16 marzo 2016

Capire la Svizzera: 19. Verso la parità confessionale



Quando nel luglio del 1847, con una maggioranza di dodici voti, l’assemblea dei delegati dei Cantoni (Dieta) dichiarò sciolto il Sonderbund e il generale Dufour (1787-1875), capo delle truppe dei Cantoni liberali, costrinse alla resa l’esercito dei Cantoni cattolici ribelli (novembre 1847), è possibile che qualcuno tra i vincitori abbia pensato di punire severamente i vinti. Prevalse invece il buon senso, tant’è che, nonostante fosse stato ordinato un processo contro i capi del Sonderbund (rifugiatisi per lo più all'estero), nessuno di loro fu sottoposto a indagine e punito. Evidentemente la maggioranza dei vincitori era consapevole che solo la «parità confessionale» avrebbe posto fine alle lotte tra cattolici e protestanti.

Verso la parità confessionale, ma senza i Gesuiti…
Sant'Ignazio di Loyola, fondatore della
Compagnia di Gesù (di P. Paul Rubens)
Poiché la tolleranza reciproca delle confessioni cristiane prevista nelle diverse «paci nazionali» non aveva superato con piena soddisfazione la prova di durata, vincitori e vinti ritennero indispensabile fissare il principio della «parità confessionale» tra cattolici e protestanti nella Costituzione che un’apposita commissione mista (istituita nel luglio 1847, prima che scoppiasse la guerra del Sonderbund, ma insediata dopo nel febbraio del 1848) stava preparando.
Effettivamente, la nuova Costituzione, approvata nell’estate 1848 dalla maggioranza dei 22 Cantoni (6 e mezzo, compreso il Ticino, votarono contro), garantiva la libertà di culto a tutti i cristiani (ma non agli ebrei!) e imponeva ai Cantoni di farla rispettare (art. 44 Cost. 1848). Tuttavia, poiché era opinione abbastanza comune tra i vincitori che uno dei maggiori ostacoli alla pace confessionale fosse rappresentato dalla presenza in quasi tutti i Cantoni cattolici dei Gesuiti, ritenuti responsabili della guerra del Sonderbund, venne ripreso nella Costituzione (art. 58) anche il divieto di qualsiasi attività religiosa dei Gesuiti, già espulsi dalla Dieta il 3 settembre 1847 e il 26 giugno 1848.
Che non si trattasse di una misura temporanea nei confronti dei Gesuiti lo prova il fatto che con la revisione costituzionale del 1874 quel provvedimento (divenuto l’art. 51) venne ulteriormente aggravato, sembrando evidente la pericolosità dell’ordine dei Gesuiti (la Compagnia di Gesù) per lo Stato e per la pace confessionale. Venne infatti specificato che ad essi era «interdetta ogni azione nella chiesa e nella scuola» e che «questo divieto può mediante risoluzione federale essere esteso anche ad altri ordini religiosi la cui azione sia pericolosa per lo Stato o turbi la pace delle confessioni», aggiungendo (art. 52) che «la fondazione di nuovi conventi od ordini religiosi e il ristabilimento di quelli già soppressi è inammissibile».
Gli storici sono concordi nel ritenere che l’adozione di quell’articolo non fu dettata da motivi religiosi o confessionali, ma fu il risultato di una lotta politica acerrima fra liberali-radicali (in maggioranza protestanti) e conservatori (in maggioranza cattolici) per la ripartizione delle competenze e dei diritti fra Stato e Chiesa e pertanto il loro rispettivo dominio sulle masse.
I Gesuiti fecero in qualche modo da capro espiatorio perché con le loro idee, le loro scuole e la loro influenza sembravano favorire la parte conservatrice, sconfitta nella guerra del Sonderbund. Sta di fatto che per molto tempo il divieto fu applicato con grande rigore e il Consiglio federale ha sempre vigilato affinché l'interdizione fatta ai membri della Compagnia di intervenire nella scuola e nella chiesa fosse rispettata. «Anche il solo salire sul pulpito di un gesuita era considerato “azione nella chiesa”», si legge in un documento dello stesso Consiglio federale. Solo dopo la seconda guerra mondiale molte attività svolte dai Gesuiti in Svizzera cominciarono ad essere tollerate e persino apprezzate.

