07 ottobre 2015

Capire la Svizzera: 2. Libertà da conquistare e salvaguardare



La Svizzera, oggi, come in generale ogni Paese libero, vive la condizione di libertà in maniera del tutto «normale», ma non si può dire che attorno alla «libertà» non ci siano più discussioni, interrogativi, preoccupazioni. Gli svizzeri, a differenza di altri popoli, sanno più o meno tutti che i loro antenati hanno dovuto lottare per raggiungerla e per conservarla. Anche coloro che oggi non hanno difficoltà ad ammettere che non sono esistiti né Guglielmo Tell né congiurati riuniti sul praticello del Grütli né eroi di Morgarten (tanto è vero che vengono considerati «miti di fondazione»), non possono negare che all’origine della Confederazione ci sia stata una lotta per sottrarre le comunità montane dei Cantoni cosiddetti «primitivi» (Uri, Svitto e Untervaldo) dalla sudditanza agli Asburgo.

Il gusto della libertà veniva di lontano
La volontà di vivere «liberi» dei primi confederati veniva di lontano. In effetti la storia degli svizzeri è stata caratterizzata in larga parte da una lotta continua per sottrarsi al dominio di altri popoli o per mantenere quel grado di indipendenza (e di benessere) che erano riusciti a conquistarsi.
Cesare sconfisse gli Elvezi ma assicurò loro pace e prosperità
All’epoca in cui Giulio Cesare (100-44 a.C.) sottometteva la Gallia, gran parte dell’attuale territorio svizzero tra il Reno, il Giura, il Lago Lemano, il Rodano e le Alpi era popolata da tribù celtiche e germaniche (Elvezi, Allobrogi, Nantuati, Veragri, Seduni, Tulingi, Tigurini, Rauraci, Verbigeni, Reti, ecc.). Il gruppo più numeroso era costituito dagli Elvezi, ai quali Cesare attribuiva un «valore superiore». Sapeva infatti che in passato erano riusciti persino a sconfiggere gli stessi romani (battaglia di Agen del 107 a.C.). Ciononostante, quando gli Elvezi, seguiti da altre tribù, nel 63 a.C. cercarono di penetrare nella Gallia già conquistata dai Romani alla ricerca di terreni più fertili e più sicuri per una popolazione in crescita e per sfuggire alle continue incursioni da nord dei Germani, Cesare non esitò ad affrontarli (battaglia di Bibracte, 58 a.C.) e a costringerli a rientrare nel loro territorio.

L’alleanza con i Romani
Cesare, che mirava soprattutto a impedire che i Germani oltrepassassero il Reno e invadessero l’Impero, non infierì sugli Elvezi vinti, ma preferì concedere loro una pace onorevole e un’alleanza (foedus) che assicurava loro protezione e molta libertà o almeno quanta era compatibile con lo stato di soggezione. Il patto consentiva infatti ai Romani di occupare qualsiasi punto strategico e d’impiantarvi colonie e insediamenti fortificati (oppida), ma agli Elvezi garantiva la sussistenza e di vivere in pace e in sicurezza, autogovernandosi con magistrati propri.
In effetti, sotto l’occupazione romana vennero fondate in tutto il territorio elvetico diverse città fortificate (Aventicum/Avenches, Eburodunum/Yverdon, Vindonissa/Windisch, Augusta Rauricorum/Augst, Solodurum/Soletta, Iulia Equestris/Nyon, Genava/Ginevra, Turicum/Zurigo, Curia/Coira, ecc.) e gli Elvezi poterono a lungo prosperare in pace e in libertà.
La dominazione romana ha lasciato in Svizzera numerose
tracce. Nella foto l’anfiteatro romano di Martigny (Vallese)
Scriverà nel 1840 l’erudito francese Philippe de Golbéry che da allora «una lunga pace regnò su l’Elvezia, la Rezia ed il Valese, l’industria ed il lavoro penetrarono nelle Alpi; si seppe trar profitto dai loro alberi, dalle piante e dagli uccelli; si strappò il marmo dalle viscere della terra; si arrampicarono sulla rupe, asilo dei camosci; e dalla profondità dei laghi si trassero pesci sconosciuti. Da allora il latte delle vacche svizzere era rinomato, i formaggi avevano della celebrità; l’agricoltura faceva progressi; si perfezionò l’aratro e la vite di Rezia produsse un succo rivale del Falerno…».
Fra l’altro, sotto la dominazione romana, l’Elvezia fu dotata di un’importante rete stradale da est a ovest e da nord a sud, che consentiva non solo gli spostamenti veloci delle legioni, ma facilitava anche gli scambi e il trasporto delle merci. Ben presto, fin dai primi secoli d.C. ne approfittarono artigiani, mercanti, viaggiatori, monaci, che avviarono in molte parti del Paese numerose attività produttive e una vita civile romanizzata e cristianizzata, destinata a svilupparsi ulteriormente soprattutto dopo l’anno Mille.

