19 agosto 2010

Aigues-Mortes come Berna e Zurigo, luoghi della memoria storica dell’emigrazione italiana

La cittadina francese della Camargue Aigues-Mortes (chiamata dagli antichi Romani «Aquae Mortuae» perché situata in un’ampia zona paludosa) è forse più nota a molti italiani come meta turistica estiva, che come borgo medievale fortificato da maestranze genovesi e da cui partirono ben due crociate e ancor meno come un luogo della memoria storica dell’emigrazione italiana in Francia.
Per chi non vuol dimenticare che gli italiani sono stati un popolo di migranti e che la vita da emigrato era continuamente a rischio, Aigues-Mortes ricorda una delle pagine più tristi della storia dell’emigrazione italiana, scritta col sangue nel mese di agosto di 117 anni fa.
Sul finire del XIX secolo dall’Italia si partiva in massa, soprattutto verso le Americhe e, nella buona stagione, verso alcuni Paesi europei, specialmente Francia e Svizzera, dove erano diffusi i lavori stagionali. In Svizzera erano soprattutto lavori di genio civile per la costruzione delle ferrovie, in Francia i lavori dell’agricoltura, dell’edilizia e altri.
Quando il lavoro era abbondante e ben retribuito c’era posto per tutti. Quando invece scarseggiava e i padroni tiravano giù le paghe il cosiddetto fronte operaio rischiava di rompersi e la solidarietà operaia predicata dai socialisti di scomparire. Ciò accadde spesso, sia in Francia che in Svizzera, dove si produssero anche episodi di estrema violenza.
In Francia, l’episodio più clamoroso accadde il 19 agosto 1893, quando nelle saline di Aigues-Mortes, la conflittualità latente tra operai italiani e francesi per questioni di produttività (lavoro a cottimo) e salari degenerò in una vera e propria aggressione fisica che lasciò sul terreno, secondo fonti ufficiali, 9 morti tutti italiani (molti di più secondo fonti giornalistiche). 
I francesi erano esasperati dal fatto che la Compagnie des salines di Peccais, in Camargue, aveva fatto arrivare dall’Italia circa seicento operai italiani e lasciato a casa altrettanti francesi. Per vendicarsi dell’affronto subito, una banda inferocita di diverse centinaia di persone si scatenò contro gli italiani, «colpevoli» di aver accettato di lavorare al loro posto, a cottimo e a una paga inferiore. 
L’eco di quella aggressione si diffuse in tutta Europa, ma soprattutto in Francia e in Italia, i cui rapporti diplomatici già tesi rischiarono di deteriorarsi. Da entrambe le parti si capì che bisognava rompere subito la spirale della violenza. Alla vibrata protesta dell’ambasciatore italiano, il governo francese rispose assicurando che sarebbe stata fatta la massima chiarezza sull’accaduto e che le famiglie delle vittime sarebbero state prontamente indennizzate. Per diverso tempo, tuttavia, il clima contro gli italiani restò teso. Nella regione di Aigues-Mortes si arrivò perfino a organizzare una petizione (poi respinta!) affinché fosse impedito alle imprese francesi di assumere non più del 10 per cento di operai stranieri. Una sorta di iniziativa popolare per contingentare l’afflusso di manodopera estera, anticipando di quasi settant’anni le iniziative antistranieri di Schwarzenbach e degli estremisti di destra svizzeri.
Dal 1893 ad oggi sono passati ben 117 anni e la memoria di quel triste episodio è affidata quasi unicamente ai libri di storia e agli archivi dei giornali dell’epoca. Credo perciò che sia stata una lodevole iniziativa di storici e rappresentanti istituzionali francesi e italiani l’aver organizzato il 24 luglio scorso a Grimaldi di Ventimiglia una «Giornata italo-francese di riconciliazione della memoria» sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. 
In quell’epoca, gli episodi di violenza contro gli italiani erano all’ordine del giorno anche in Svizzera, sebbene non abbiano mai raggiunto l’efferatezza di quelli avvenuti nel sud della Francia. Alcuni di essi, in particolare uno a Berna, proprio nello stesso anno 1893, e uno a Zurigo, nel 1896, sono passati alla storia dell’immigrazione italiana in Svizzera come «Italiener-Krawall» (tumulti degli italiani), benché gli italiani fossero solo vittime e non aggressori.
Quello di Berna (19.6.1893) scoppiò tra gli operai edili per motivi salariali. Per ragioni di convenienza economica, un imprenditore aveva preferito gli italiani (che avrebbe potuto rimandare facilmente al proprio Paese in caso di disaccordi o proteste) agli svizzeri che erano meglio organizzati e pretendevano di più. Agli svizzeri sembrò uno sgarbo imperdonabile e attaccarono in massa gli italiani. Ne nacque una rissa furibonda, sedata solo dall’intervento della polizia e dell’esercito con decine di arresti.
Ben più grave fu il tumulto verificatosi tre anni più tardi a Zurigo. La goccia che fece traboccare il vaso fu un episodio criminoso: durante una rissa un immigrato italiano aveva ucciso a coltellate un compagno alsaziano che l’aveva insultato e provocato. In breve tempo si sparse la voce che ancora una volta un italiano aveva fatto uso del suo micidiale coltello e la massa degli antitaliani zurighesi sembrò che non aspettasse altro per mettere a ferro e fuoco tutto quanto sapeva di italiano. Così la notte del 26 luglio 1896 fu data una vera e propria caccia al «Tschingg» (uno dei numerosi termini dispregiativi con cui s’indicavano gli italiani). In pochissime ore vennero devastati ventidue locali d’italiani tra abitazioni, ritrovi, negozi, ristoranti situati in diverse zone della città. Per sedare il tumulto dovette intervenire l’esercito con la fanteria e la cavalleria. Per fortuna non ci furono morti. Gli italiani avevano dovuto abbandonare in massa la città.
Gli studiosi s’interrogano ancora oggi quali siano state le vere cause scatenanti non tanto dei disordini quanto piuttosto dell’odio verso gli italiani. Spesso si crede di individuare la causa principe nella xenofobia. Per altri si è trattato di episodi di una tipica guerra tra poveri. Difficile negare un po’ di ragione agli uni e agli altri. In realtà le cause vanno ricercate nel clima sociale e culturale degli ambienti coinvolti, in cui erano spesso carenti il senso della legalità e soprattutto la cultura del rispetto e della tolleranza reciproca. 
Berna, 19.8.2010