… e senza illusioni
I Gesuiti non furono tuttavia le uniche vittime di quella sconfitta. La loro interdizione fu accompagnata anche dalla chiusura di un gran numero di conventi sopravvissuti alla Riforma. Nessuno, tuttavia, s’illudeva che, senza Gesuiti e conventi e inserendo semplicemente il principio della parità confessionale nella nuova Costituzione, i problemi della pacifica convivenza delle due confessioni sarebbero stati facilmente superati nei Comuni, nei Cantoni e dunque nella Confederazione.
Il dubbio era legittimo perché era obiettivamente difficile anche solo immaginare un’assoluta parità confessionale, dopo che per secoli era stata negata, per motivi politici ma anche religiosi, persino la possibilità di una tolleranza reciproca: sembrava infatti inaccettabile che il Dio unico dei cristiani potesse essere venerato adeguatamente in due modi tanto diversi.
Inoltre, in molti Cantoni, dai tempi della Riforma, era stata operata una sorta di «pulizia confessionale», ponendo ogni genere di ostacoli all’esercizio del culto cattolico o protestante a seconda della maggioranza nel Cantone, al fine di garantire la massima omogeneità religiosa degli abitanti. I risultati vennero evidenziati al primo censimento federale della popolazione (1850), quando in molti Cantoni la distanza tra maggioranza e minoranza confessionale risultava piuttosto ampia. La distanza tra protestanti e cattolici era particolarmente significativa in alcuni Cantoni emblematici per la loro importanza demografica ed economica: Zurigo (243.928/6690), Berna (403.768/54.045), Vaud (192.225/6962), Turgovia (107.194/21.921), Lucerna (1563/131.280), Friburgo (12.133/87.753), Vallese (463/81.096), Ticino (50/117.707).
Dopo la sconfitta del Sonderbund era sembrato che la pulizia andasse completata, non già con intenti punitivi, bensì per evitare che il precario equilibrio confessionale appena raggiunto si rompesse sul nascere. Tutte le misure prese dovevano avere un intento precauzionale. Sta di fatto che esse comportarono molte frustrazioni, sofferenze, tentativi di ribellione soprattutto tra i cattolici. In un romanzo storico di quegli anni, ), L’ebreo di Verona, il gesuita letterato Antonio Bresciani (1798-1862) parlò di «eroica dedizione» dei «cattolici della Svizzera, oppressi dalla forza bestiale e selvaggia dei radicali».

La contrapposizione protestanti-cattolici si attenua
Il Bresciani forse esagerava, ma non c’è dubbio che in pochi anni la stragrande maggioranza della popolazione di ogni Cantone era divenuta o protestante o cattolica e la minoranza non aveva altra scelta che quella di sottostare alle regole imposte dalla maggioranza. Quelli economicamente e politicamente più forti erano tutti protestanti. Per diversi decenni la maggioranza liberale-radicale in Parlamento non consentì alcuna seria opposizione e tantomeno un’alternativa di governo, dove per altro fino al 1891 tutti i seggi furono detenuti da liberali-radicali. Alla minoranza cattolico-conservatrice non restava che un ruolo politico del tutto marginale. Solo nei Cantoni alpini a maggioranza cattolica ex-Sonderbund questa conservava intatto il suo potere, ormai inattaccabile grazie alla sovranità cantonale riconosciuta dalla Costituzione federale.
Josef Zemp, primo cons. fed. cattolico
Il cammino verso la pace confessionale era ancora lungo. Prima di raggiungerla si dovettero superare non pochi ostacoli come il Kulturkampf (la «lotta tra le culture», soprattutto dopo la proclamazione nel 1870 del dogma dell’infallibilità papale) che evidenziò grandi contrasti anche all’interno del mondo cattolico. C’era infatti in ballo non solo il primato del Papa in materia dottrinale, ma anche, di riflesso, l’autonomia dei Cantoni (cattolici) in materia d’insegnamento. Alcuni cattolici liberali reagirono costituendo una propria Chiesa cattolico-cristiana, per esempio a Berna, col sostegno del Cantone (protestante).
La rigida contrapposizione tra protestanti e cattolici si stava tuttavia attenuando. Nel 1891 per la prima volta un cattolico conservatore, Josef Zemp, venne eletto in Consiglio federale, rompendo il monopolio liberale-radicale. Anche il predominio parlamentare dei liberali-radicali cominciò a sgretolarsi man mano che il partito socialista cresceva (a cavallo tra Ottocento e Novecento), lasciando ampi spazi di manovra anche al conservatorismo cattolico.