Libertà da riconquistare
Nel frattempo, gli Elvezi dovettero subire le principali vicissitudini politiche e militari dell’epoca, dalle invasioni barbariche degli Alemanni alla sottomissione di gran parte del loro territorio da parte dei Burgundi prima, poi dei Franchi, quindi di grandi e piccoli feudatari, di alcune potenti casate germaniche (i Zähringen, i conti di Kyburg, ecc.) e infine dei re e imperatori del Sacro Romano Impero.
Un ramo cadetto degli Asburgo, quello degli Zähringen, intorno al Mille possedeva molti territori soprattutto in quella che oggi è la Svizzera nord-occidentale. Gli Elvezi, tuttavia, mal sopportavano la dominazione straniera e cercarono di condurre vita autonoma soprattutto nelle vallate della Svizzera centrale, dove si resero conto ben presto dell’importanza dei passaggi alpini per le comunicazioni tra nord e sud. Anche molte città fondate o dominate dagli Zähringen, cercarono e ottennero dall’impero ampie autonomie e il riconoscimento di «città imperiali». Era il prezzo minimo che gli imperatori germanici dovevano pagare per assicurare ai propri eserciti il passaggio attraverso i loro territori e le vallate alpine verso l’Italia.
E’ verosimile che la ventata di libertà e di autogoverno che pervase molte città del Nord Italia e del Nord Europa intorno all’anno Mille sia giunta anche nelle vallate della Svizzera centrale. Immediatamente non ebbe risultati apprezzabili perché a nord della Alpi l’Impero era ancora forte, ma non appena cominciò a dare segni di debolezza (XIII secolo) suscitò in quelle comunità un forte desiderio di affrancarsi dal dominio imperiale, non necessariamente con l’uso delle armi, e di autogestirsi.
Nel 1291, approfittarono della morte dell’imperatore Rodolfo I d’Asburgo (15 luglio 1291), alcune comunità valligiane svizzere decisero di sottrarsi alla dipendenza dall’imperatore per assumere direttamente il controllo dei propri beni e soprattutto dei passaggi alpini. In quale forma e quando sia avvenuta tale decisione non è dato sapere con precisione, ma è storico un documento dell’inizio di agosto del 1291, noto come «Patto federale», in cui le tre comunità di Uri, Svitto e Untervaldo (il nucleo della futura Confederazione elvetica) dichiaravano di stringere un patto (foedus, da cui deriverà federale) di difesa contro qualsiasi aggressore.

Lotte e alleanze
l «Patto federale» del 1291 segna ufficialmente
l’inizio della Confederazione svizzera
Nel Patto federale del 1291, considerato dalla fine del XIX secolo «ufficialmente l'atto fondatore della Confederazione Svizzera», la parola «libertà» non compare mai, ma è implicita già nel primo paragrafo: «Sia noto dunque a tutti, che gli uomini della valle di Uri, la comunità della valle di Svitto e quella degli uomini di Untervaldo, considerando la malizia dei tempi ed allo scopo di meglio difendere e integralmente conservare sé ed i loro beni, hanno fatto leale promessa di prestarsi reciproco aiuto, consiglio e appoggio, a salvaguardia così delle persone come delle cose, dentro le loro valli e fuori, con tutti i mezzi in loro potere, con tutte le loro forze, contro tutti coloro e contro ciascuno di coloro che ad essi o ad uno d'essi facesse violenza, molestia od ingiuria con il proposito di nuocere alle persone od alle cose. Ciascuna delle comunità promette di accorrere in aiuto dell'altra, ogni volta che sia necessario, e di respingere, a proprie spese, secondo le circostanze, le aggressioni ostili e di vendicare le ingiurie sofferte».
Poiché i beni posseduti da quelle comunità dovevano essere ben poca cosa, si deve ritenere che la posta in gioco non riguardasse tanto i beni (territori, pascoli, bestiame, tributi), quanto piuttosto i diritti: da parte dell’imperatore il diritto acquisito al dominio con i privilegi connessi (acquisire tributi, imporre la legge, diritto di passaggio, ecc.), da parte dei valligiani il diritto all’autogoverno (con organi decisionali e giudicanti propri, sovranità piena sul territorio), o semplicemente alla libertà, «quella libertà che gli Svizzeri avevano ricevuta dai loro antenati» e che «volevano trasmettere pure ai loro discendenti» (de Golbéry).

La libertà come bene assoluto
La libertà divenne il bene assoluto per cui meritava combattere. Nel «Guglielmo Tell» di Gioachino Rossini (1792-1868) essa costituisce il filo conduttore del processo di liberazione del popolo svizzero dall’oppressore asburgico avviato dall’abile arciere di Uri che riesce a motivare le popolazioni delle vallate vicine a lottare per l’indipendenza e la libertà al grido «o libertade o morte» (atto 2).
A prescindere dagli eventi narrati nei cosiddetti «miti di fondazione» (Giuramento del Grütli, Guglielmo Tell, distruzione di rocche, gesta di eroi ardimentosi, ecc.) è certo che i rapporti tra gli svizzeri e gli Asburgo divennero sempre più tesi e destinati a durare tali per alcuni secoli. Solo nel 1648 con la Pace di Vestfalia la Svizzera venne riconosciuta ufficialmente sovrana e indipendente dall’Impero.
La storia della liberazione degli svizzeri, si sa, ha avuto un andamento e tempi differenti, ma l’idea della libertà come bene supremo da conquistare e difendere ha sicuramente accompagnato e talvolta condizionato tutti i principali avvenimenti della storia svizzera. Per gli svizzeri, è stato scritto (Eugène Rambert), «ogni questione di libertà approda a una questione di esistenza», al punto di «non poter essere senza sapere di essere liberi»(Segue)
Giovanni Long
Berna, 7.10.2015

30 settembre 2015

Capire la Svizzera: 1. Introduzione: conoscere e capire



Sarà capitato a tutti sentire o leggere giudizi, per lo più negativi, generici e perentori, su un popolo o su una nazione. Non sono quasi mai giustificati perché non tengono conto della complessità e del contesto. Molto spesso nascondono gravi lacune conoscitive e soprattutto l’incomprensione di quello che alcuni filosofi hanno chiamato «lo spirito di un popolo», fatto di storia, ideali ed essere.
Qualche anno fa, in un articolo intitolato «La Svizzera, questa sconosciuta», la giornalista ticinese Luciana Caglio sosteneva che «si può visitare un paese, risiedervi per motivi di lavoro o di convenienza, persino essere ufficialmente cittadini, senza però conoscerlo veramente». Ne sono convinto anch’io, preferendo tuttavia all’espressione «conoscere veramente» il verbo «capire».

Avvertenze preliminari
Con questo articolo inizio una serie di articoli sulla Svizzera, con la pretesa non di svelare l’essenza di questo Paese e del suo Popolo ma di offrire ai lettori alcuni elementi, soprattutto storici e interpretativi, che ritengo utili per tentare almeno di capirne i tratti essenziali e le motivazioni profonde.
Saranno prese in considerazione alcune caratteristiche tipiche della Svizzera moderna, se ne seguirà l’evoluzione fino alle espressioni attuali. Sarà interessante osservare, per esempio, l’evoluzione di alcuni concetti emblematici come «libertà», «neutralità», «identità nazionale», «coesione nazionale», «democrazia diretta», «solidarietà», «integrazione», «sviluppo», ecc.
Di ognuno di questi concetti si cercherà di cogliere il «significato» più comunemente inteso dalla maggioranza del popolo svizzero, oggi e nel passato, con alcune avvertenze preliminari: la prima: «capire» è qualcosa di più del semplice «conoscere»; la seconda: i concetti, per quanto apparentemente sempre identici nella sostanza, in realtà assumono connotazioni diverse nelle varie epoche; pertanto occorre stare molto attenti a «giudicare» il passato in base a criteri e valori di oggi; la terza: diffidare dalle «generalizzazioni».