18 agosto 2010

Serate italiane a Berna


Alcune iniziative, organizzate a Berna nell’arco degli ultimi dodici mesi a livello istituzionale e privato, hanno cercato di mettere in evidenza una delle componenti fondamentali della società svizzera: l’italianità. Al riguardo, tuttavia, non si fa ancora abbastanza sia quantitativamente che qualitativamente. Le iniziative, soprattutto quelle incentrate su contenuti squisitamente culturali, sono poche e per lo più destinate a un pubblico scelto, i soliti addetti ai lavori. Mancano, tra organizzatori, soprattutto le sinergie che il tema meriterebbe.
Tra i promotori si distinguono alcune istituzioni svizzere (Cancelleria federale, Deputazione ticinese alle Camere federali, Biblioteca nazionale, Seminario d’italiano del’università di Berna), alcune istituzioni italiane (Ambasciata d’Italia, Cancelleria consolare, Centro Studi Italiani) e alcune associazioni che possono ancora contare su un certo numero, ormai non grande, di soci interessati (Comitato cittadino d’intesa, Pro Ticino, Pro Grigioni Italiano, Società Dante Alighieri, Missione cattolica italiana).
Da alcuni mesi è all’opera un gruppo di lavoro che intende costituire entro la fine dell’anno un’associazione con lo scopo preciso di organizzare periodicamente nell’ambito di Berna e regione manifestazioni culturali in grado di interessare un vasto pubblico di italofoni. La principale caratteristica di questa associazione, derivante direttamente dallo scopo per cui sta nascendo, sarà quella di mettere in evidenza, attraverso quattro o cinque «serate italiane» l’anno, la ricchezza storica, culturale e linguistica della componente «italiana» in Svizzera. Un’altra caratteristica fondamentale sarà quella di essere mista, in modo che rappresenti equamente almeno le due componenti italofone fondamentali, quella ticinese e quella di origine italiana.
Il perimetro di attività dell’associazione sarà inizialmente limitato a Berna (e per questo si è pensato alla denominazione provvisoria di Associazione serate italiane a Berna – ASIB) per ragioni organizzative, ma anche per motivi ideali. Berna è infatti non solo la capitale federale, garante della Svizzera pluriculturale e plurilingue, ma anche un potenziale centro d’irradiazione culturale per la presenza delle massime autorità federali e della massima rappresentanza diplomatica italiana, di numerose associazioni italofone e di una numerosa popolazione italofona.

