevano essere unite. L’esperienza nelle fabbriche aveva favorito la loro sindacalizzazione e politicizzazione. Cominciarono perciò a organizzarsi nei sindacati e nei partiti politici e i risultati non tardarono ad arrivare. Fino al 1920 avevano già ottenuto il diritto di voto in diversi Paesi, tra cui l’Austria, la Germania, il Belgio, la Polonia, il Regno Unito, la Russia, l’Ungheria, il Canada, gli Stati Uniti. In altri Paesi dovranno attendere ancora, ma la direzione e l’obiettivo erano segnati e ritenuti irrinunciabili.
Anche nella vita privata le donne dimostravano sempre più la raggiunta emancipazione, per esempio esibendo vestiti che tendevano a evidenziare maggiormente la loro fisicità, praticando numerosi sport, frequentando scuole di ogni ordine e grado, raggiungendo livelli prestigiosi nella letteratura e nell’arte, guidando l’automobile, purtroppo iniziando anche a fumare (la sigaretta era divenuta simbolo di ribellione e di lotta) come gli uomini.
Non tutte le donne riuscirono subito a sottrarsi ai condizionamenti delle società fino ad allora fortemente maschiliste. In alcuni Paesi dovranno attendere addirittura decenni prima di ottenere il diritto di voto (Francia: 1944, Italia: 1946, Svizzera: 1971). In molti Paesi dove magari le donne hanno da tempo i diritti politici non hanno ancora la parità salariale e pari opportunità rispetto agli uomini nell’accesso allo studio o nell’esercizio di alcune funzioni.
Per molte società la parità uomo-donna resta ancora un obiettivo da conquistare e non si capisce se il ritardo è dovuto a difficoltà oggettive o alla paura (inconfessabile) di una società più giusta, più equa, più umana.
Giovanni Longu
Berna, 31.10.2018

24 ottobre 2018

4 novembre: ricordo di un eccidio

Nel 2018 ricorre il centesimo anniversario della fine della prima guerra mondiale. Sarà celebrato da alcuni Stati per il trionfo finale e ricordato sommessamente da altri per la sconfitta. Gli uni e gli altri, probabilmente, avvolgeranno nel manto di un’insulsa retorica l’immane carneficina con almeno 20 milioni di morti, che da entrambe le parti saranno considerati «eroi», perché «morti per la Patria». Nessuno oserà mai metterlo in dubbio, perché la patria, anche con la «P» maiuscola, soprattutto a quei tempi era considerata una religione, la «Religione della Patria», che richiedeva dai propri membri l’incondizionata disponibilità al sacrificio e persino al martirio. Ne giunge un’eco fino a noi attraverso i testi ancora attuali di alcuni inni nazionali!


Celebrazioni e ritorno alla storia vera
Roma, "Altare della Patria"
Gli Stati vincitori celebrano in questo periodo la vittoria con l’orgoglio di chi ritiene di aver schiacciato i nemici; quelli perdenti hanno già rimosso in gran parte l’«inutile strage». L’Italia, potenza vincitrice, fece affiggere in tutti i Comuni d’Italia una targa col testo del Bollettino della Vittoria inviato il 4 novembre 1918 al Re d’Italia dal generale Armando Diaz con questo inizio solenne: «La guerra contro l'Austria-Ungheria che, sotto l'alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l'Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta».
Nel Bollettino non si parlava dei costi umani e materiali della vittoria, eccetto di quelli subiti dal nemico: «L'Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell'accanita resistenza dei primi giorni e nell'inseguimento ha perduto quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi». Nessun cenno veniva fatto agli oltre 650.000 militari italiani morti. Per esaltare l’orgoglio nazionale, più che per pietà, furono eretti in molte piazze d’Italia monumenti ai «gloriosi caduti». Per decenni la propaganda (fascista) ha cercato di sfruttarli in tutti i modi.
Sarebbe tempo di rimuovere tutte le ideologie sulla guerra e riportare la storia ai fatti nella loro durezza e crudezza, ma non credo che lo si farà, perché i fatti delle guerre sono atroci, vergognosi e umanamente inaccettabili. La guerra è follia e morte (papa Francesco).
Della prima guerra mondiale si sa ormai tutto o quasi, ma i giudizi sono ancora molto divisi. Gli storici non riescono a stabilire, per esempio, il numero esatto o verosimile dei morti, tra militari e civili, morti in battaglia o sotto i bombardamenti o in seguito a epidemie e disagi di ogni tipo, ma si sa che oscilla tra 20 e 40 milioni. Una pazzia planetaria! Non sono d’accordo sulle cause della guerra e in ogni caso non ammetterebbero mai all’unanimità l’irrazionalità della guerra per risolvere questioni di territori, di supremazia, di mercati e qualsiasi altra cosa del genere. La stampa mondiale non si trovò d’accordo nemmeno nel 1917 sulle parole del papa Benedetto XV quando denunciò l’«inutile strage» e indicò la via della pace per la soluzione dei problemi. La verità talvolta fa male, ma sempre meno della guerra!

