Il prossimo 10 dicembre ex allievi ed ex insegnanti del CISAP (inizialmente acronimo di
«Centro italo-svizzero di addestramento professionale») s’incontreranno alla
Casa d’Italia di Berna per rievocare le origini di un’istituzione che per alcuni decenni ha rappresentato un punto di
riferimento e una grande risorsa dell’immigrazione italiana in Svizzera. Esattamente
cinquant’anni fa, il 10 dicembre 1966, il
CISAP, già avviato, fu inaugurato ufficialmente. Rievocare quell’evento e il
contesto migratorio in cui è avvenuto mi pare utile e forse persino doveroso
anche nei confronti di chi non ha frequentato il Centro o non l’ha conosciuto
affatto. Il CISAP costituisce, infatti, una pagina importante della storia dell’immigrazione
italiana in Svizzera.
Una rievocazione utile e doverosa
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La sede del CISAP di Berna (1972 |
Da quindici anni il CISAP
in quanto istituzione autonoma non esiste più, ma i valori ai quali si è
ispirata fin dalla nascita, quali solidarietà, impegno, rispetto, integrazione,
lungimiranza sono sempre validi e meritano di essere tenuti presenti
soprattutto nelle condizioni attuali, simili per certi versi a quelle degli
immigrati italiani in Svizzera del secondo dopoguerra.
La nascita del CISAP è
comprensibile unicamente nel suo contesto storico-politico-sociale, che
il prossimo 10 dicembre cercheremo di rievocare nelle sue linee fondamentali.
Nella prima metà degli anni ’60 del secolo scorso si stava preparando la svolta
decisiva dell’immigrazione italiana in Svizzera da fenomeno temporaneo a
componente strutturale dell’economia e della società. Il CISAP intuì il
cambiamento, individuò un settore particolarmente sensibile e importante, la
formazione professionale di adulti e giovani, e decise di intervenire. In
brevissimo tempo divenne un’istituzione solida e competente, sostenuta dalle
autorità dei due Paesi, un punto di riferimento per migliaia di immigrati.
Esagerazioni? Niente affatto. Basti pensare che a molti allievi
il CISAP ha cambiato la vita, è stato il fiore all’occhiello per un’intera
generazione di consoli, ambasciatori, sottosegretari e ministri della
Repubblica, ha goduto di rinomanza internazionale, ha avuto il privilegio della
prima visita di un Presidente della Confederazione, Nello Celio, a una istituzione di immigrati
italiani, ha dato un esempio concreto e insolito di collaborazione
italo-svizzera nel campo della formazione professionale e dell’integrazione
sociale, quando questa collaborazione era ancora da scoprire. Per questo una
rievocazione delle origini e delle caratteristiche del CISAP mi sembra utile e
doverosa.
Il contesto migratorio nell’immediato dopoguerra
Nel dopoguerra,
l’immigrazione italiana era l’unica risorsa disponibile in misura abbondante
dell’economia svizzera. Due realtà completamente diverse e persino opposte s’incontrarono
per costituire una sorta di sodalizio basato sul reciproco interesse.
L’Italia aveva un disperato bisogno di esportare gli esuberi di manodopera che
non riusciva ad occupare nell’opera di ricostruzione postbellica, nonostante il
Piano Marshall. La Svizzera, risparmiata dalla guerra e
con un apparato produttivo quasi intatto, aveva un disperato bisogno di manodopera per far
fronte alla crescente domanda di beni e servizi proveniente dall’interno e
dall’estero. Le potenze vincitrici impedivano ai tedeschi
vinti di espatriare, la Francia aveva a sua volta bisogno di manodopera.
L’unico tra i Paesi vicini in grado di soddisfare la richiesta svizzera era
l’Italia.
Fin dal 1946 un imponente flusso d’immigrati
italiani sopperì alle carenze di manodopera dell’economia svizzera. Giusto
qualche cifra per comprendere l’ampiezza del fenomeno: 48.808 partenze già nel
1946, 105.112 nel 1947, 102.241 nel 1948.
Le autorità italiane cominciarono a
preoccuparsi, non tanto del numero degli espatri (considerati quasi da tutti
una necessità, da molti una fortuna, da pochissimi una disgrazia per il Paese),
quanto delle critiche che venivano mosse al governo democristiano
dall’opposizione comunista. Il 22 giugno 1948, su iniziativa dell’Italia, venne
firmato a Roma l’«Accordo tra la Svizzera e l’Italia relativo all’immigrazione
dei lavoratori italiani in Svizzera». Un accordo ritenuto utile per entrambe le
parti, anche se destinato ben presto a mostrare la sua fragilità.
L’Accordo italo-svizzero del 1948
L’Italia intendeva tutelare il lavoro degli
italiani all’estero (art. 35 della Costituzione da poco entrata in vigore), ma
doveva accettare le condizioni imposte dalla Svizzera. Già nelle «Disposizioni
generali» (art. 1 cpv. 1) veniva precisato che «il presente accordo si applica
all'immigrazione in Svizzera di mano d'opera stagionale o ammessa a titolo
temporaneo» e riguardava soprattutto il «reclutamento» della manodopera. Non
riguardava invece la manodopera «non stagionale» e questo fu uno dei grandi
limiti di quell’Accordo, anche se in quel momento il flusso migratorio non
stagionale era molto esiguo; in genere si veniva «per qualche stagione».