Il contributo dell’immigrazione italiana

Un contributo solo apparentemente marginale alla pacificazione confessionale fu dato anche dall’immigrazione italiana. Nel 1888 l’episcopato cattolico svizzero auspicò che sacerdoti italiani fossero presenti, almeno durante le feste religiose, nei luoghi di maggiore concentrazione di immigrati italiani. Nel 1896 i vescovi svizzeri si rivolsero direttamente al Papa Leone XIII perché favorisse l’invio di missionari italiani in Svizzera. Sul finire del secolo, già diversi sacerdoti italiani cominciano a visitare sempre più regolarmente gli emigrati italiani. Dal 1899 e per un lungo periodo l’assistenza religiosa agli immigrati italiani sarà assicurata soprattutto dai missionari appartenenti all’«Opera di Assistenza degli operai italiani emigrati in Europa e nel Levante» fondata dal vescovo di Cremona monsignor Bonomelli. E’ innegabile che fu proprio grazie all’immigrazione, non solo italiana, del secondo dopoguerra che il paesaggio religioso in Svizzera mutò radicalmente, consentendo dapprima un giusto equilibrio tra protestanti e cattolici e poi il prevalere della parte cattolica.
Intanto intellettuali, politici, ricercatori si rendevano sempre più conto dell’anomalia di conservare nella Costituzione i due articoli sui Gesuiti e sui conventi divenuti ormai anacronistici e, secondo molti, in palese contraddizione con alcuni diritti fondamentali garantiti dalla stessa Costituzione. Non fu difficile nel 1973 abrogare in votazione popolare i due articoli, anche se non vi fu quella valanga di sì che molti si aspettavano, nonostante la bassa partecipazione (40,3%). Votò infatti per l’abrogazione poco meno del 55% dei votanti, mentre fu per molti una sorpresa l’alta quota dei no (45,1%), grazie al contributo dei Cantoni di Zurigo (52,8% di no), Berna (65,8%), Neuchâtel (70,8%), Vaud (65,2%), Sciaffusa (54,9%) e Appenzello Esterno (61,5).
Venuto meno quest’ultimo ostacolo, negli ultimi decenni del Novecento la strada verso la parità confessionale si fece sempre più agevole. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 16.3.2016

09 marzo 2016

Capire la Svizzera: 18. Cristiani tra guerre e «paci nazionali»




Il seme dei martiri della Legione tebana continuava a generare in Svizzera schiere di cristiani che a un certo punto, sul finire del XIII secolo, sentirono un gran bisogno di libertà e iniziarono le lotte di liberazione dal potere imperiale del Sacro Romano Impero.

L’invocazione del Patto federale del 1291 «Nel nome del Signore, così sia» non era solo una formula legata al Medioevo religioso, ma un impegno sacro da onorare. In effetti, i primi confederati dei Cantoni primitivi Uri, Svitto e Untervaldo lottarono contro gli Asburgo spinti e corroborati da una fede che era allo stesso tempo civile e religiosa, per la quale si poteva anche morire. La lotta per la libertà appariva loro come un aspetto non secondario della storia sacra della salvezza. Per secoli sulle loro insegne militari compariva una croce, simbolo inequivocabile della religione cristiana a cui appartenevano.

«Per Dio e per la Patria»
Monumento agli eroi di Morgarten 1315 (foto gl)
Una chiara testimonianza di questa visione è il monumento inaugurato nel 1908 a ricordo di una delle battaglie più importanti per la liberazione dal dominio degli Asburgo, quella di Morgarten nel 1315, vinta dai confederati. Il monumento, dedicato «agli eroi del Morgarten 1315», porta anche questa scritta significativa (traduzione dal tedesco): «Il 15 novembre 1315 hanno combattuto al Morgarten per Dio e per la Patria la prima battaglia per la libertà».
Anche l’eroe (molto mitizzato) di un’altra grande vittoria dei confederati, quella di Sempach del 1386, Arnold von Winkelried, ha qualcosa di sacro. Secondo i racconti postumi egli si sarebbe volontariamente sacrificato per salvare i commilitoni che stavano per essere sopraffatti dai cavalieri asburgici. Considerato come un santo nazionale, un suo monumento fu sistemato (1865) in una nicchia nell’abside della chiesa di St. Peter, a Stans.
Non è sorprendente che ancora oggi i lucernesi ricordino ogni anno la vittoria di Sempach con una messa di ringraziamento. Del resto, anche il rinnovo dei Patti federali (sancito nel Patto di Zurigo del 1351, l’anno in cui entrarono nella Confederazione i Cantoni di Zurigo e Glarona), che avveniva inizialmente a intervalli irregolari e dal 1481 ogni cinque anni, faceva parte dii riti religiosi celebrati unitariamente dai Cantoni che facevano parte dell’Alleanza e non c’è dubbio che servisse anche a consolidare il sentimento di appartenenza a un popolo che si riteneva protetto da Dio.

Sante parole inascoltate
Questa idea (o illusione) cominciò a vacillare sul finire del XV secolo, durante le «guerre di Borgogna» (1474-1477), ma soprattutto dopo la disfatta di Marignano (1515) durante le «guerre d’Italia» (1494-1559).
Durante le guerre contro il duca borgognone Carlo il Temerario, i bernesi avevano occupato il Paese di Vaud, allora appartenente alla Savoia, alleata della Borgogna. Anche i Vescovi-Conti di Sion (Vallese) erano riusciti a strappare ai Savoia il Basso Vallese (dove ancor oggi si parla il francese).
Contro questa bramosia di conquista, condivisa anche da altri Cantoni della Svizzera interna, era intervenuto (v. articolo del 2.3.2016) a più riprese il santo eremita Nicolao della Flüe, ma evidentemente le sante parole non bastarono. Fu solo dopo Marignano che gli svizzeri cominciarono a rendersi conto che il tempo delle conquiste facili era finito e che dovevano pensare a consolidarsi e rafforzare l’unità. I Cantoni confederati erano ormai tredici, senza contare le terre a loro sottomesse.
Senonché, proprio in quegli anni stava giungendo a maturazione un profondo disagio nelle popolazioni cristiane d’Occidente, che chiedeva radicali cambiamenti nella religione e nella società. Anche in Svizzera stava per nascere e svilupparsi quel vasto movimento noto come «Riforma». Esso mirava principalmente a un rinnovamento della religione e della Chiesa, ma finì per provocare conseguenze profonde allora imprevedibili, oltre che nella religione, nella politica, nella cultura e nella società, rallentando di fatto quel processo di unificazione tra i Cantoni che si stava faticosamente avviando dalla fine del XV secolo.

