11 maggio 2018

Chi ha costruito il Palazzo federale?


Recentemente, durante la rievocazione degli 80 anni della Casa d’Italia di Berna, è stata citata una frase attribuita a un emigrante italiano, secondo cui sarebbe difficile trovare un ponte o una casa a Berna dove non vi abbiano lavorato gli italiani, tanto che, immaginando di poter togliere tutte le pietre messe dagli italiani, «cadrebbero tutti i ponti, le banche, il palazzo federale…».

Berna, Palazzo federale
Il senso generico della frase è chiaro e condivisibile, perché intende evidenziare il contributo importante degli italiani allo sviluppo della città, ma gli esempi citati sono inappropriati e soprattutto le conseguenze immaginate sono palesemente senza fondamento. Si sa, infatti, che le case del centro storico, di origine medievale, non furono costruite dagli italiani come pure gran parte dei ponti, delle banche, delle fabbriche, ecc., anche se nelle nuove costruzioni del secondo dopoguerra la partecipazione degli italiani è stata molto estesa. Quanto poi alla costruzione del Palazzo federale (1894-1902), si sa addirittura che gli italiani vi furono espressamente esclusi dall’amministrazione federale, per evitare che potessero verificarsi nuovamente incidenti come quelli avvenuti l’anno prima (il Käfigturmkrawall è del giugno del 1893). 

Scrivo questa nota perché la frase del connazionale è stata ripresa da un cronista presente all’evento su un settimanale in lingua italiana, evidentemente senza chiedersi se gli esempi fatti rispondessero almeno al criterio della plausibilità. Credo che se si vuole affidare qualche informazione ai media o ai libri nell’intento di creare una «memoria storica», essa andrebbe prima verificata e magari spiegata correttamente. Altrimenti può succedere che una frase detta da qualcuno in un contesto particolare, per esempio, «abbiamo costruito di tutto» possa indurre a pensare che gli italiani hanno costruito tutto, persino il Palazzo federale. Oppure, che la frase «siamo venuti in Svizzera a cercare lavoro», detta con verità da qualche immigrato del secondo dopoguerra, possa avere valenza per tutti gli immigrati italiani, dimenticando che, fino all’entrata in vigore degli accordi di libera circolazione, la stragrande maggioranza dei lavoratori italiani è venuta in Svizzera a richiesta dei datori di lavoro svizzeri, ecc.
La storia dell’immigrazione italiana in Svizzera è così ricca e avvincente che non ha bisogno di aggiunte di colore estemporanee.
Giovanni Longu
Berna 11 maggio 2018

09 maggio 2018

Tracce d’italianità nella foresta di Bremgarten (Berna)


Quest’anno ricorrono numerosi anniversari di eventi che hanno cambiato il mondo e specialmente l’Europa e di eventi che sono stati determinanti per la storia dell’immigrazione italiana in Svizzera. Di alcuni di essi si tratterà diffusamente in una prossima serie di articoli. Quello di cui parlerò di seguito vuole rievocare un evento abbastanza secondario in questa storia collettiva degli immigrati italiani, ma utile, credo, per far capire che le tracce della presenza italiana in Svizzera sono spesso nascoste, per esempio in una foresta o ad una curva di strada, ma importanti. Mi riferisco alla tragica fine di due famosi piloti italiani e alla vittoria di altri a Berna nel 1948.

La campagna bernese
Berna, città splendida sotto molti aspetti, ha anche una caratteristica in comune con molte altre città svizzere: è immersa nel verde. A prima vita, questo aspetto non dice nulla sull’italianità, anche perché le tracce più evidenti e più importanti si trovano nella città vecchia e nei quartieri periferici. I lettori di questa rubrica hanno avuto modo di seguirle sia nel centro storico che in alcuni quartieri «nuovi», in particolare, Kirchenfeld, Bümpliz e Länggasse, ma non è mai capitato, credo, di accennare anche solo marginalmente alla lussureggiante campagna circostante la città. Eppure proprio nelle fattorie, nei giardini e nelle foreste bernesi vennero inviati a lavorare molti italiani immigrati nel dopoguerra quando ottenevano il primo permesso di lavoro stagionale. Ma non è di essi che qui voglio parlare.
Bremgarten/BE, GP della Svizzera 1950, vinto dall’italiano Nino Farina
Desidero anche ricordare, a chi non conosce Berna, che la campagna circostante è estremamente varia e rigogliosa, perché non è costituita solo di campi coltivi o prati per la pastura di bovini e ovini, ma anche di ampie aree boschive e numerose radure. Sono facilmente raggiungibili attraverso una fitta rete di sentieri molto apprezzati non solo dagli escursionisti in mountain bike o dai semplici utilizzatori di biciclette da città, ma anche dalle famiglie e dai singoli per le passeggiate, la ginnastica, il jogging e perché offre numerose aree attrezzate con giochi e spiazzi per grigliare. 