La religione della Patria e l’odio del nemico
Forse è addirittura impossibile ritornare semplicemente ai fatti, ripulendoli da tutte le incrostazioni ideologiche che ne hanno modificato per così dire la natura violenta e ripugnante. Come si fa, per esempio, a separare i fatti da quel concetto di «patria» che si è sviluppato tra gli italiani (anche quelli residenti all’estero, per esempio in Svizzera) già prima della guerra, durante il Risorgimento? Impresa difficile perché fu costruito abilmente per suscitare da una parte l’«amor di patria» e dall’altra l’odio verso i nemici dell’Italia. Per rafforzare quel concetto, fu addirittura creato e diffuso il binomio «Dio e Patria» in modo da dare un senso «sacro» all’amor patrio. Su quel binomio si sviluppò persino una sorta di «Religione della Patria», ma anche di «religione dell’odio», che dovevano suscitare nei cittadini l’«ardore di patria» e l’«odio del nemico» e trasformare i «credenti» in «Dio e Patria» in «combattenti» orgogliosi di «soffrire per la patria» fino al sacrificio totale. Nel 1885 fu posta a Roma la prima pietra dell’«Altare della Patria», inaugurato nel 1911.
Ispirandosi a questa ideologia, Mussolini fece incidere su una lapide dedicata a un «eroe» della prima guerra mondiale e medaglia d’oro al valore militare, Fulcieri Paulucci de Calboli, queste semplici parole: « diè tutto sé stesso alla Patria». Quella lapide è leggibile su una parete esterna dell’Ambasciata d’Italia a Berna. Si sa che sotto il fascismo la fede diventò anche un dovere, per volontà del Duce: «Dio e Patria. Ogni altro affetto, ogni altro dovere vien dopo». Il binomio sarà sfruttato ampiamente dalla propaganda fascista, che vi aggiungerà spesso quale terzo elemento la «Famiglia». per farne una specie di «Trinità fascista».
Questa religione combinata con un cieco nazionalismo si diffuse non solo in Italia, ma in tutti i Paesi d’Europa e anche in Svizzera. Un concetto di patria totalizzante e sacro lo si trova anche inciso su un monumento dedicato «agli eroi del Morgarten 1315», inaugurato nel 1908 a ricordo di una delle battaglie più importanti per la liberazione della Svizzera centrale dal dominio degli Asburgo, quella di Morgarten nel 1315, vinta dai confederati. Il monumento porta questa scritta significativa (traduzione dal tedesco): «Il 15 novembre 1315 hanno combattuto al Morgarten per Dio e per la Patria la prima battaglia per la libertà».
Durante la prima guerra mondiale, un quotidiano svizzero-tedesco filogermanico definì la Francia e la Gran Bretagna «traditrici dell’Europa… traditrici della razza bianca… profanatrici del Cristianesimo». Naturalmente la stampa antitedesca non risparmiava critiche velenose alla Germania e considerava la guerra contro di essa «la lotta stessa della civiltà contro la barbarie».

Inni nazionali d’altri tempi
Di queste visioni e di questi sentimenti contrapposti ci giunge ancor oggi l’eco attraverso gli inni nazionali di alcuni dei Paesi belligeranti. Per esempio quello francese «La Marsigliese», risalente al periodo della Rivoluzione francese, che contiene queste parole: «Avanti, figli della Patria / Il giorno della gloria è arrivato!... Vengono fin nelle nostre (vostre) braccia / A sgozzare i nostri (vostri) figli, le nostre (vostre) compagne!».
Quello italiano, Fratelli d’Italia, confezionato in pieno Risorgimento, sembra un inno ispirato dalla «Religione della Patria» ottocentesca con una straordinaria commistione di sacro e profano: «Stringiamoci a coorte, / Siam pronti alla morte. / Siam pronti alla morte, / l'Italia chiamò… Uniamoci, amiamoci / L'unione e l'amore / Rivelano ai Popoli / Le vie del Signore / Giuriamo far Libero / Il suolo natio / Uniti, per Dio, / Chi vincer ci può!?».
L’inno tedesco, Deutschland über Alles, risalente anch’esso al periodo risorgimentale, quando la Germania unita non esisteva ancora, è il meno bellicoso, anche se il nazismo ha interpretato quell’aspirazione originaria all’unità nazionale in volontà di supremazia della Germania sugli altri popoli conquistati dal Terzo Reich: « Germania, Germania, al di sopra di tutto, / al di sopra di tutto nel mondo, / purché per protezione e difesa / si riunisca fraternamente».