Attività previste per quest’anno
Le prime «serate italiane» saranno organizzate già quest’anno nella sede della Casa d’Italia di Berna. Gli interessati possono annotarsi fin d’ora le date.
La prima serata (conferenza e dibattito), il 18 settembre 2010, avrà come tema: 1970-2010: Com’è cambiata l’immigrazione italiana in Svizzera. La relazione cercherà di rispondere anche con dati statistici alle domande seguenti: Come eravamo ai tempi dell’iniziativa Schwarzenbach? Come siamo? Quali sono state le ragioni principali del cambiamento?
La seconda serata (tavola rotonda e dibattito), il 15 novembre 2010, cercherà di analizzare i Rapporti tra ticinesi e italiani fuori del Ticino lungo tutto l’arco dell’immigrazione «ufficiale» italiana in Svizzera, quando anche molti ticinesi emigravano oltre il San Gottardo. I partecipanti alla tavola rotonda cercheranno di mettere in evidenza i motivi di unità e di conflittualità tra i due grandi gruppi di italofoni e a quali condizioni è possibile oggi trovare un denominatore comune per contribuire insieme alla valorizzazione della componente più latina, umanistica e italiana della Svizzera.
Maggiori dettagli sugli orari e sui temi delle due manifestazioni seguiranno in tempo utile.
Giovanni Longu

L’Italia e i veleni d’agosto

Non intendo entrare nel merito delle controversie che stanno logorando la maggioranza parlamentare italiana, perché sarebbe troppo facile riesumare il pensiero manzoniano dei Promessi Sposi, secondo cui la ragione e il torto non si dividono mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell'una o dell'altro. Ad un osservatore lontano dalla scena politica italiana, perché vive in Svizzera, non può tuttavia sfuggire che l’intera classe politica italiana non sta dando una bella immagine di sé, sia la parte che costituisce (ancora) la maggioranza e sia la parte avversa. Tant’è che, con un giudizio purtroppo sommario espresso da un lettore di un quotidiano ticinese, la situazione italiana appare a molti come di una «Italia allo sfascio».
Evidentemente l’Italia nel suo complesso ha mille risorse e sicuramente in una sorta di contabilità ideale gli attivi superano abbondantemente i passivi, ma non altrettanto credo si possa dire per la classe politica, sempre più casta e sempre meno servizio pubblico. Rincresce soprattutto che a prevalere siano soprattutto interessi di parte e una concezione opportunistica e individualistica della politica da parte di troppi galletti che riescono con le loro polemiche spesso pretestuose e i loro comportamenti a spargere veleni e oscurare quel bene che Parlamento, Governo e Magistratura riescono ancora a produrre. Non c’è dubbio, infatti, che anche solo riuscire a tenere in piedi un Paese schiacciato da un enorme debito pubblico e attraversato da mille pericoli rappresenta un buon risultato da non minimizzare.
Purtroppo, in Italia, certi politici sembrano incarnare solo una funzione disfattista e, privi di un sano equilibrio e incapaci di riconoscere quel po’ di bene che riesce a realizzare l’avversario, pur di vederlo finir male sono disposti persino a stringere alleanze col diavolo. Per giustificare le loro sfrenate ambizioni personali e anestetizzare la loro cattiva coscienza, molti politici si appellano a un senso di legalità e moralità che apparterrebbe a loro ma non agli avversari. Sono a mio parere cattivi politici perché indossando le vesti del magistrato (che magari anni addietro avevano appeso al chiodo) o addirittura le vesti del prete e del moralista usurpano funzioni che a loro non competono e dimenticano, anzi tradiscono, quella che dovrebbe essere la loro funzione principale: collaborare perché le istituzioni rispondano al meglio alle esigenze della società.