La Riforma
Erasmo da Rotterdam
Il movimento riformista svizzero partì da Zurigo nel 1518, ma i primi segnali si erano già avuti a Basilea, da cui, quasi un secolo prima, con l’apertura del 17° Concilio ecumenico (1431), si pensava potesse partire la riforma della Chiesa. Di fatto Basilea era divenuta la prima città universitaria della Svizzera, un polo d’attrazione, d’incontro e di dispute per molti filosofi e teologi europei e un’importante centrale tipografica per molti editori.
A Basilea Erasmo da Rotterdam, grande teologo e umanista, aveva appena pubblicato nel 1516, esattamente 500 anni fa, la sua famosa edizione critica in greco e latino del Nuovo Testamento (che servì a Martin Lutero, il grande riformatore tedesco, per la sua traduzione in tedesco). Ma furono Zurigo e Ginevra i principali centri d’irradiazione della Riforma, rispettivamente nella Svizzera tedesca e nella Svizzera francese.
Ulrich Zwingli
A Zurigo, Ulrich Zwingli, già cappellano dei mercenari svizzeri a Marignano e traumatizzato dalla vista di quell’eccidio, sull’esempio delle contestazioni di Lutero alla Chiesa di Roma (dopo le famose tesi del 1517) avviò anche in Svizzera una profonda riflessione sulla pratica religiosa, ritenuta indecorosa e contraria al Vangelo.
Il suo messaggio riformatore si diffuse in poco tempo in buona parte della Svizzera tedesca e ben presto si passò dalle semplici enunciazioni di carattere dottrinale ai fatti, con implicazioni incisive in campo politico e nella vita quotidiana delle persone. Si cominciò ad abolire tutte quelle pratiche, tradizioni e convinzioni che sembravano non avere alcun riscontro nelle Sacre Scritture come il culto dei santi, la pratica di alcuni sacramenti (specialmente la messa), il celibato dei preti, il primato del papa, ecc.
Zwingli sosteneva inoltre che spettasse allo Stato, ossia ai singoli Cantoni, riformare la Chiesa. E molti Cantoni che avevano abbracciato la Riforma (Zurigo dal 1525, Berna dal 1527-28, Basilea e Sciaffusa dal 1529, poi successivamente Turgovia, San Gallo, Argovia, Neuchâtel, ecc.), non senza evidenti interessi politici ed economici, assunsero di buon grado compiti che prima non avevano, come la soppressione degli ordini religiosi e dei conventi (con conseguente acquisizione delle proprietà da parte dello Stato), l’equiparazione degli ecclesiastici a funzionari statali, la drastica riduzione del potere dei tribunali vescovili, ecc.
Da molte città scomparvero, insieme a religiose e religiosi che nel medioevo avevano contribuito notevolmente al loro sviluppo, antiche tradizioni come i pellegrinaggi, le processioni, le messe per i defunti, le immagini dei santi e gli altari. In breve, nelle città e nei villaggi dove veniva affermandosi la Riforma si stava trasformando non solo la vita religiosa ma anche quella civile e culturale delle persone. E non tutti erano favorevoli.

Gli oppositori della Riforma
Ad opporsi alla Riforma predicata da Zwingli non erano solo i cattolici che volevano restare fedeli alla Chiesa di Roma e alle tradizioni, ma anche gruppi di persone appartenenti a movimenti che esigevano riforme più radicali, come i «ribattezzatori» o «anabattisti» (così chiamati in senso spregiativo dai seguaci di Zwingli), che propugnavano, fra l’altro, il battesimo da conferire solo in età adulta. A differenza di Zwingli, essi sostenevano anche la netta separazione tra Stato e Chiesa e il ritorno al «vero cristianesimo» evangelico. Quanto bastava per essere considerati contrari alla Riforma (ufficiale) e perseguitati. Tra il 1528 e il 1571 solo a Berna furono giustiziati non meno di 40 anabattisti, la metà dei quali provenienti dall’Emmental, dove si era rifugiata una numerosa comunità.
Ad opporsi alla Riforma furono però soprattutto i cattolici della Svizzera centrale. Il propagarsi del messaggio riformista di Zwingli preoccupò subito i cosiddetti Cantoni primitivi (Uri, Svitto e Untervaldo), che si affrettarono ad affermare la loro contrarietà non solo per fedeltà alla Chiesa di Roma, ma verosimilmente anche per non perdere i molti privilegi di cui godevano, concessi loro dalla Chiesa fin dai tempi di Sisto IV (papa dal 1471 al 1484) e soprattutto di Giulio II (papa dal 1503 al 1513) in cambio della fedeltà e di servizi militari.