Prima avvertenza: capire è più che conoscere
Conoscere e capire sono due verbi usati spesso come sinonimi perché entrambi fanno riferimento all’intelligenza. In questi articoli assumono invece due significati diversi, che emergeranno di seguito. La differenza principale è anzitutto temporale: prima si conoscono e si comprendono (nel significato originale di «prendere e mettere insieme») in un sistema coerente i vari elementi e solo dopo si forma nella mente il «concetto» (dal latino «cum capere»), ossia il risultato del capire. In questo processo la conoscenza è dunque condizione previa e indispensabile per capire, secondo il detto: «si può capire solo ciò che si conosce».
Tra conoscere e capire, sempre nel contesto di questi articoli, c’è anche una differenza qualitativa: mentre la conoscenza è di per sé illimitata, per capire è spesso sufficiente una conoscenza limitata, purché significativa. Talvolta per capire bastano pochi segnali. Per capire che si tratta di un incendio non occorre sapere come è stato provocato, chi l’ha provocato, che cosa sta andando in fumo, ma basta vedere anche di lontano il fumo e le fiamme.
Questo modello di conoscenza non è sempre facilmente applicabile, soprattutto quando l’oggetto del «capire» è una Nazione, uno Stato, un Popolo. Anche una conoscenza approfondita della storia, della geografia, delle istituzioni di un Paese non è di per sé sufficiente per «capire» lo spirito del suo Popolo. Gli eventi si possono studiare e conoscere nella loro origine e nelle loro conseguenze perché sono «determinati», lo spirito invece è per sua natura indeterminato, libero, vivo, mutevole.
Trattandosi della Svizzera, un Paese notoriamente complesso sotto molti punti di vista, l’intento potrebbe apparire azzardato, ma non è impossibile. La storia della Confederazione moderna presenta infatti tratti caratteristici piuttosto costanti, anche se continuano a risentire dei condizionamenti dell’evoluzione interna e internazionale. Seguire questa evoluzione faciliterà sicuramente il compito, anche se resta difficile.

Seconda avvertenza: i concetti assumono nel tempo connotazioni diverse
Osservando la storia svizzera si nota facilmente come una serie di valori ritenuti generalmente «fondamentali» cambino connotazioni col passare del tempo e il mutare del contesto nazionale e internazionale. E’ ovvio, perché di generazione in generazione anche il corpo sociale muta, si trasforma, evolve, si adatta alle mutate condizioni e reinterpreta di volta in volta anche i valori ritenuti fondamentali. Si pensi nella storia della Svizzera ai concetti di «libertà», di «patria», di «identità nazionale» e, in generale, a tutti i concetti evocati sopra.
In questo percorso conoscitivo, giunti alla conclusione in cui diciamo a noi stessi «ho capito», si può cadere nella tentazione di interpretare l’intero processo fin dall’inizio alla luce del punto di arrivo. Sarebbe un errore, che in questi articoli s’intende evitare, sperando di riuscirci.

Terza avvertenza: diffidare delle generalizzazioni
La tentazione di generalizzare sulla base di pochi casi disponibili è grande. Molti, anche esperti ricercatori, la praticano con una certa disinvoltura non necessariamente perché vogliono evitare la fatica di una ricerca più estesa e di un’analisi approfondita, ma magari perché i casi esaminati appaiono sufficienti, anche se pochi.
In realtà, soprattutto in certi campi delle scienze umane, la generalizzazione è un metodo di difficile utilizzazione. Per applicarlo correttamente bisognerebbe disporre di un numero di casi statisticamente significativi, di cui invece spesso non si dispone oppure di una serie di casi talmente convergenti nel loro significato da rendere inutile l’ulteriore ricerca. Occorre pertanto molta prudenza di fronte alla tentazione di generalizzare.