La verità sulla guerra
Ritornare ai fatti non è semplice anche perché potrebbero farci ancora male. Per questo li abbiamo in gran parte rimossi o anestetizzati. Per questo, noi occidentali, ormai abituati alla pace, non sappiamo nemmeno più cosa sia una guerra, non abbiamo la percezione del terreno di guerra, delle micidiali armi moderne e soprattutto della morte atroce provocata dai missili, dai bombardamenti, dalle artiglierie, dalle mine, dagli ordigni nucleari. Non ci giunge il fragore delle bombe e dei colpi d’artiglieria, le urla di disperazione delle persone colpite a morte o gravemente ferite o miracolosamente sopravvissute.
Raramente si pensa alle indicibili sofferenze dei feriti, dei mutilati, delle loro famiglie. In una società del benessere come la nostra non si riesce nemmeno a immaginare la fame o anche solo la scarsità e il razionamento dei generi alimentari durante e in parte anche dopo la guerra. Quanti giovani dei Paesi industrializzati possono dire di aver sofferto anche solo per brevi periodi la fame? Molti non sanno che una delle conseguenze indirette della guerra è proprio la fame, quella vera, quella che morde, che fa impazzire, che uccide.
Di fronte a questi eccidi e a queste sofferenze la reazione dovrebbe essere solo una: ripudiare la guerra in tutte le sue forme e favorire la pace. Non ha senso continuare a discutere se la guerra può essere giusta o ingiusta, perché la guerra è comunque sempre atroce, disumana. Non ha senso continuare a produrre e a vendere armi, perché provocano solo morte e rappresentano una sottrazione ingiustificabile di risorse al progresso sociale.

«L’Italia ripudia la guerra»
"L'Italia ripudia la guerra" (art. 11 Costituzione)
Tutti i Paesi e non solo l’Italia dovrebbero sottoscrivere l’articolo 11 della Costituzione italiana: «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Invece si assiste (impotenti o indifferenti?) al proliferare delle guerre, all’aumento delle spese militari, al commercio delle armi, a migrazioni bibliche, a distruzioni di intere città, ecc.
Ricordare la «grande guerra», vedere qualche filmato d’epoca, leggere qualche pagina di vita vissuta di protagonisti potrebbe essere utile per rendersi conto che la guerra reale al fronte e lontano dal fronte è ben altra cosa dalle scene di un film girate in tutta sicurezza. Può essere utile anche per convincerci, se già non lo fossimo, dell’insensatezza della guerra, della sua mostruosità e per farci decidere incondizionatamente per la pace. La verità non dovrebbe far male, nemmeno ai bambini. Credo anzi che sia utile farli crescere associando la guerra al male e la pace al bene.
Giovanni Longu
Berna 24.10.2018

16 ottobre 2018

Immigrazione, xenofobia e integrazione


Alcuni lettori che seguono più o meno regolarmente i miei articoli, ritengono che il mio discorso sui migranti e in particolare sull’accoglienza, l’inserimento, la formazione professionale e lo sviluppo sostenibile manchi di realismo e  non tenga conto delle effettive capacità d’inclusione e realizzazione della società, specialmente di quella italiana. Cercherò di chiarire il mio pensiero e di precisare alcuni concetti che lo sostanziano. Premetto che rispetto qualunque visione del problema diversa dalla mia, eccetto quelle che visibilmente confliggono col principio delle preminenza della dignità umana e col principio fondamentale per la convivenza umana dello Stato al servizio dell'uomo e non viceversa.