Il circuito di Bremgarten
Una di queste zone verdi, a nord-ovest della città, è la grandiosa foresta di Bremgarten, degradante verso l’alveo del fiume Aare, là dove la corrente è minima a causa del poco distante sbarramento della centrale idroelettrica di Mühleberg. Nel 1934 in essa era stato ricavato un circuito automobilistico dove si svolsero diversi Gran Premi di Svizzera di Formula 1 e di Motomondiale fino al 1954.
Era considerato uno dei circuiti più belli, ma anche più pericolosi del mondo. Era sicuramente bello perché immerso nella natura rigogliosa, ma anche estremamente pericoloso perché conteneva molte curve, continui saliscendi e frequenti passaggi da zone molto luminose a zone d’ombra. Inoltre, la pioggia o l’umidità della foresta rendevano spesso alcune parti del tracciato particolarmente viscide e scivolose.

Campioni italiani
Il 1° luglio di settant’anni fa, un giovedì, si stavano svolgendo le prove libere in vista delle gare motociclistiche e automobilistiche previste per il sabato e la domenica. Furono le ultime prove di due grandi sportivi italiani, oggi quasi del tutto dimenticati: il campione di motociclismo Omobono Tenni, che correva su una «Guzzi» 250 cmc, e il pilota automobilistico Achille Varzi, grande rivale di Nuvolari, che correva su un’«Alfa Romeo».
La curva Tenni, oggi.
Tenni, uscito di pista a tutta velocità alla curva Eymatt (chiamata in seguito «curva Tenni») andò a sbattere contro un muricciolo morendo sul colpo. I soccorritori giunti immediatamente sul posto dovettero costatare il decesso. 
L’asso dell’automobile Varzi, che un cronista chiamò «leggendario», mentre stava ultimando il suo ultimo giro di prove sotto una pioggia fortissima, uscì di strada ad una curva capovolgendosi più volte e morendo sul colpo. Il giorno seguente la cattiva sorte colpì anche un altro automobilista, lo svizzero Christian Kautz.
Alberto Ascari, su Maserati, 5° al GP Svizzera 1948.
Il sabato e la domenica si tennero le corse come previsto. Nel motociclismo gli italiani si dimostrarono imbattibili. Nella classe 250 cmc gli italiani conquistarono le prime cinque posizioni, nell’ordine: Enrico Lorenzetti, Claudio Mastellari, Bruno Ruffo, Gianni Leoni e Bruno Francisci. Nella classe 500 cmc vinse lo stesso Enrico Lorenzetti. Nell’automobilismo, Gran Premio d’Europa, vinse l’italiano Carlo Felice Trossi su Alfa Romeo, al 3°, al 4°e al 5° posto si piazzarono altri tre italiani, Gigi Villoresi, Luigi Fagioli e Alberto Ascari (che vincerà nel 1949 e 1953 su Ferrari).
Ritenuto troppo pericoloso, il circuito fu chiuso nel 1955 e il Consiglio federale decise di vietare le gare motoristiche su tutto il territorio svizzero. Negli annali e nelle cronache resta il ricordo di tanti campioni italiani che nel circuito di Bremgarten si fecero onore.
Giovanni Longu
Berna, 9 maggio 2018

02 maggio 2018

Tracce d'italianità nell'agglomerazione La Chaux-de-Fonds-Le Locle


Fin dal XVIII secolo, la tradizione orologiera italiana deve aver spinto qualche orologiaio a traferirsi nella regione orologiera svizzera di La Chaux-de-Fonds - Le Locle per apprendere o approfondire la fabbricazione dei grandi orologi dei campanili e degli edifici pubblici o delle pendole. Dalla seconda metà dell’Ottocento, tuttavia, la stragrande maggioranza degli italiani giunti nella regione non veniva impiegata nell’orologeria, ma soprattutto nell’edilizia. Dalla seconda metà del secolo scorso furono molti gli immigrati che andarono a rinforzare le maestranze delle numerose imprese di meccanica e micromeccanica. La crisi orologiera degli anni Settanta ha ridimensionato notevolmente la collettività italiana della regione, dove l’italianità rimane tuttavia fortemente radicata. 