A titolo di esempio
Per rendere meglio l’idea di quanto detto e dello scopo di questi articoli, commenterò brevemente a titolo di esempio alcune espressioni contenute in un lungo articolo sulla disgrazia di Mattmark del 1965, pubblicato sul settimanale ticinese Il Caffè del 30 agosto 2015 a firma di tre ricercatori (Toni Ricciardi, Sandro Cattacin e Rémi Baudouï) che hanno a lungo indagato sul quella catastrofe.
Nell’articolo, che si riferisce all’epoca dei fatti, si legge fra l’altro (le sottolineature sono mie): «La Svizzera terra di ingiustizie? In un certo senso si può affermare oggi che la politica nei confronti della migrazione, prevalentemente italiana negli anni del secondo dopoguerra, introdusse un regime democratico di facciata, umano e giusto per gli svizzeri, ma anche una specie di Apartheid. Stagionali senza diritti di residenza, obbligati a nascondere la famiglia, sicurezza sociale parziale […], nessuna cittadinanza politica, anzi interdizione di organizzarsi politicamente in quanto stranieri, privilegio degli svizzeri sul mercato del lavoro. Queste erano solo le discriminazioni legali. A ciò si aggiunse un regime di sfruttamento fino all’esaurimento dei lavoratori e delle lavoratrici nell’industria e nelle costruzioni […]. In quel periodo, le italiane e gli italiani in Svizzera non furono solo discriminati legalmente e sfruttati nel mercato del lavoro, ma furono anche vittime della xenofobia quotidiana. Ad esempio, venne loro interdetta l’entrata in certi ristoranti quasi a ricordare il tristemente famoso “Juden werden nicht bedient” (gli ebrei non vengono serviti). Innumerevoli sono i racconti del disprezzo vissuto dagli italiani in Svizzera e Mattmark fu l’ennesimo schiaffo […]».
Questa citazione, ridotta per motivi di spazio, illustra bene ciò che un buono storico non dovrebbe fare, ossia utilizzare «concetti» attuali per giudicare una realtà del passato, in cui verosimilmente vigevano altri concetti o quantomeno avevano connotazioni diverse, e generalizzare casi poco omogenei o comunque non univoci, oltretutto senza tener conto del contesto.
A parte i richiami dell’Apartheid o peggio degli ebrei discriminati nei locali pubblici, che trovo del tutto fuori luogo e fuorvianti in riferimento agli immigrati italiani, ritengo infondate e perciò arbitrarie molte delle affermazioni riferite agli stagionali. Per sostenere che lo statuto dello stagionale era discriminatorio bisognerebbe infatti provare che violasse qualche legge svizzera o qualche accordo internazionale. Questo però non risulta, visto che era sicuramente conforme al diritto svizzero e anche al diritto internazionale. Del resto gli stessi stagionali, firmando liberamente il contratto di lavoro, venivano a conoscenza e accettavano tutte le limitazioni ch’esso comportava. Nessun immigrato era obbligato a sottoscriverlo, a prescindere dal fatto che le autorità diplomatiche e consolari, specialmente nel caso degli italiani, vigilavano sulla conformità del contratto alle leggi e agli accordi bilaterali sottoscritti. Al riguardo, le eccezioni che pure vi sono state, non fanno che confermare la regola.
Quanto poi alle affermazioni sulla presunta privazione di alcuni diritti, basterebbe rileggersi le leggi e le ordinanze dell’epoca per rendersi conto quanto siano infondate. Lo statuto dello stagionale non dava infatti diritto alla residenza (se s’intende con questo termine il domicilio), né al ricongiungimento familiare, né
alla cittadinanza politica (che significa?), ecc. Perché dunque gli autori dell’articolo parlano di «discriminazioni legali» al riguardo? Che dire poi quando essi affermano che gli stagionali erano «obbligati a nascondere la famiglia», senza dire chi li obbligava e senza ricordare che in punto di diritto nessuno straniero poteva risiedere in Svizzera senza autorizzazione? Questo lo sapevano anche gli stagionali. Che il fenomeno dei «bambini clandestini» sia stato molto triste per chi l’ha subito è innegabile, addossarne la responsabilità a una sola parte, in termini di discriminazione, mi pare demagogico.
Demagogico è anche parlare di «sfruttamento fino all’esaurimento», senza ricordare che molto spesso erano gli stessi lavoratori immigrati che si autosfruttavano preferendo il lavoro a cottimo, chiedendo di fare gli straordinari e persino praticando il doppio lavoro. La verità, quando si vuol dirla, la si dovrebbe dire tutta.
Tali esempi mi servono, in questo contesto, per dare l’idea di ciò che non intendo fare nei prossimi articoli, nella convinzione che per il rispetto che si deve al lettore sia preferibile fornire elementi utili per giudicare piuttosto che emettere giudizi azzardati e contestabili. Meglio attenersi ai fatti. Oltretutto un po’ di modestia non guasta mai! (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 30.09.2015


23 settembre 2015

Dibattito religioso aperto, ma sottotono


 
Questa estate la stampa nazionale è più volte intervenuta su questioni religiose, senza per altro aprire un vero dibattito nell’opinione pubblica. La Svizzera ha conosciuto la guerra di religione, le difficoltà di convivenza tra etnie diverse non solo per lingua, cultura, condizione economica, ma anche per confessione religiosa. Persino la provenienza di numerosi immigrati da Paesi tradizionalmente cattolici come l’Italia e la Spagna ha creato fino agli anni ’70 del secolo scorso difficoltà di rapporti tra indigeni e stranieri. Ora, da qualche decennio, la Svizzera conosce una solida pace religiosa, e non intende certo metterla in pericolo, nonostante periodiche strumentalizzazioni di una parte minoritaria della popolazione che considera l’ascesa della componente musulmana una minaccia.

La pace religiosa tiene
La pace religiosa tiene perché non ci sono più motivi di conflitto. Il paesaggio religioso della Svizzera è abbastanza stabile, dopo i grandi mutamenti degli ultimi cinquant’anni, che hanno visto aumentare la componente cattolica, divenuta predominante, e diminuire quella protestante. Entrambe le confessioni non hanno più motivi di rivalità o di contrasto e non sembrano affatto preoccupate dell’aumento dei musulmani, con cui per altro cercano il dialogo. Semmai, a creare qualche problema (anche di natura finanziaria) per entrambe è il numero crescente di persone che escono dalla chiesa e vanno ad ingrossare la fila delle persone che si dichiarano senza confessione (circa 1 milione e mezzo).
La pace tiene anche o forse soprattutto (?) perché la religione ha nettamente perso il significato e il valore che avevano in passato. L’appartenenza religiosa è sempre più un fatto privato, a parte l’aspetto fiscale obbligatorio per gli appartenenti alle maggiori confessioni di diritto pubblico (la cosiddetta imposta ecclesiastica). Quanto alla partecipazione dei fedeli alle cerimonie religiose, è facile costatare quanto sia divenuto raro e difficile riempire i luoghi di culto.
In questo contesto non può sorprendere che il dibattito religioso in Svizzera sia alquanto sottotono, a cominciare dall’interrogativo sulle responsabilità della situazione, ossia se questa perdita d’importanza della religione, almeno apparentemente, sia più dovuta a forme di materialismo e relativismo assai diffuse in una società del benessere come quella svizzera o anche all’incapacità delle chiese di «sentire» le esigenze della gente e proporre ideali perseguibili.