Migrazione, fenomeno complesso
Quando parlo di «migrazione» mi riferisco in generale al fenomeno migratorio nella sua complessità storico-esistenziale, ossia alla «mobilità» che caratterizza l’umanità fin dalla più remota antichità. Il fenomeno stanziale è nella storia dell’umanità piuttosto recente. Per millenni i movimenti erano per lo più unidirezionali: i popoli che si spostavano da un posto a un altro ritenuto più sicuro, più fertile, più  adatto alla sopravvivenza, non facevano più ritorno al luogo di partenza.
Non tutte le migrazioni di massa erano spontanee e pacifiche, anzi erano sovente precedute e seguite da guerre. Il movimento era spesso generato da spinte esterne, come al tempo delle invasioni barbariche (dal 166 al 476 d.C.), quando l’invasione di un popolo provocava la fuga e l’invasione di un altro popolo, che viveva magari pacificamente. I fuggitivi-invasori non incontravano quasi mai una buona accoglienza per cui le guerre per la sopravvivenza erano inevitabili. Anche gli Elvezi, nel primo secolo avanti Cristo, pressati dai vicini Germani, cercarono di spostarsi in massa verso la Gallia, ma la loro migrazione fu bloccata da Giulio Cesare nella battaglia di Bibracte (58 a.C.) con decine di migliaia di morti.
Dall’epoca postcoloniale le migrazioni non sono più paragonabili alle invasioni barbariche, sono generalmente pacifiche perché i migranti non sono armati, fuggono soltanto per spirito di sopravvivenza da territori infestati da guerre, violenze, persecuzioni e soprattutto miseria. Quando parlo di «migrazione» mi riferisco non a un fenomeno astratto, ma alla realtà dolorosa di questi esseri umani minacciati in alcuni valori costitutivi della persona, la vita, la dignità e la speranza. Queste persone non possono essere discriminate in ciò che hanno di più caro e di comune a tutti gli esseri umani. Esse vanno salvate e assistite.

Prima di tutto l’accoglienza
La mia realtà di riferimento sono persone in carne e ossa che fuggono, che cercano la salvezza, che cercano disperatamente un approdo sicuro in Europa e in Italia. Sono bambini ai quali la vita ha concesso finora poche speranze di sopravvivenza. Sono madri e padri che si ribellano a un destino crudele che sembra non lasciare scampo né a loro né ai loro figli se non attraverso una fuga pericolosa e senza garanzia di salvarsi. Sono le migliaia di disperati che alcune navi di soccorso generose e pietose riescono a far salire a bordo e fanno sbarcare in qualche porto sicuro. Li chiamo anch’io, come ormai in uso, sebbene inizialmente fossi contrario a questa terminologia, «migranti».
A questi «migranti» vorrei che si garantisse sempre il primo soccorso, in mare e in terra, pensando che si tratta di persone come me e come te, che prima di essere eritrei, somali, siriani o di qualsivoglia nazionalità, hanno la stessa dignità di tutti gli esseri umani. Accogliere un tale «migrante» significa anzitutto difendere la «nostra» dignità. Solo dopo la prima accoglienza può e deve seguire tutto il resto, l’identificazione, gli esami, ecc. conformemente alle leggi e alle possibilità.
Decidere già prima del soccorso e dello sbarco se i «migranti» che si trovano quasi sempre «in cattive acque» meritano o no di essere accolti mi sembra impietoso e disumano. Non è umano negare al proprio simile il diritto alla vita e alla speranza, facendo appello a responsabilità assolutamente sproporzionate come la «difesa dei confini», «tra i migranti si nascondono trafficanti di esseri umani», dobbiamo assistere «prima i nostri», «l’Unione europea non ci aiuta abbastanza», e simili scuse. Questi discorsi, semmai, si fanno dopo l’accoglienza, l’identificazione e la prima sistemazione, non prima.
Per senso di concretezza non sono contrario al rimpatrio di chi non ha titoli per restare, ma preferisco il modello svizzero, che incoraggia i rimpatri  «volontari», piuttosto che praticare i difficili rimpatri forzati. «La lunga esperienza della Svizzera mostra che i ritorni volontari funzionano, sono più economici e, soprattutto, più umani. I rinvii forzati vanno applicati soltanto come ultima ratio» (Simonetta Sommaruga, consigliera federale).
Anch’io sono convinto che l’Italia non può farsi carico di tutti i profughi del mondo e nemmeno di tutti quelli a cui assicura la prima accoglienza. Qualcosa però può fare, almeno a una parte dei «migranti» che ne fanno richiesta e hanno i titoli per chiedere l’asilo o il soggiorno. Oggi che si parla tanto di investimenti, perché non investire almeno un po’ anche nell’integrazione degli immigrati?