Rispetto della volontà popolare
Molti politici dimenticano anche che sono stati eletti «per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», ossia per contribuire alla soluzione dei problemi del Paese e non per mettere continuamente i bastoni fra le ruote o addirittura per cercare di rovesciare con ogni mezzo il governo in carica. Questo non vuol dire che un gruppo parlamentare o l’intera opposizione non possa cercare di sostituire l’attuale governo con un altro ritenuto più idoneo. La Costituzione non lo esclude, come non esclude che un parlamentare eletto in uno schieramento possa passare in un altro. Infatti «ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato» (art. 67). Sotto questo profilo dunque non è affatto scandaloso ipotizzare in Parlamento una maggioranza diversa da quella attuale.
D’altra parte, non dovrebbe apparire scandaloso nemmeno ipotizzare il ricorso a nuove elezioni qualora l’attuale maggioranza dovesse venir meno. Non va infatti dimenticato che gli elettori non hanno eletto semplicemente singole persone da inviare in Parlamento, ma hanno scelto al tempo stesso schieramenti antagonisti e alternativi sul piano dei programmi di governo. Qualunque cambio di maggioranza che dovesse stravolgere anche i programmi di governo sanciti dai cittadini col voto libero e democratico non sarebbe accettabile perché a mio modo di vedere violerebbe il principio della sovranità popolare sancito all’articolo 1 della Costituzione.
Coloro che dalla mattina alla sera si riempiono la bocca appellandosi al bene comune per autogiustificare la propria mania di grandezza non si rendono conto (ma gli elettori dovrebbero tenerlo a mente al momento opportuno) che stanno tradendo letteralmente la volontà popolare che con le elezioni ha voluto una maggioranza e un governo per l’intera legislatura. Il rischio di dittatura in un Paese democratico non viene da chi si mantiene dentro il mandato ricevuto dagli elettori, ma da chi pretende di sostituirlo con un altro confezionato nelle cucine dei partiti o dei poteri forti.
Per una composizione delle attuali diatribe all’interno della maggioranza e tra questa e l’opposizione non vedo altra soluzione che quella di riferirsi prima ancora che alla Costituzione alla volontà popolare espressa con le elezioni politiche. In una democrazia compiuta questa volontà va considerata sacra e inviolabile e chiunque la violi, con pretese non previste né nell’elezione né nella Costituzione, dovrebbe essere privato del mandato di rappresentanza ricevuto.
Giovanni Longu

04 agosto 2010

Aigues-Mortes come Berna e Zurigo nella guerra tra poveri

Per chi non vuol dimenticare che gli italiani sono stati un popolo di migranti e che la vita da emigrato era continuamente a rischio è bene ricordare una delle pagine più tristi della storia dell’emigrazione italiana, scritta col sangue nel mese di agosto di 117 anni fa in Francia.
Sul finire del XIX secolo dall’Italia si partiva in massa, soprattutto verso le Americhe e, nella buona stagione, verso alcuni Paesi europei, specialmente Francia e Svizzera, dove erano diffusi i lavori stagionali. In Svizzera erano soprattutto lavori di genio civile per la costruzione delle ferrovie, in Francia i lavori dell’agricoltura, dell’edilizia e altri.
Quando il lavoro era abbondante e ben retribuito c’era posto per tutti. Quando invece scarseggiava e i padroni tiravano giù le paghe il cosiddetto fronte operaio rischiava continuamente di rompersi e la solidarietà operaia predicata dai socialisti di scomparire. Ciò accadde spesso, sia in Francia che in Svizzera, dove si produssero anche episodi di estrema violenza.
Per alcuni studiosi questi episodi, soprattutto i più gravi, erano la manifestazione violenta di una xenofobia diffusa nei confronti degli italiani, per altri erano eccessi clamorosi di una guerra tra poveri. Non c’è dubbio che gli italiani, per i loro comportamenti rissosi e violenti e per il degrado che caratterizzava spesso il loro modo di vivere, ma soprattutto per la loro disponibilità ad accettare senza opporvisi le condizioni di lavoro e di salario imposte dai datori di lavoro, erano spesso malvisti e disprezzati dagli operai indigeni. Per questa ragione uno studioso ha parlato anche di una «xenofobia operaia». E’ tuttavia significativo che la violenza si manifestava soprattutto nei periodi in cui c’era crisi di lavoro e una situazione sociale tesa. Occorre anche aggiungere che spesso a rompere il fronte operaio intervenivano gli stessi datori di lavoro (interessati a reprimere sul nascere le richieste dei lavoratori indigeni) e numerosi agitatori esterni (interessati più alla lotta di classe che alla solidarietà operaia).

