Con una certa enfasi è stato ricordato nelle
scorse settimane in alcuni media italiani che la lingua italiana gode ottima
salute perché è la quarta più studiata nel pianeta e il mondo sembra aver «fame
d’italiano» (cfr. Corriere della Sera del 6.10.2016). Per quanto
concerne la Svizzera, il presidente dell’Associazione svizzera dei professori
d’italiano (ASPI-VSI) Donato Sperduto non sembra avere dubbi: «L’italiano nelle
scuole svizzere è più vivo che mai» (La Rivista, ottobre 2016). Eppure,
in questi ultimi anni, preoccupazioni sulla salute dell’italiano in Svizzera
sono state espresse da più parti, con riferimento sia all’insegnamento e sia
alla società civile. Ritengo pertanto utile qualche considerazione al riguardo.
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Qual è lo stato di salute della lingua italiana in Svizzera? La Confederazione fa abbastanza per sostenerla? E’ possibile che l’italiano resti una lingua a diffusione nazionale e non si riduca a lingua regionale? Quale è e dovrebbe/potrebbe essere l’apporto specifico dell’Italia? Sono questi gli interrogativi principali che mi sono posto in occasione della XVI settimana della lingua italiana nel mondo. Ad essi ho tentato di dare risposte plausibili.
Stato di salute dell’italiano in Svizzera
Per rispondere alla prima domanda, non trovo
niente di meglio e di più preciso del ricorso alle statistiche. I numeri vanno
certo interpretati ma non mentono, soprattutto quando esprimono tendenze. Ecco
cosa dicono i numeri e le tendenze.
Osservando il grafico dell’Ufficio federale di
statistica (UST), si vede bene che l’italiano degli svizzeri è molto
stabile dal 1910 fino al 2000 (fra il 4,0 e il 4,5%) e anche negli ultimi
cinque anni (attorno al 6,0%). L’italiano degli stranieri (italiani) è
invece molto variabile e rispecchia le grandi ondate immigratorie dall’Italia
degli anni prima del primo conflitto mondiale e dopo la seconda guerra
mondiale. Nel 1960, l’italiano era parlato dal 54,1% di tutti gli stranieri.
Grazie a questo contributo degli immigrati italiani, nel 1970 l’italiano ha
raggiunto la sua quota più elevata: l’italiano era infatti la lingua principale
dell’11,9% della popolazione residente.
Dal 1970 l’italiano perde sempre più terreno,
soprattutto tra gli stranieri (italiani), tra i quali già nel decennio
precedente aveva perso oltre 4 punti percentuali (dal 54,1 al 49,7%), a causa
soprattutto delle numerose partenze di italiani, superiori ai nuovi arrivi. Nei
decenni successivi la quota degli italofoni stranieri si è ulteriormente
ridotta per attestarsi nel 2010 sul 15,3%. Dal 2010 la discesa dell’italiano
degli stranieri (italiani) è meno accentuata ma continua (2014: 14,7%). Questo rallentamento
può essere spiegato tenendo conto che il saldo migratorio italiano nuovamente
positivo (gli arrivi in questi ultimi anni sono più numerosi delle partenze)
compensa solo in parte il numero di italiani di seconda e terza generazione
(anche non naturalizzati) che non praticano (più) l’italiano.
Tendenza stabile, ma incerta sul medio-lungo
periodo
La situazione dell’italiano in questi ultimi
anni (nel grafico dal 2010 al 2014) appare tuttavia molto stabile sia tra gli
svizzeri (attorno al 6%), sia tra gli stranieri (attorno al 14,9%) e sia nel
dato cumulato svizzeri-stranieri (attorno all’8%). Quanto questa situazione
possa ancora durare è difficile da pronosticare, ma su tempi medio-lunghi il
peggioramento appare inevitabile per le ragioni seguenti:
1) la prima, perché i flussi immigratori dall’Italia (che hanno sempre
fornito il maggior contributo alla quota dell’italiano) tenderanno a diminuire
appena l’economia italiana riprenderà il suo slancio; del resto, già oggi il
10% degli immigrati (prima generazione) non dichiara più l’italiano come lingua
principale;
2) la seconda ragione è che i figli (seconda generazione) e i nipoti degli
italiani immigrati (terza generazione) usano di preferenza sempre più altre
lingue nazionali (tedesco e/o francese) e straniere (inglese) invece
dell’italiano. Questo spiega anche perché la quota degli svizzeri italofoni non
aumenta. Attualmente più di un terzo della seconda generazione e oltre la metà
della terza generazione non dichiarano più l’italiano come lingua principale.