La xenofobia danneggia l’Italia
Poiché ogni governo ha bisogno del consenso popolare per governare, anche quello italiano, ma non è purtroppo da solo, spera di conquistarsi il sostegno popolare (spendibile anche in altre occasioni) diffondendo un’idea dei «migranti» falsa e tutto sommato dannosa per il Paese. Quest’idea è che la «massa» dei migranti rappresenti una minaccia per la società italiana, perché tra di loro si nascondono pericolosi criminali, scafisti, spacciatori, clandestini, sbandati, potenziale manovalanza per la criminalità organizzata, ecc. In altre parole, si alimenta tra la gente la «paura dello straniero», ossia la xenofobia.
A chi non conosce da vicino la storia dell’emigrazione italiana in Svizzera vorrei ricordare che negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso la xenofobia colpiva soprattutto gli italiani. Si tennero anche votazioni popolari per limitare la presenza degli stranieri (allora erano soprattutto italiani) e la stampa italiana scriveva articoli infuocati contro la xenofobia svizzera. Oggi, in Italia, i media sembrano ammutoliti, forse perché gli stranieri sono africani, profughi, «migranti» senza arte né parte, presunti «invasori» per portare via il lavoro e il benessere agli italiani.
Eppure dovrebbe essere abbastanza chiaro che la xenofobia, anche nelle forme più blande senza sfociare nel razzismo e nell’odio, fa male all’Italia perché getta discredito su una parte produttiva o potenzialmente produttiva di persone che contribuisce o contribuirà ad assicurare il benessere di tutti, rischia di alimentare una guerra tra poveri, crea un clima di pericolosi scontri sociali, dà fiato alle voci che invocano le maniere forti.
Qualcuno potrebbe obiettare che il governo è così perché così lo vuole la maggioranza degli italiani. L’obiezione è solo in parte vera, nel senso cioè che il popolo italiano ha votato indirettamente questo governo e non un altro; è falsa quando lascia supporre che la maggioranza degli italiani sia xenofoba. Il popolo italiano è infatti in grande maggioranza molto accogliente e generoso quando si tratta di aiutare chi è nel bisogno. Lo sarebbe probabilmente ancora di più se si raccontasse in modo diverso il fenomeno migratorio, facendogli capire per esempio che dall’apporto degli stranieri dipende anche il nostro benessere, che spendere risorse per l’inserimento degli immigrati è un ottimo investimento, che il «nostro» futuro dipende anche dal loro presente.

L’integrazione è necessaria
La narrazione positiva dell’immigrazione ovviamente non deve limitarsi al primo momento, quello dell’accoglienza e della prima sistemazione, che vede prevalere soprattutto i costi. Il discorso va ampliato all’intera vita dell’immigrato, tenendo conto che almeno una parte, quella dell’infanzia, non è costata nulla o poco al Paese di accoglienza e che per renderla positiva e produttiva occorrono una reale integrazione e investimenti adeguati.
Anche al riguardo il mio discorso è molto concreto. Non si può pretendere che un immigrato sia da subito produttivo e utile alla società. Ha bisogno di tempo, se è un giovane adulto (come gran parte degli immigrati), per orientarsi nella società, ha bisogno di imparare la lingua del posto per comunicare, deve apprendere un mestiere perché il mondo del lavoro occidentale è molto esigente, deve avere il tempo per crearsi una rete sociale, ecc.
Il periodo dell’inserimento sociale, formativo e professionale è delicato, fondamentale e necessario anche perché il lavoro e un’adeguata formazione linguistica e professionale sono strumenti formidabili d’integrazione. Una persona bene integrata, soddisfatta del lavoro che svolge, è una persona che realizza non solo sé stessa e i suoi sogni, ma contribuisce anche al benessere del Paese che lo ha accolto e di cui non potrà che dir bene.
All’eventuale obiezione che l’Italia non ha sufficienti risorse per far seguire questo percorso d’integrazione, desidero rispondere che se il percorso è ritenuto utile e necessario le risorse si trovano. L’esempio dell’apprendistato svizzero, che comprende periodi di formazione e periodi di lavoro, è un modello anche sotto il profilo dei costi, perché nel rapporto costi-benefici questi superano di gran lunga i primi: se ne avvantaggiano gli apprendisti, i datori di lavoro, lo Stato (perché l’apprendistato costa meno di un liceo o un’altra formazione teorica) e l’intera società che può contare sui proventi di un’economia ad alto valore aggiunto. L’Italia dovrebbe sperimentarlo e i risultati ne dimostreranno facilmente l’utilità.
Giovanni Longu
Berna, 16.10.2018