La discussione sulla famiglia
Uno dei pochi temi su cui il tono del dibattito si è un tantino elevato in questi ultimi mesi è stato quello sulla famiglia. Sebbene in Svizzera questa discussione sia aperta da tempo, sia pure in tono sommesso, quest’estate si è a
nimata per due circostanze particolari.
La prima spinta è venuta dalla convocazione di papa Francesco di un sinodo speciale dedicato alla famiglia ed è stata sicuramente quella più produttiva in quanto ha avviato tra i cattolici una riflessione sul significato della «famiglia cristiana» in un mondo, in particolare quello svizzero, in cui convivono pacificamente diverse tipologie di famiglia: oltre a quella tradizionale fondata sul matrimonio, tutte quelle altre forme costituite dalle famiglie allargate, dalle coppie «di fatto», con o senza figli, eterosessuali e omosessuali, ecc.
La seconda circostanza, che ha provocato molto rumore e poca sostanza, è dovuta ad alcune affermazioni del vescovo di Coira Vitus Huonder sulla omosessualità. Pur essendosi limitato a citare un brano della Bibbia del Vecchio Testamento in cui si evoca la pena di morte per gli omosessuali maschi, fu accusato nientemeno che di istigazione alla violenza. Non penso che intendesse provocare più che una riflessione sulla delicatezza del tema nell’ambito di un approfondimento attorno alla famiglia «cristiana», ma tant’è che tutta la stampa per qualche giorno non ha fatto che parlare del vescovo «ultraconservatore» di Coira, invocando un intervento chiarificatore dei vescovi svizzeri e addirittura del papa.

Temi caldi e aspettative deboli
Anche a prescindere dal tema sollevato dal vescovo Huonder, il prossimo sinodo che si aprirà ad ottobre, dovrà affrontare anche altri aspetti della «famiglia» sui quali a dire il vero le opinioni sono molteplici e alquanto discordanti: le coppie di fatto, etero e omosessuali, la condizione dei divorziati risposati nella chiesa, l’aborto, lo sfruttamento sessuale di donne e bambini, ecc.
Dai media o da discussioni occasionali, se posso interpretare l’opinione pubblica, non mi risulta ci sia tra i cattolici svizzeri una grande attesa di risultati sorprendenti dal prossimo sinodo. In fondo si dà per scontato che né i vescovi né il papa possano allontanarsi dalla tradizione che considera famiglia unicamente quella fondata sul matrimonio e condanna in linea di principio l’aborto, i contraccettivi e altre pratiche contrarie alla morale cattolica. Non si nasconde tuttavia una certa curiosità di vedere come l’assemblea romana e lo stesso papa si esprimeranno alla fine del sinodo sui temi più caldi.
Personalmente ritengo probabile che, soprattutto per impulso di papa Bergoglio, pur lasciando intatta la sostanza della tradizione cattolica in materia di famiglia e sessualità, il sinodo indicherà un diverso orientamento rispetto al passato. Se prima tutta la problematica era vista quasi esclusivamente alla luce della dottrina della fede, dei comandamenti, delle norme canoniche, ora è possibile e oltremodo probabile che finirà per prevalere nelle conclusioni sinodali un’impostazione meno dottrinale e più pastorale.
Per questo, credo, il sinodo insisterà anche sulla variabilità dell’approccio per tener conto delle molteplici problematiche e sensibilità a livello mondiale, senza pretendere d’imporre un’unica visione universalmente valida (si ricadrebbe inevitabilmente nella visione dottrinale del passato). Dal sinodo risulterà inevitabilmente anche una maggiore responsabilità dei vescovi e dei pastori delle diverse chiese locali. Perché la loro azione produca effetti salutari, nel solco della fede cristiana, sarà comunque inevitabile che si lascino guidare dallo Spirito e non dalle mode e nemmeno dai costumi, per quanto diffusi e accettati possano essere.

L’inno nazionale cambierà?
Un altro tema che ha provocato alcuni interventi appassionati sulla stampa ha riguardato la scelta del nuovo inno nazionale. Anche al riguardo va detto che il tema non ha appassionato l’opinione pubblica, ma è interessante notare che anche il mondo politico è intervenuto per non lasciare a parolieri e musicisti in esclusiva la scelta dell’inno nazionale della Svizzera.
Va ricordato che l’attuale inno, che si vorrebbe sostituire, è più simile a un salmo del Vecchio Testamento che a un inno patriottico. Il nome di Dio vi risuona più volte e sta a denotare quanto i padri della moderna Confederazione tenessero a porre la nazione sotto la benedizione e la protezione dell’Onnipotente. Poiché a molti svizzeri questo inno non piace, la Società svizzera di utilità pubblica (SSUP) ha pensato bene di lanciare un concorso per un nuovo inno.
In un ambiente sociale e culturale in cui ormai la religione è divenuta un valore minore, non ci si poteva certo aspettare un semplice ammodernamento della forma del vecchio inno, lasciando in qualche modo inalterata la sostanza. Il fatto è che il nuovo inno uscito vincitore dal concorso a cui hanno partecipato decine di concorrenti sembra tutt’altra cosa rispetto a quello attuale. Il significato religioso è totalmente scomparso perché, secondo l’autore dell’inno vincitore, Werner Widmer, «non abbiamo bisogno di una nuova preghiera», ma di una maggiore «apertura al mondo», in cui i valori da difendere sono la libertà, la pace, la pluralità, la solidarietà, ma non la religione. Eppure, secondo il mandato dell’associazione che aveva lanciato il concorso, la base del nuovo inno doveva essere il preambolo della Costituzione federale, che inizia con queste parole: «In nome di Dio Onnipotente!».
Questa scelta però non a tutti piace e, soprattutto nel mondo cattolico, molti sono insorti contro la proposta sostitutiva dell’attuale inno, che secondo la deputata al Gran Consiglio retico Nicoletta Noi-Togni, «è bello e pulito come i paesaggi svizzeri che evoca e rappresenta quella radice di comune conoscenza nel tempo e nel luogo capace di raggiungere l’intimo e di commuovere». Anche il consigliere nazionale Marco Romano è intervenuto presso il Consiglio federale per accertarsi se a fronte dell’iniziativa della SSUP ci sia stato un mandato del governo e contributi federali. Il Consiglio federale ha escluso l’uno e l’altro. Segno che per avere un nuovo inno il popolo svizzero dovrà prima o contemporaneamente dire no a quello attuale e trovare una buona maggioranza per approvarne un altro, che rivesta davvero un carattere «nazionale».
La discussione, anche se molto contenuta, su uno dei principali simboli del Paese sta a denotare che il popolo svizzero non si appassiona forse tanto alle questioni religiose istituzionali, ma è ancora molto sensibile ai suoi miti e ai suoi simboli. La «croce svizzera» fu decretata stemma ufficiale della Confederazione già nel 1815, quando ancora lo Stato federale non esisteva. Il mitico «Patto federale» del 1291 comincia con questa invocazione: «Nel nome del Signore, così sia». La prima Costituzione federale del 1848, fondamento della Confederazione moderna, si apre con un richiamo simile: «In nome di Dio Onnipotente!». La stessa espressione è ancora presente nel preambolo dell’attuale Costituzione del 1999. La Svizzera è disseminata di monumenti religiosi ultramillenari, considerati di «importanza nazionale». E’ ancora attiva, ininterrottamente da oltre 1500 anni, la più vecchia abbazia benedettina dell’Occidente, Saint-Maurice nel Vallese.
Non è pensabile che, all’improvviso, il popolo svizzero volti le spalle a questa plurisecolare tradizione, sia pure per un nuovo inno nazionale… che non la rappresenta.