Quattro guerre e quattro paci nazionali
Chiesa dei Gesuiti di Lucerna (1666/67)
Ai tre Cantoni primitivi si aggiunsero fin dal 1524 i Cantoni di Lucerna e Zugo che insieme formarono un’alleanza «per arrestare, estirpare e punire, per quanto possibile, nelle nostre regioni e fra le nostre autorità, le idee di Lutero, Zwingli, Hus e altri insegnamenti erronei e perversi».
A loro volta, i Cantoni che cominciavano a definirsi «protestanti» e non approvavano le resistenze alla Riforma, per farli desistere, pensarono di organizzare un blocco economico contro i cinque Cantoni cattolici in modo da ostacolarne gli approvvigionamenti. Lo scontro armato fu inevitabile, ma si concluse senza troppi danni con un accordo di pace chiamato «Pace nazionale».
Nel 1531 le armi ripresero il sopravvento e assegnarono la vittoria ai cattolici. Tra i protestanti ci fu anche una vittima illustre: Zwingli. La Seconda pace nazionale pose fine a questa «seconda guerra di religione», ma non ai contrasti destinati a durare ancora a lungo tra cattolici e protestanti. Seguiranno infatti altre due guerre per motivi religiosi e altrettante Paci nazionali nel 1656 e nel 1712. Nei periodi intermedi si faceva sempre qualche passo in avanti sulla strada della riconciliazione e del rispetto dei Patti federali, ma non ancora, fino al 1848, il passo decisivo.
Interno della chiesa dei Gesuiti di Soletta (1680/1689)
Intanto, dopo la vittoria del 1531 i Cantoni cattolici pensarono a rafforzarsi politicamente e militarmente, ma intrapresero anch’essi la strada delle riforme, non quelle però rivendicate da Zwingli o da Calvino (il grande riformatore di Ginevra), bensì quelle indicate dalla Chiesa rinnovata dal Concilio di Trento (1545-1563), soprattutto riguardo alla preparazione e all’organizzazione del clero. Per queste riforme i Cantoni cattolici fecero appello ad alcuni ordini religiosi e in particolare ai Gesuiti che costituirono in molte città svizzere proprie sedi, chiese e collegi.
Purtroppo, per garantire la pace religiosa definitiva doveva passare ancora molto tempo. Il passo decisivo fu provocato dal rischio di una quinta guerra di religione, ancora una volta tra cattolici (che avevano costituito un patto separato, il Sonderbund) e protestanti. Si era nel 1847 e la guerra civile, con armi molto più micidiali che in passato, avrebbe probabilmente posto termine all’idea stessa di una Confederazione pacifica, forte e moderna. Prevalse il buon senso e certamente ancora una volta il forte richiamo alle radici cristiane della Svizzera. (Segue).
Giovanni Longu
Berna, 9.3.2016

02 marzo 2016

Capire la Svizzera: 17. Radici cristiane della Svizzera

El Greco, Martirio di San Maurizio

Sono profonde le radici cristiane della Svizzera e inconfondibili sono i frutti dell’albero che da esse continua a trarre linfa vitale. Impossibile eliminare dalla storia svizzera Saint-Maurice, San Gallo, San Nicolao della Flüe, ma anche Zwingli, gli Agostiniani, i Gesuiti, ecc. Impossibile negare il ruolo fondamentale svolto dalla religione nella formazione dell’identità nazionale degli svizzeri. Anche oggi, nonostante il processo di secolarizzazione e la crescente «non appartenenza», quell’albero è sempre vivo come dimostrano i numerosi fedeli che frequentano i vari culti, ma anche i milioni di turisti che visitano cattedrali e abbazie sparse in tutta la Svizzera.

Capire la Svizzera significa anche rendersi conto che senza la componente cristiana molte città svizzere avrebbero un altro volto, la stessa Confederazione sarebbe molto diversa, molte tradizioni non esisterebbero, la Svizzera non avrebbe il suo simbolo, la croce.