Primi immigrati italiani e l’integrazione
La Chaux-de-Fonds, patrimonio mondiale dell'Unesco

A metà dell’Ottocento erano pochi gli italiani che varcavano i confini della Svizzera per addentrarsi nelle regioni a nord delle Alpi e del Giura. La regione di La Chaux-de-Fonds – Le Locle rappresentava un’eccezione perché già nel 1850 gli «italiani» provenienti quasi esclusivamente dal Regno di Sardegna sentirono il bisogno di costituire una società di mutuo soccorso. Negli anni seguenti vennero create altre associazioni.
Nel 1888, a La Chaux-de-Fonds, su una popolazione di 26.923 abitanti, vennero censiti 501 italiani provenienti prevalentemente dal nord (Piemonte, Lombardia, Veneto). Dalla fine dell’Ottocento cominciarono però ad arrivarne anche dal Mezzogiorno.
Gli italiani (e i ticinesi) immigrati in questa regione del Giura dovevano sentirsi ben integrati tra la popolazione locale, come dimostra questa notizia di cronaca. Quando si seppe della morte di Giuseppe Garibaldi (avvenuta il 2 giugno 1882 a Caprera) in tutta la Svizzera vennero organizzate manifestazioni commemorative. Un cronista osservò tuttavia che «ove la dimostrazione fu ancor più imponente, fu a Chaux-de-Fonds, a cui parteciparono, oltre le società italiane, le società patriotiche e la popolazione. Un imponente corteggio percorse le contrade principali della città, preceduto e scortato dal corpo dei cadetti colla propria musica. A capo del corteggio sventolava la bandiera italiana in mezzo alle bandiere svizzera e francese. Vennero pronunciati parecchi discorsi».
Si può ben ritenere che in questo periodo gli italiani, ancora pochi (370 a La Chaux-de-Fonds e 144 a Le Locle), fossero ben integrati. Il gruppo più consistente era addetto all’edilizia, ma erano abbastanza numerosi anche gli addetti all’orologeria; molti svolgevano attività artigianali e commerciali come falegnami, calzolai, gessatori, lattonieri, fabbri, commercianti, ecc. e alcuni di essi lavoravano in proprio.

Ondata d’immigrati sul finire dell’Ottocento
Sul finire dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, quando l’industria orologiera si stava lanciando alla conquista dei mercati mondiali, la Chaux-de-Fonds e Le Locle sentirono il bisogno di adeguare alle nuove esigenze l’intera infrastruttura della regione. Per contribuire a questo grande sforzo di rinnovamento urbanistico ed edilizio furono chiamati centinaia e migliaia di immigrati italiani e ticinesi.
L’attività edilizia era frenetica, non solo per venire incontro alle esigenze della produzione orologiera (che richiedeva ambienti lavorativi particolarmente luminosi con ampie finestre), ma anche per far fronte all’incremento della popolazione. A La Chaux-de-Fonds, tra il 1850 e il 1900 essa fu particolarmente forte, passando da 12.638 a 35.968 abitanti. In quarant’anni, tra il 1850 e il 1890, erano state costruite nella città un migliaio di case; ma tra il 1891 e il 1914, dunque in metà tempo, ne furono costruite 300 in più.
Gli anni in cui si costruì maggiormente sono stati l’ultimo decennio dell’800 e il primo decennio del Novecento. Per avere un’idea dell’attività edilizia di quel periodo, basti ricordare che nell’estate del 1904 erano aperti una trentina di cantieri in cui lavoravano circa 1600 tra muratori e aiutanti. Quell’anno, agli italiani erano stati rilasciati 1162 permessi di soggiorno, l’anno precedente 938.

Problemi d’integrazione
Il risultato di questo vasto intervento edilizio riguardante l’intero agglomerato urbano delle due città orologiere di La Chaux-de-Fonds e Le Locle fu quello splendido paesaggio urbano che nel 2009 è stato riconosciuto a giusto titolo patrimonio mondiale dell’Unesco. E’ indubbio che una parte del merito per questo riconoscimento va agli italiani (e ai ticinesi) che fin dalla seconda metà dell’Ottocento hanno partecipato allo sviluppo urbanistico della regione.
Le Locle, patrimonio mondiale dell'Unesco
Questo risultato, l’apparente facilità di contatti e soprattutto il riconoscimento della bravura degli operai italiani non deve tuttavia trarre in inganno sui rapporti di lavoro e anche sui rapporti con la popolazione locale. Non erano certamente paragonabili a quelli di Berna o di Zurigo, ma esistevano anche a La Chaux-de-Fonds e a Le Locle molti conflitti sociali.
Nel 1904, per esempio, durante uno sciopero di muratori (in maggioranza italiani), sostenuto dal Partito socialista e dall’Unione operaia, si cercò in vari modi di dividere la classe operaia. 330 operai decisero subito di riprendere il lavoro, ma a condizione di essere protetti contro gli scioperanti, mentre altri 400 proseguivano lo sciopero. Per salvaguardare l’ordine in città e nei cantieri intervennero reparti dell’esercito col compito di fermare i disordini provocati da elementi anarchici che si erano infiltrati tra i lavoratori stranieri. Furono arrestati diversi scioperanti e alcuni vennero poi espulsi dalla Svizzera, a cominciare dal «presidente dello sciopero» Paolo Monaldeschi e altri quattro scioperanti: Zappa Angelo-Fedele, Varini Riccardo, Erbetta Giovanni-Antonio e Merlotti Ferruccio. A nulla servirono le proteste dei connazionali contro la misura presa dal governo, anche perché la solidarietà operaia era incompleta, in quanto, non tutti i muratori parteciparono allo sciopero, nemmeno tutti i ticinesi.
Va detto anche che ad urtare la sensibilità degli indigeni erano soprattutto certi comportamenti degli italiani ritenuti scorretti, soprattutto quando sembravano troppo sottomessi ai padroni, accettavano di lavorare a salari troppo bassi o quando cercavano di non pagare le imposte sottraendosi al controllo degli abitanti. Tra indigeni e italiani c’era spesso una diffidenza reciproca, che si ripercuoteva non solo nella difficoltà dei contatti reciproci, ma anche nella scarsità dei matrimoni misti, sebbene molti italiani fossero nati e cresciuti in Svizzera. Non si arrivò mai, tuttavia, a manifestazioni violente o forme di rigetto. 