Giovanni Longu
Berna, 23.9.2015

22 settembre 2015

L’Abbazia di Saint-Maurice ha compiuto 1500 anni




L’Abbazia di Saint-Maurice, nel Vallese (Svizzera), è probabilmente la più antica istituzione occidentale che da quindici secoli testimonia ininterrottamente la fede cristiana. Oggi si è concluso solennemente l’anno di festeggiamenti con una bella allocuzione del consigliere federale Didier Burkhalter alla presenza di un folto pubblico e numerosi rappresentanti delle autorità e di istituzioni civili, religiose e militari.

Saint-Maurice baluardo della fede da quindici secoli
Abbazia di Saint-Maurice (foto gl)
La cristianizzazione in Svizzera è cominciata presto, introdotta dai soldati romani, ma si è sviluppata soprattutto a partire dal VI secolo. In quel periodo, soprattutto nei presidi romani e nelle regioni da loro controllate, dunque soprattutto nella Svizzera occidentale, cominciarono a sorgere chiese, cappelle, monasteri.
Già nel IV secolo era stato edificato nella regione di Saint-Maurice un primo santuario dedicato a San Maurizio e ai martiri della Legione Tebana, costituita da cristiani. In esso erano stati raccolti i resti del santo e dei legionari che, alla fine del III secolo, sotto la dominazione di Diocleziano e Massimiano, erano stati uccisi per essersi rifiutati di perseguitare le popolazioni del Vallese convertitesi al cristianesimo. Divenuto troppo piccolo per contenere i numerosi fedeli che vi affluivano per devozione al santo, il re cattolico burgundo Sigismondo il 22 settembre 515 avviò la costruzione dell’attuale abbazia a ridosso della montagna sovrastante.
Da allora l’abbazia di Saint-Maurice ha costituito uno dei principali baluardi della fede cristiana in Svizzera. L’anno scorso, rivolgendosi alla Conferenza dei vescovi svizzeri recatisi in visita in Vaticano, papa Francesco ricordò esplicitamente «la lunga tradizione cristiana della Svizzera» e il giubileo dell’Abbazia, «un’impressionante testimonianza di 1.500 anni di vita religiosa ininterrotta, un fatto eccezionale in tutta l’Europa».
Chiostro dell'Abbazia di Saint-Maurice (foto gl)
Non so se gli svizzeri vanno fieri di questo primato, ma è certo che la Svizzera è impregnata di testimonianze cristiane. L’abbazia di Saint-Maurice è quella più antica, ma numerose altre, non meno significative, sono sparse in tutta la Svizzera. Molte sono ormai ultramillenarie. Solo nella regione di Thun (Cantone di Berna), ci sono dodici di queste chiese in stile romanico/gotico. Molte chiese, abbazie, collegiate sono anche autentici gioielli d’arte, noti anche fuori dei confini svizzeri. Basti ricordare le abbazie di San Gallo, Disentis e Müstair (nel Cantone dei Grigioni), Romainmôtier e Payerne (Vaud), Hauterive (Friburgo), Engelberg (Obvaldo), Einsiedeln (Svitto), le cattedrali di Basilea, Losanna, Ginevra, Zurigo, le collegiate di Saint-Ursanne (Giura), Neuchâtel, San Vittore (Ticino), Valere (Vallese), ecc.
In ogni città svizzera, ma anche nei piccoli centri e persino in molte campagne sono visibili i segni della presenza del cristianesimo attraverso grandiose cattedrali, santuari, chiese parrocchiali, cappelle, croci, statue, nomi di piazze e di strade intestate a eventi e personaggi della cristianità.

Presenza diffusa e radicata del cristianesimo
I segni della tradizione cristiana della Svizzera non si limitano ai monumenti. La stessa Costituzione federale comincia con un’invocazione a Dio: «In nome di Dio Onnipotente», la croce svizzera contrassegna tutti gli edifici pubblici federali e simboleggia la Svizzera a livello internazionale con la sua bandiera quadrata di colore rosso con una croce greca bianca al centro. Persino l’inno nazionale è una sorta di invocazione religiosa, tanto è vero che è conosciuto come «salmo svizzero».
La presenza di tanti segni cristiani spiega forse quell’atteggiamento di chiusura che talvolta si nota nel popolo svizzero soprattutto nei confronti dei musulmani (si pensi alla votazione del 2009 contro l’edificazione di minareti), come se la religione islamica rappresentasse un corpo estraneo fastidioso in questo tessuto quasi bimillenario. Spiega anche quella generale diffidenza che ha suscitato recentemente la proposta di un nuovo inno nazionale dove il richiamo del Trascendente è totalmente scomparso.
E’ sorprendente, tuttavia, come la coscienza cristiana del popolo svizzero, sembri risvegliarsi solo in certe occasioni, mentre abitualmente non dà segni di particolare vivacità. E’ facile del resto costatare quanto sia divenuto raro e difficile riempire i luoghi di culto, sia quelli cattolici sia quelli protestanti. Sembra addirittura che la società svizzera consideri ormai la religione nemmeno più un valore primario, ma solo un sentimento personale senza alcun riscontro esterno necessario. Eppure, pur senza bruciare, la fiamma della fede cristiana sembra ancora essere presente nella coscienza sociale del popolo svizzero.
Giovanni Longu
Berna, 22.9.2015