Il sangue dei martiri seme di cristiani
Quando la romanizzazione era già una realtà consolidata in gran parte dell’attuale territorio svizzero, come stava avvenendo in altre regioni dell’Impero, anche nel territorio degli Elvezi il cristianesimo cominciò a penetrare e a diffondersi attraverso legionari e cives romani convertiti e grazie a predicatori coraggiosi del Vangelo.
Tra i legionari convertiti, la tradizione ricorda in particolare la Legione tebana (o tebea), che non ebbe nemmeno il tempo di insediarsi sul territorio elvetico perché venne annientata, intorno al 286, non dai barbari ma dagli stessi romani pagani obbligati dall’imperatore Massimiano a fare sacrifici agli dei e a perseguitare i cristiani.
Il martirio dei soldati comandati da Maurizio e dei pagani convertiti non arrestò tuttavia la penetrazione del cristianesimo in territorio elvetico, anzi la rinforzò. Si sa infatti che verso la fine del III secolo era già molto diffusa la venerazione dei legionari martirizzati nella regione dell’attuale Saint-Maurice, confermando il famoso detto di Tertulliano, secondo cui «il sangue dei martiri è seme di cristiani».
Anche se mancano testimonianze dirette della presenza di comunità cristiane prima del 313, l’anno in cui l’imperatore Costantino dichiarò il cristianesimo religione ufficiale dell’Impero, molti racconti (benché in parte leggendari) riferiscono di monaci, eremiti, luoghi di culto che fanno pensare quanto meno a una cristianizzazione in atto della Svizzera.

Rapida diffusione dopo il 313
Dopo il 313 il cristianesimo e con esso la venerazione dei santi si diffuse in Svizzera un po’ ovunque, come dimostrano ancora oggi le numerose chiese e cappelle dedicate ai santi massacrati insieme a Maurizio (Esuperio, Candido, Innocenzo, ecc.) o sfuggiti miracolosamente al massacro come Orso, Vittore, Felice e Regula.
Basilica di Saint-Maurice
Le comunità cristiane si moltiplicarono dapprima rapidamente, approfittando delle strutture romane, soprattutto nella parte occidentale del Paese. Ovunque (a Saint-Maurice, Ginevra, Martigny, Sion, Romainmôtier, Payerne, Friburgo, Berna, Zurzach, Basilea, ecc.) sorsero chiese, cappelle, monasteri. La costruzione di luoghi di culto e di conventi si estese successivamente anche nella parte centrale e orientale, meno romanizzata (Zurigo, Einsiedeln, Engelberg, Muri, Lucerna, Sant’Urbano, Rheinau, San Gallo, ecc.), nonché nei Grigioni (Coira, Disentis, Müstair) e nel Ticino (Riva San Vitale, Biasca, ecc.).
Dal IX secolo, le storie dei santi venivano spesso arricchite di particolari leggendari atti a ravvivare la devozione popolare. Essi riguardavano in particolare i martiri della Legione tebana, ma anche altri santi e sante come per esempio santa Verena, venerata in diverse regioni della Svizzera.
Secondo una leggenda risalente al XIII secolo, uno dei primo monaci giunti in Svizzera già nel primo secolo sarebbe stato il monaco irlandese Beato, incaricato dallo stesso apostolo Pietro di recarsi in Svizzera. La leggenda racconta anche che dalle grotte che portano il suo nome («Grotte di San Beato»/Beatushöhlen, oggi celebre meta turistica), sul Lago di Thun, avrebbe scacciato un malefico drago che terrorizzava la regione. Ben presto quei luoghi divennero un importante luogo di pellegrinaggio.

Diffusione dei santi patroni
Sta di fatto che, col passare dei secoli, il numero dei santi venerati crebbe enormemente e praticamente ogni parrocchia, ogni diocesi (che raggruppava un certo numero di parrocchie) e, dal XII-XIII secolo, ogni città e Cantone si diedero un santo patrono. Tra i primi, oltre a San Maurizio (venerato non solo nel Vallese, ma anche in altri Cantoni) si possono ricordare i Santi Orso e Vittore (patroni di Soletta), Felice e Regula (patroni di Zurigo), San Teodulo o Teodoro (patrono di Martigny, della diocesi di Sion e del Vallese), San Gallo (patrono di San Gallo), San Nicola (patrono di Friburgo), San Leodegario (patrono di Lucerna insieme a san Maurizio), San Fridolino (patrono del Cantone di Glarona), San Lucio (patrono di Coira), Sant’Enrico (patrono di Basilea), San Vincenzo (patrono di Berna), San Carlo Borromeo (patrono del Ticino), ecc.
San Nicolao della Flüe
Nel Medioevo, almeno inizialmente, il patrocinio dei santi corrispondeva a un sentito bisogno della devozione popolare di avere santi protettori e intercessori. Ben presto, tuttavia, alcuni santi patroni divennero simbolo di un potere giuridico e politico sempre più evidente. La festa del santo patrono era spesso una ricorrenza non solo religiosa, ma anche importante sotto l’aspetto sociale, economico, tributario e persino giudiziario.
Un cenno particolare merita il patrono della Svizzera San Nicolao della Flüe (1417-1487) perché oltre alla santità i contemporanei gli riconobbero una straordinaria autorevolezza. In effetti egli svolse un ruolo determinante come mediatore nel processo di riconciliazione tra Cantoni in lotta tra loro. Durante l’assemblea dei delegati cantonali (Dieta) a Stans nel 1481, il suo intervento in cui invitava tutti a «non allargarsi troppo» fu bene accolto e almeno nell’immediato i contrasti vennero appianati. Qualche tempo dopo, Fratel Nicolao, Bruder Klaus, come veniva chiamato, scrisse un lettera ai signori del Cantone di Berna ricordando loro che «la pace è sempre in Dio, perché Dio è la pace e la pace non può essere distrutta, ma la discordia è distrutta. Cercate dunque di conservare la pace».