La nuova immigrazione del secondo dopoguerra
Con lo scoppio della prima guerra mondiale il flusso immigratorio dall’Italia si affievolì praticamente fino alla fine della seconda guerra mondiale e cessarono i contrasti sociali. Se nel 1914 gli italiani a La Chaux-de-Fonds erano 1490, già nel 1915 erano scesi a 1350 (molti dovettero rientrare in patria per il servizio militare) e negli anni seguenti continuarono ancora a diminuire (1945: 711).
Il numero di italiani riprese a crescere incessantemente dopo la seconda guerra mondiale fino alla fine degli anni Sessanta. Nel 1950 a La Chaux-de-Fonds gli italiani residenti, esclusi gli stagionali, erano già 1090. Nel 1960 erano più che raddoppiati: 2544. Nel decennio successivo si registrò un ulteriore incremento. Nel 1970 vennero censiti 5783 italiani a La Chaux-de-Fonds e 2548 a Le Locle, complessivamente più di 8300 persone, senza contare diverse centinaia di stagionali.
La Chaux-de-Fonds era divenuta un centro industriale di prim’ordine. La popolazione in forte crescita esigeva nuove case, scuole, ospedali, centri culturali e museali. Gli italiani erano benvenuti. Nei cantieri e nelle fabbriche la lingua italiana era molto diffusa. Sempre più, tuttavia, gli italiani praticavano anche il francese, segno di una perfetta integrazione.
Dopo la crisi economica della metà degli anni ‘70 la regione perse numerosi impieghi e popolazione. Anche la collettività italiana andò ridimensionandosi a poco più di 5000 persone nel 1980 (3711 a La Chaux-de-Fonds e 1341 a Le Locle), a meno di 4000 nel 1990 (2970 e 1017) e a poco più di 3200 nel 2000 (2455 e 797). Questi dati, tuttavia, non danno l’idea della consistenza esatta di questa popolazione perché ormai molti italiani hanno la doppia nazionalità.

Italianità molto sentita
Giovane donna di Retuna (1822)
L’italianità è comunque ancora molto sentita. Alle elezioni dei Comites (Comitato degli italiani all’estero) del 1991 si recarono a votare ben 1192 italiani su poco più di 2800 elettori, collocandosi ben al di sopra della media nazionale (33,04%). E’ interessante notare come questa media nazionale sia precipitata nelle successive elezioni del 1997 (18,6%), ma non altrettanto a La Chaux-de-Fonds (27,05%) preceduta per tasso di partecipazione solo da Glarona (28,98%).
Oggi la presenza degli italiani tra le Montagne neocastellane, per quanto ridotta, è significativa perché molto integrata e viva, soprattutto attraverso l’associazionismo, le iniziative culturali, la lingua italiana ancora assai diffusa. Specialmente la Chaux-de-Fonds conserva numerose tracce d’italianità, ma una in particolare merita di essere ancora ricordata. La strada principale della città è dedicata a un grande cittadino, il pittore Léopold Robert (1794-1835), che ha avuto un grande legame con l’Italia. Dopo aver ottenuto un premio d’incisione a Roma nel 1814, nel 1818 si trasferì nella Città eterna, dove restò per 13 anni fino al 1831. Viaggiò molto in Italia prima di stabilirsi definitivamente a Venezia dove morì nel 1835.
Giovanni Longu
Berna, 2 maggio 2018