In Francia: Aigues-Mortes
L’episodio più clamoroso accadde nel 1893 nel mese di agosto, quando nelle saline di Aigues-Mortes, una cittadina della Camargue, nella Francia meridionale, la conflittualità latente tra operai italiani e francesi per questioni di produttività (lavoro a cottimo) e salari degenerò in una vera e propria aggressione fisica che lasciò sul terreno, secondo fonti ufficiali, 9 morti tutti italiani (molti di più secondo fonti giornalistiche).
L’aggressione degli operai francesi a quelli italiani era cominciata subito dopo il Ferragosto del 1893 a Aigues-Mortes, ma si trasformò in un vero e proprio eccidio la mattina del 19 agosto. Bisogna dire che i francesi erano esasperati dal fatto che la Compagnie des salines di Peccais, in Camargue, aveva fatto arrivare dall’Italia circa seicento operai italiani e lasciato a casa altrettanti di loro. Per vendicarsi dell’affronto subito, una banda inferocita di diverse centinaia di persone si scatenò contro il bersaglio più facile, gli italiani che avevano accettato di lavorare al loro posto, a cottimo e a una paga inferiore.). Molti riuscirono a salvarsi fuggendo nelle campagne, altri in abitazioni private, altri in luoghi pubblici difesi dalla polizia e dall’esercito intervenuti per sedare i disordini. Per una decina di italiani non ci fu scampo e rimasero morti sul terreno.
L’eco di quella aggressione si diffuse in tutta Europa, ma soprattutto in Francia e in Italia, i cui rapporti diplomatici erano già tesi e rischiarono di deteriorarsi ulteriormente. In Francia si moltiplicarono gli episodi di avversione alla presenza di così tanti italiani soprattutto nei cantieri e in alcune industrie. In Italia la protesta antifrancese sfociò in numerosi disordini con svariati tentativi di danneggiare le principali sedi istituzionali della Francia.
Da entrambe le parti si capì che bisognava rompere subito la spirale della violenza. Alla vibrata protesta dell’ambasciatore italiano, il governo francese rispose assicurando che sarebbe stata fatta la massima chiarezza sull’accaduto e che le famiglie delle vittime sarebbero state prontamente indennizzate. Anche il governo italiano dovette assicurare che sarebbe stata fatta chiarezza sulle responsabilità dei disordini e sarebbero stati colpiti gli organizzatori. Quasi a simboleggiare la buona volontà dei due parti, a Aigues-Mortes fu sospeso dalle sue funzioni il sindaco e a Roma fu sospeso il questore.
Per diverso tempo sia in Francia che in Italia l’ambiente sociale restò teso. Nella regione di Aigues-Mortes si arrivò perfino a organizzare una petizione (poi respinta!) affinché fosse impedito alle imprese francesi di assumere non più del 10 per cento di operai stranieri. Una sorta di iniziativa popolare per contingentare l’afflusso di manodopera estera, anticipando di quasi settant’anni le iniziative antistranieri di Schwarzenbach e degli estremisti di destra svizzeri.
Dal 1893 ad oggi sono passati ben 117 anni e la memoria di quel triste episodio è affidata quasi unicamente ai libri di storia e agli archivi dei giornali dell’epoca. Eppure ritengo utile o addirittura doveroso rievocare anche episodi apparentemente così lontani, se possono aiutare a gestire meglio l’attualità. Credo perciò che sia stata una lodevole iniziativa di storici e rappresentanti istituzionali francesi e italiani l’aver organizzato il 24 luglio scorso a Grimaldi di Ventimiglia una «Giornata italo-francese di riconciliazione della memoria» sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