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Visita al CISAP del Pres. della Confederazione N. Celio (1972) |
Per avere il
controllo della situazione, l’Italia riuscì a far introdurre nell’accordo
numerose disposizioni non solo sul reclutamento, ma anche sulle condizioni di
lavoro in Svizzera e persino sulle modalità di trasferimento dei risparmi in
Italia. A tutela del lavoratore italiano, l’accordo prevedeva in particolare
l’obbligatorietà del contratto di lavoro scritto munito del visto
dell’Ambasciata o del Consolato italiano di competenza, sanciva l’obbligo del
datore di lavoro al rimborso delle spese di viaggio, ad un trattamento sul
lavoro uguale a quello riservato agli svizzeri, ecc.
L’Italia
riuscì anche ad ottenere che in linea di massima la richiesta di manodopera
avvenisse inviando «domande numeriche» agli uffici competenti e a limitare le
«domande nominative» a un massimo di «5 lavoratori per datore di lavoro» (art.
5, cpv. 1), ma non escludeva rimedi qualora tali domande fossero di più, tenuto
conto «del carattere essenzialmente individuale della domanda di mano d'opera
in Svizzera e delle relazioni tradizionali che esistono tra datori di lavoro
svizzeri e lavoratori italiani». In pratica non si escludeva «che i datori di
lavoro svizzeri ingaggino, nei limiti previsti dall’art. 5, i lavoratori
italiani con i quali essi intrattengono relazioni personali».
Era evidente che i datori di lavoro non
avrebbero mai rinunciato ai lavoratori che ritenevano più utili alle loro
imprese, tanto più che non era escluso che un datore di lavoro svizzero potesse
ingaggiare chiunque si presentasse a chiedere lavoro, anche se non in regola
con la burocrazia italiana (contratto di lavoro vistato, ecc.), purché con un
passaporto valido. L’Accordo prevedeva anche «una assicurazione di permesso di
soggiorno rilasciata dalla polizia cantonale degli stranieri» (art. 9, cpv. 1),
ma questa era facilmente ottenibile successivamente a richiesta del datore di
lavoro.
L’immigrazione degli anni Sessanta non più
solo stagionale
Per almeno un decennio l’Accordo del 1948 non
pose particolari problemi, anche perché negli anni dal 1949 al 1959 il numero
di partenze era sceso a una media di poco superiore alle 60.000 unità l’anno e gli
italiani erano ritenuti in generale affidabili e bravi lavoratori. I problemi
cominciarono a sorgere quando, dalla fine degli anni ‘50, le esigenze
dell’economia svizzera aumentarono, provocando un richiamo massiccio di
manodopera, regolare (seguendo le procedure previste dall’Accordo del 1948) e
irregolare (al di fuori di quelle procedure) e non più solo stagionale.
Dell’immigrazione irregolare e regolarizzata
successivamente non si hanno cifre attendibili, ma dovette essere consistente
(secondo numerose testimonianze di immigrati giunti in Svizzera negli anni ‘60),
anche perché dal marzo 1960 i cittadini di entrambi i Paesi potevano
attraversare la frontiera esibendo un semplice documento d’identità. Ma già
solo le cifre ufficiali delle partenze dall’Italia per la Svizzera sono
impressionanti: 128.257 (1960), 142.114 (1961), 143.054 (1962, massimo storico).
Anche l’aumento della popolazione italiana residente stabilmente in Svizzera è particolarmente
significativo: in un decennio passò da poco più di 140.000 (1950) a 346.000
(1960).
Numeri preoccupanti e molti contrasti
Fino al 1960, tuttavia, l’aumento degli
stranieri, in gran parte italiani, non sembrava preoccupante, ma da allora furono
in molti a cominciare a preoccuparsi, a torto o a ragione, perché
l’immigrazione sembrava fuori controllo e l’incremento naturale (i figli degli
immigrati) risultava ben superiore a quello degli svizzeri. Nel 1964 un quarto
dei bambini nati in Svizzera erano stranieri. Persino i sindacati cominciarono
a preoccuparsi.
Nel frattempo l’immigrazione italiana stava
cambiando profondamente. Se prima si partiva individualmente o a piccoli gruppi,
dalla fine degli anni ’50 si parte in massa. Inizialmente la manodopera
italiana proveniva prevalentemente dal Nord e non costituiva alcun problema né
per l’economia né per la società svizzera. Il 1958 è un anno importante perché per la
prima volta gli immigrati dal nord perdono la maggioranza assoluta rispetto
agli immigrati provenienti dal sud e dal centro sommati insieme. Dal 1960,
saranno i meridionali a costituire la maggioranza relativa e dal 1964 anche la
maggioranza assoluta. Ma il cambiamento non soddisfa tutti.
Non era tuttavia solo il numero degli
stranieri a preoccupare gli svizzeri. I contrasti tra le due popolazioni erano
molti. Un aggettivo sintetizza in modo efficace la distanza tra le due
popolazioni: agli svizzeri che non si sentivano più completamente a casa
propria ed erano soggiogati dalla paura di essere prima o poi sopraffatti dagli
stranieri questi apparivano semplicemente «fremd», estranei,
stranieri, diversi, appartenenti a un altro mondo. Attorno a quell’aggettivo,
abbinato ora a uno ora a un altro sostantivo, si era già sviluppato all’inizio
del secolo un movimento d’opinione, una sorta di filosofia che aveva alla base
le due equazioni seguenti:«straniero» uguale diverso, estraneo, perfino
pericoloso, e «molti stranieri» uguale svizzeri in pericolo. Era l’ideologia
della Überfremdung, tradotto in un italiano approssimativo
«inforestierimento». (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 30.11.2016
Berna, 30.11.2016
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