Questa tendenza andrà accentuandosi ma mano che le seconde generazioni
diminuiscono e aumentano le successive.
La Confederazione fa abbastanza per l’italiano?
Si sente e si legge spesso che la
Confederazione dovrebbe fare di più per l’italiano. E’ proprio così o nei suoi
confronti in molti italofoni c’è un’aspettativa esagerata? Non è facile
rispondere a questa domanda, ma la mia impressione è che la Confederazione,
come organizzazione politica, fa già abbastanza e non potrebbe fare molto di
più.
Non può, ad esempio, imporre ai Cantoni
l’insegnamento dell’italiano (o di un’altra lingua) nelle scuole dell’obbligo,
perché son loro in primo luogo i responsabili della politica scolastica e
linguistica. Non può sostituirsi ad essi aprendo, per esempio, sue proprie
scuole dell’obbligo o anche solo autorizzando, contro la loro volontà,
l’apertura di scuole in una lingua diversa da quella o quelle ufficiali nel
Cantone interessato. Fece molto clamore, nel 1961, l’intervento a Berna del
ministro del lavoro italiano Fiorentino Sullo, secondo cui, «datosi che
l’italiano è la terza lingua ufficiale della Svizzera, il governo di Roma
pretende che i figli dei lavoratori italiani abbiano la possibilità di
frequentare scuole nella loro lingua materna». La pretesa di Sullo fu ritenuta
arrogante e irricevibile.
La Confederazione può solo, autonomamente,
pretendere una determinata quota di italofoni nell’amministrazione federale,
garantire che le pubblicazioni ufficiali siano disponibili anche in italiano in
base al principio della non discriminazione di una lingua ufficiale, esigere
che la corrispondenza con gli italofoni avvenga in italiano, promuovere la
comprensione tra le comunità linguistiche, favorire a livello intercantonale
una politica linguistica coordinata, sostenere il plurilinguismo con incentivi
finanziari (come previsto, per esempio, nel Messaggio del Consiglio federale sulla
cultura del 28 novembre 2014) e poco altro ancora.
Credo personalmente che la Confederazione
faccia abbastanza, anche se potrebbe fare di più soprattutto con interventi
indiretti, per esempio incitando i Cantoni a superare quella specie di
protezionismo linguistico che caratterizza soprattutto i Cantoni
svizzero-tedeschi, a valorizzare maggiormente il patrimonio linguistico che
hanno e a considerare il plurilinguismo un potente elemento unificante e
identitario della Svizzera, assolutamente da sostenere e sviluppare.
Detto questo, ancora oggi molti italiani esagerano a mio parere la portata delle espressioni che rappresentano l’italiano come «lingua nazionale» e «lingua ufficiale», senza mai interrogarsi sul reale significato. Un semplice sguardo alla storia della Confederazione sarebbe sufficiente per capire che nel 1848 il nuovo Stato federale, com’era tenuto ad aver riguardo del francese (Svizzera francese) altrettanto doveva averne per l’italiano (Svizzera italiana), altrimenti i Cantoni sovrani francofoni e il Ticino italofono non avrebbero mai aderito a uno Stato unitario germanofono. Riconoscere l’italiano come lingua nazionale e lingua ufficiale (anche se inizialmente scarsamente usata) è stato per la nascente Confederazione un atto dovuto, senza particolari conseguenze se non a livello di Confederazione (intesa come istituzione politica, non come territorio).
A questo punto sarebbe tuttavia un errore
ritenere che, essendo i poteri della Confederazione alquanto limitati, per le
sorti dell’italiano non resti che la rassegnazione e assistere, magari con un
po’ di tristezza, alla sua riduzione da lingua a diffusione nazionale a lingua
regionale entro il «ridotto» della Svizzera italiana. Le possibilità, per gli
altri attori della politica e della pratica dell’italiano in Svizzera sono
infatti molte, come risulterà dal prossimo articolo, e bisognerebbe saperle e
volerle sfruttare. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 2.11.2016
Berna, 2.11.2016
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