09 settembre 2015

Mattmark 1965 non fu solo una tragedia


Il 30 agosto scorso è stata ricordata nel corso di una cerimonia solenne la tragedia di Mattmark del 1965, che costò la vita a 88 lavoratori addetti alla costruzione di una diga nell’Alto Vallese. Essendo stata la più grave disgrazia avvenuta sul lavoro nella Svizzera moderna, che ha coinvolto ben 56 italiani, 23 svizzeri, 4 spagnoli, 2 austriaci, 2 tedeschi e 1 apolide, e trattandosi del cinquantenario della sciagura, la copertura mediatica è stata notevole, sia in Svizzera che in Italia.

Non è stata solo una tragedia
Ho già rievocato più volte, anche di recente (il 19.8.2015), l’evento tragico di Mattmark ma desidero tornare sull’argomento perché leggendo molti articoli e vedendo diversi filmati ho avuto l’impressione che il principale messaggio fornito dai media all’opinione pubblica sia stato quello negativo della tragedia e delle responsabilità non chiarite e non punite. Ritengo questa visione parziale e unilaterale perché trascura alcuni elementi di verità che meriterebbero di essere messi in evidenza, se non altro per affermare che Mattmark non è stata solo una tragedia.
Senza voler essere più manzoniano del Manzoni che vedeva nelle vicende umane l’intervento della Provvidenza divina, per cui anche dal male può nascere il bene, non c’è dubbio che dal male della tragedia di Mattmark è derivato anche tanto bene. Basti pensare ai notevoli progressi nella normativa e nella pratica riguardanti la sicurezza del lavoro. Anche i rapporti italo-svizzeri sono andati via via migliorando. Ma a beneficiarne è stato soprattutto il clima generale dei rapporti tra popolazione locale e stranieri.
Purtroppo a questi elementi positivi generati dalla tragedia di Mattmark la stampa e i filmati visti hanno dedicato pochissima attenzione, molta invece agli aspetti negativi. A che serve, mi sono chiesto, insistere, per altro senza chiarire, sugli aspetti più problematici delle cause del cedimento del ghiacciaio e insinuare dubbi che non potranno mai essere dissipati circa le responsabilità dei dirigenti del cantiere e sull’obiettività dei giudici che hanno mandato assolti tutti gli imputati?

Pregiudizi
Il cantiere di Mattmark nel 1965 prima della tragedia.
Mi rendo conto che altri, avendo consultato magari qualche documento in più di quelli che ho letto io, possano sentirsi assai vicini alla «verità», ma anch’essi dovrebbero arrendersi di fronte all’impossibilità di ribaltare la «verità processuale» senza un nuovo processo, che non si farà mai. Del resto, in base alle testimonianze rese da sopravvissuti ed esperti durante il processo, i giudici hanno ritenuto «in scienza e coscienza» di non avere prove sufficienti per condannare gli imputati e quindi di doverli assolvere dall’accusa di «omicidio colposo». Questa è la «verità giudiziaria» emersa nei processi e tale rimane. E che non si sia trattato di una «sentenza politica» (come insinua qualcuno) lo dimostra il fatto che non risultano agli atti interferenze dirette di alcun genere del potere politico, né di quello federale né di quello cantonale.
So benissimo che la verità giudiziaria non è «la verità», ma so anche che al di fuori del processo non esiste altro strumento, nemmeno un accurato lavoro di ricerca o un «parere» (che tale rimane) di un luminare del Politecnico federale, per stabilire la «colpevolezza» di un comportamento e quindi la sua condanna. Pretenderla a tutti i costi mi sembra un pregiudizio a danno della stessa verità che si vorrebbe ricercare.
E’ certamente legittimo continuare a nutrire dubbi, ma bisognerebbe avere il coraggio di chiamarli tali, senza dar loro il valore di «prove». Del resto, anche le affermazioni presenti in molti articoli secondo cui i responsabili del cantiere conoscevano il pericolo testimoniano unicamente che era noto a tutti che dal ghiacciaio si staccavano frequentemente dei blocchi di ghiaccio e si producevano slavine e quindi bisognava stare particolarmente attenti. Secondo molte testimonianze, una fra le tante quella del sopravvissuto Ilario Bagnariol, tutti sapevano ma nessuno ci faceva caso, anche perché fino al momento della disgrazia si era continuato a lavorare e a far brillare mine, giorno e notte.

Errore fatale, ma non colpa
Si è parlato dell’incoscienza dei dirigenti del cantiere nel piazzare le baracche sotto il ghiacciaio, ma è facile dirlo solo dopo che l’evento tragico le ha distrutte. Al momento della scelta era stato ritenuto, anche dagli esperti locali, il punto più idoneo e più sicuro. La verità è che nessuno, anche tra i glaciologi più convinti del rischio di valanghe e persino di uno smottamento del ghiacciaio, era in grado di stabilire la sua effettiva pericolosità in quel punto, l’entità della massa di ghiaccio a rischio di precipitare e soprattutto quando l’evento si sarebbe potuto o dovuto produrre.