Religione e politica: nascita della Confederazione
Il richiamo a Dio, nella politica, non era raro anche sul finire del Medioevo, ma costituiva invece una costante nei secoli precedenti quando politica e religione formavano un binomio quasi inscindibile, nel bene e nel male. Era l'epoca della piena affermazione della società cristiana, delle cattedrali e delle prime università, della diffusione in Europa di numerosi ordini monastici, ma anche delle lotte tra Occidente e Oriente, tra Papato e Sacro Romano Impero, tra Comuni e imperatore. 
Era anche l’epoca in cui si stava formando la Confederazione, la cui data di nascita ufficiale, o perlomeno il suo battesimo, furono stabiliti nel 1291. Dunque non deve suscitare meraviglia se essa è impregnata fin dall’inizio di cristianesimo, ma anche di forti contrasti.
Effettivamente, la sua nascita (o perlomeno il suo battesimo) venne inserita fin dalle prime cronache (per es. il Libro bianco di Sarnen risalente al 1470) in un contesto religioso, il giuramento del Grütli e il primo atto pubblico attestante il patto sancito «l'anno del Signore 1291, al principio del mese d'agosto» («Patto federale») non poteva prescindere dall’invocazione a Dio («Nel nome del Signore, così sia»), anche perché doveva durare «se il Signore lo consente, in perpetuo».
Erano anche tempi difficili perché i Comuni lottavano per la loro indipendenza dal potere dell’imperatore. Anche in Svizzera le comunità valligiane e le città cercavano di sottrarsi in tutti i modi, anche con le armi, al dominio imperiale. Era una lotta destinata a durare e interessò evidentemente numerosi protagonisti.
Di fatto, per secoli la storia civile, politica e militare dei Cantoni svizzeri si è intrecciata con la storia di conventi, abbazie, ordini religiosi, capitoli (ossia corporazioni formate dal clero attivo di una diocesi), principi abati, vescovi principi e persino Stati vescovili (come la Rezia curiense fino al IX secolo) e leghe cattoliche. Nei Grigioni, fin dal XV secolo dominavano le Leghe, una delle quali era chiamata nientemeno che «Casa di Dio» (dal romancio Lia da la Chadé) ed ebbe importanza fino al 1854 anche nell’ambito dell'organizzazione politica del nuovo Cantone dei Grigioni. Nel frattempo, tra il 1845 e il 1847, un’altra lega, ben più importante, aveva messo a rischio la tenuta della sostanziale pace religiosa intervenuta dopo la Riforma tra cattolici e protestanti e addirittura la tenuta della stessa Confederazione. Era la «Lega separata» (Sonderbund) dei sette Cantoni conservatori cattolici di Lucerna, Uri, Svitto, Untervaldo, Zugo, Friburgo e Vallese. Data la sua importanza, merita un approfondimento. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 2 marzo 2016

01 marzo 2016

No all’automatismo delle espulsioni, ma resta ancora molto da fare



All’indomani di ogni votazione è inevitabile la domanda: «chi ha vinto e chi ha perso?», soprattutto se il tema da decidere è di quelli sensibili come l’espulsione automatica dei criminali stranieri condannati. Questo era infatti uno dei temi in votazione in Svizzera il 28 febbraio scorso. 

Mi sembra tuttavia troppo semplicistico rispondere che, in democrazia, vince sempre la maggioranza, ossia chi prende più voti, e perde la minoranza che ne prende di meno. Una legittima curiosità vorrebbe un’identificazione dei vincitori e degli sconfitti con i partiti politici, ma questo non è sempre possibile, perché per ogni oggetto in votazione si possono creare maggioranze e minoranze diverse e uno stesso partito può far parte della maggioranza in un caso e della minoranza in un altro.
Personalmente preferisco un altro approccio, chiedendomi pure chi ha vinto e chi ha perso, ma soprattutto le motivazioni che hanno determinato nel caso specifico la maggioranza che ha respinto con il 58,9% di voti l’iniziativa dell’Unione democratica di centro (UDC) e la minoranza che la sosteneva.

Ha vinto la democrazia
Anzitutto mi piace far notare che in questo Paese vince sempre e comunque la democrazia perché il popolo svizzero, chiamato periodicamente a esprimere il suo assenso o dissenso anche su temi scottanti, si reca alle urne generalmente bene informato e decide liberamente senza sentirsi obbligato a seguire le parole d’ordine dei partiti, delle chiese, dei sindacati e dello stesso Parlamento rappresentativo.
Non oso immaginare quali sarebbero i risultati se analoghi quesiti venissero proposti al voto popolare in altri Paesi, per esempio in quelli che attorniano la Svizzera. Qui il popolo svizzero, con una sorprendentemente alta partecipazione (63,4%), ha respinto con il 58,9% di voti l’iniziativa popolare dell’Unione democratica di centro (UDC) che voleva un certo automatismo delle espulsioni degli stranieri criminali. Le percentuali sarebbero state molto più alte nei Paesi vicini?
Per cercare di cogliere le motivazioni che hanno spinto l’elettorato a respingere l’iniziativa UDC mi sembra opportuno ricordare che nella votazione del 28 novembre 2010, vertente anch’essa sull’espulsione dei criminali stranieri (ma senza esigere l’automatismo), il popolo svizzero aveva accettato con la maggioranza del 52,9% l’oggetto in votazione.
Poiché a proporre entrambe le iniziative sono state le stesse forze politiche, con in testa l’UDC, il diverso risultato del 2010 e del 2016 mi fa dire anzitutto che il popolo svizzero non è condizionato dai partiti e non è sempre disposto a premiare il partito di maggioranza (alle ultime elezioni dello scorso anno l’UDC è risultato il primo partito svizzero), ma giudica e decide con la testa non con la pancia, alla luce di molteplici considerazioni.

Motivi del rigetto
E’ probabile, per esempio, che la maggioranza dei votanti abbia ritenuto sufficiente la decisione del 2010 (che prevedeva leggi, ordinanze d’applicazione e decisioni dei tribunali per attuare un’espulsione) ed esagerata la proposta del 2016 di inserire nella Costituzione una sorta di espulsione automatica (per certe tipologie di reati, anche di lieve gravità se ripetuti). Se ciò fosse vero (e personalmente ne sono convinto) sbaglierebbe chi pensasse a una sorta di addolcimento del popolo svizzero nei confronti dei criminali stranieri, come se avesse cambiato idea in questi ultimi anni nei loro confronti. L’elettorato che si è recato a votare sapeva infatti benissimo, anche perché la ministra della giustizia Simonetta Sommaruga l’ha ripetuto più volte, che sta per entrare in vigore una legge federale sulle espulsioni tra le più severe in Europa. Proprio per questo ha ritenuto inutile e forse dannosa la nuova iniziativa dell’UDC.
Credo inoltre che il popolo svizzero, notoriamente moderato e sostanzialmente conservatore, non ami affatto tutte quelle proposte innovative che potrebbero sconvolgere la vita sociale o le istituzioni consolidate da tempo. Certamente molti dei votanti hanno ritenuto che l’accettazione dell’iniziativa dell’UDC avrebbe significato esautorare in qualche modo la magistratura, attentare ai principi dello Stato di diritto (fondato sulla separazione dei poteri), sfiduciare lo stesso Parlamento incaricato di approvare una giusta legge di applicazione dell’iniziativa approvata nel 2010, esporre la Svizzera a molte critiche da parte di importanti istituzioni internazionali, ecc.
Sono anche convinto che almeno una parte di coloro che hanno respinto l’iniziativa hanno valutato anche il rischio di compromettere, se fosse stata accettata, la politica d’integrazione che le istituzioni svizzere (Confederazione, Cantoni e Comuni) stanno portando avanti da almeno una ventina d’anni con indubbi successi. Molti gruppi di popolazione straniera (e metterei ai primi posti gli italiani) non solo sono ben integrati, ma si sentono corresponsabili del futuro della Svizzera.

Il futuro esige maggiore integrazione e collaborazione
Se dopo la bocciatura dell’iniziativa UDC si può tirare un sospiro di sollievo da parte dell’elettorato moderato e maggiormente aperto agli stranieri, non credo che si possa da nessuna parte (politica) gridare alla vittoria, perché se si è evitato il peggio, non è detto che il futuro sia ormai definitivamente privo di ostacoli.
Intanto non va sottovalutata la forza dell’UDC che conserva un solido radicamento nell’elettorato svizzero e incontra ancora molti consensi (a favore dell’iniziativa si è espresso oltre il 40% dei votanti, ossia una percentuale che va ben oltre la consistenza degli elettori del 2015 che hanno portato l’UDC ad essere il primo partito della Svizzera). Inoltre si può stare certi che questa forza verrà utilizzata per vigilare sull’applicazione della legge sulle espulsioni, non certo per evitarle.
Resta pertanto ancora molto da fare per una convivenza serena e collaborativa e tutti, svizzeri e stranieri, dovrebbero contribuire a sviluppare ulteriormente la politica d’integrazione, stimolare il senso di appartenenza e di collaborazione, restare uniti perché la Svizzera prossimamente sarà chiamata a una grande prova di compattezza e di solidarietà nelle trattative con l’Unione europea.
Giovanni Longu
Berna, 1° marzo 2016