Il cantiere di Mattmark, che si trovava su un pianoro ritenuto sicuro,
prossimità della diga, fu travolto dal crollo del ghiacciaio il 30 agosto 1965.
Forse sperando che l’evento mai si sarebbe prodotto (visto che l’instabilità del ghiacciaio era nota da secoli ma non era mai capitato che lasciasse cadere a valle milioni di metri cubi di ghiaccio e di detriti), le baracche furono piazzate in prossimità della diga in costruzione e ai  piedi del ghiacciaio (non certo per calcolo economico come qualcuno continua a sospettare) e i lavori continuavano senza troppi allarmismi sia tra i dirigenti del cantiere che tra i lavoratori. Fu un errore fatale, non una colpa (almeno fino a prova certa del contrario). E’ semplicistico affermare che si sia trattato di una «catastrofe annunciata». Ritengo invece che sia umano anche accettare la fatalità e persino l’errore, almeno quello senza colpa.
Non capisco pertanto perché si vorrebbero a tutti i costi dei colpevoli, anche quando la giustizia ha scagionato tutti gli imputati. Forse perché la stampa italiana di allora, quella comunista in particolare, è stata delusa da quella assoluzione? Oppure per confermare la tesi, sostenuta soprattutto dalla sinistra, secondo cui gli immigrati italiani in Svizzera negli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso erano vittime della xenofobia diffusa oltre che di un governo italiano incapace di offrire loro un’occupazione e troppo arrendevole nei confronti del governo elvetico senza nemmeno osare di protestare per lo sfruttamento a cui erano sottoposti i concittadini emigrati? Non so.

Omissioni
Resta il fatto che se si volesse davvero riscrivere la storia dell’emigrazione italiana in Svizzera l’uso delle fonti dovrebbe essere obiettivo e diversificato. Leggendo resoconti e interviste su Mattmark mi è sembrato invece che si siano privilegiate solo alcune fonti, si sia voluta ascoltare una sola campana dando per scontato che l’altra era stonata. In effetti hanno trovato poco spazio le testimonianze di quanti ritenevano il cantiere se non proprio sicuro certamente non in procinto di essere travolto, di chi riteneva le condizioni abitative e di lavoro normali e persino ottime (tenuto conto della provvisorietà delle abitazioni, dei turni di lavoro, dell’altitudine in cui era situato il cantiere e delle condizioni meteorologiche), di chi non si sentiva affatto né discriminato né sfruttato.
Invece si parla ripetutamente (suscitando il sospetto della fonte unica o quasi) di «turni di lavoro massacranti in un ambiente assai ostile», di «orari di lavoro fuori controllo, fino a 16 ore al giorno spesso anche di domenica, con temperature che raggiungevano i 35 gradi sotto lo zero (…), vivendo in condizioni igieniche dentro baracche sovraffollate, a volte senza riscaldamento e senza bagni, con le condutture dell’acqua congelate», di «condizioni difficili in cui la comunità italiana era costretta a vivere, senza luce, senza acqua potabile, senza il minimo rispetto delle più elementari misure d’igiene», «chi lavorava a Mattmark era costretto a dormire in baracche, senza wc e senza acqua calda» e altre affermazioni simili.
In quasi tutti gli articoli consultati si è omesso di ricordare, per esempio, che i dormitori principali, in cui era alloggiata la maggior parte dei 700 e più lavoratori, erano situati a chilometri di distanza dal luogo del disastro e non erano casupole squallide ma prefabbricati a regola d’arte con tutti i confort del caso (acqua calda e fredda, elettricità, riscaldamento, ecc. ).
Si è omesso anche di dire che tra i lavoratori del cantiere regnava una grande armonia e solidarietà, a prescindere dalla nazionalità, come spesso accade nei cantieri ad alto rischio. Quanto alle condizioni di lavoro, indubbiamente dure, non compare quasi mai l’indicazione precisa degli orari di lavoro e di riposo, eppure si sa che i turni erano nel 1965 due, inframmezzati da pause. Si sa anche che molti italiani facevano volontariamente lo straordinario «per guadagnare di più e mandare i soldi al paese per costruirsi una casa». Circa l’affermazione sul «diverso trattamento economico riservato ai nostri connazionali», non andrebbe dimenticato che in Svizzera, soprattutto in quell’epoca, il salario era commisurato non solo al lavoro svolto ma anche alla qualifica professionale, al livello di responsabilità, all’anzianità, ecc. A parità di condizioni, specialmente dopo l’Accordo italo-svizzero del 1964, i casi di discriminazione salariale erano abbastanza rari.

Mattmark all’origine di una grande svolta
Ciò che mi ha colpito maggiormente nella lettura soprattutto di alcuni articoli in lingua italiana (quelli in lingua tedesca e francese li ho trovati molto più obiettivi e precisi) è la scarsa attenzione ai risvolti positivi della tragedia di Mattmark. Penso in particolare all’insinuazione del dubbio nella coscienza di molti svizzeri su quanto di negativo la destra nazionalista andava dicendo da qualche anno soprattutto nei confronti degli italiani. La straordinaria copertura mediatica della tragedia aveva portato nelle case degli svizzeri non solo la notizia terrificante delle 88 vittime, ma anche l’informazione che quei lavoratori, in maggioranza italiani, non si trovavano in Svizzera per sfruttarne l’economia e il sistema sociale, ma per costruire condizioni di benessere per il Vallese e per la Svizzera intera. Molti ne hanno sicuramente tenuto conto al momento della votazione sulla prima iniziativa antistranieri di Schwarzenbach nel 1970, respingendola.

La diga di Mattmark oggi (foto gl)
Non c’è dubbio che dopo la tragedia di Mattmark anche l’attenzione delle autorità nei confronti degli immigrati è mutata. A livello federale il governo cominciò a dotarsi di un’importante commissione consultiva sul problema degli stranieri. Vennero migliorate le condizioni per i ricongiungimenti familiari soprattutto dei lavoratori italiani (anche per evitare il fenomeno dei bambini clandestini). Anche i sindacati guardarono con più attenzione alle problematiche dei lavoratori stranieri e già nel 1966 avviarono una stretta collaborazione nel settore della formazione professionale con la neonata associazione CISAP per la gestione del Centro di formazione professionale di Berna.
Manca lo spazio per dilungarsi sulle altre conseguenze positive dell’immane tragedia di Mattmark, ma credo che gli elementi forniti siano sufficienti per far capire che non solo a livello federale stava per attuarsi una svolta nella politica immigratoria incentrata sempre più sull’integrazione degli stranieri, ma anche all’interno della collettività italiana immigrata si stava decidendo una nuova strategia nei confronti sia delle autorità italiane che delle autorità e del popolo svizzero: stava maturando l’idea che chi era intenzionato a restare in questo Paese doveva scegliere la strada dell’integrazione e non dell’estraneità.

Giovanni Longu
Berna, 9.9.2915