In Svizzera: Berna e Zurigo
Episodi di violenza contro italiani erano all’ordine del giorno sul finire dell’Ottocento anche in Svizzera, sebbene non abbiano mai raggiunto l’efferatezza di quelli avvenuti nel sud della Francia. Alcuni di essi sono passati alla storia dell’immigrazione italiana in Svizzera, in particolare uno a Berna, proprio nello stesso anno 1893, e uno a Zurigo, nel 1896. Benché non siano stati provocati dagli italiani, sono stati tramandati come «Italiener-Krawall», i tumulti degli italiani.
Quello di Berna, noto anche come Käfigturm-Krawall (19.6.1893) scoppiò tra gli operai edili per motivi salariali. Sempre per ragioni di convenienza economica, un imprenditore aveva preferito gli italiani (che avrebbe potuto rimandare facilmente al proprio Paese in caso di disaccordi o proteste) agli svizzeri che erano meglio organizzati e pretendevano di più. Agli svizzeri sembrò uno sgarbo imperdonabile e attaccarono gli italiani, rei di aver accettato condizioni di lavoro e di salario inferiori a quelle ritenute giuste dagli svizzero-tedeschi. Ne nacque una rissa furibonda, seguita dall’intervento della polizia e l’incarcerazione di alcuni dei litiganti, che la massa dei dimostranti cercò poi di liberare con la forza. Per i tumulti di Berna ci furono 75 imputati e 9 operai in carcere preventivo per quasi un anno, ma nessun morto.
Ben più grave fu il tumulto (Italiener-Krawall) verificatosi tre anni più tardi a Zurigo. La goccia che fece traboccare il vaso fu un episodio criminoso: durante una rissa un immigrato italiano aveva ucciso a coltellate un compagno alsaziano che l’aveva insultato e provocato. In breve tempo si sparse la voce che ancora una volta un italiano aveva fatto uso del suo micidiale coltello e la massa degli antitaliani zurighesi sembrò che non aspettasse altro per mettere a ferro e fuoco tutto quanto sapeva di italiano. Così la notte del 26 luglio 1896 fu data una vera e propria caccia al Tschingg (uno dei numerosi termini dispregiativi con cui s’indicavano gli italiani). In pochissime ore vennero devastati ventidue locali d’italiani tra abitazioni, ritrovi, negozi, ristoranti situati in diverse zone della città, soprattutto nel quartiere operaio Aussersihl, abitato prevalentemente da italiani. Per sedare il tumulto dovette intervenire l’esercito con la fanteria e la cavalleria. Anche in questa occasione, tuttavia, non ci furono morti.
Gli studiosi s’interrogano ancora oggi quali siano state le vere cause scatenanti non tanto dei disordini quanto piuttosto dell’odio verso gli italiani, ma credo che anche solo tentare di dare una risposta richiederebbe un tempo e uno spazio ben più ampi di quelli disponibili. Quel che si può senz’altro affermare è che le cause sono state sicuramente tante e, sia ben chiaro, non tutte attribuibili a una sola parte. Spesso si crede di individuare la radice del male utilizzando un termine che andrebbe a sua volta compreso e spiegato: la xenofobia. Anche la xenofobia ha infatti sicuramente più di una causa.

In conclusione
Si tratta di episodi irripetibili? E’ probabile che episodi del genere non si verifichino più nei Paesi d’immigrazione, ma non si può negare che episodi simili sia pure meno violenti o senza vittime capitano ancora perché spesso non ci si rende conto che alla base di ogni comportamento civile dev’esserci il senso della legalità e la cultura del rispetto e della tolleranza reciproca.
Giovanni Longu
Berna, 4.8.2010

22 luglio 2010

Crocifisso contro laicità?

Il 30 giugno scorso la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha ascoltato le parti riguardo al ricorso dell’Italia contro la sentenza della stessa Corte di togliere i crocefissi dalle aule scolastiche.
In primo grado, la Corte aveva stabilito il 3 novembre 2009 che il crocifisso nelle aule è «una violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni e del diritto degli alunni alla libertà di religione», imponendo all'Italia un risarcimento di 5.000 euro per danni morali.

Ho seguito il dibattito del 30 giugno scorso e, prescindendo dalle questioni eminentemente giuridiche, ho notato che tutti gli interventi ruotavano praticamente attorno a concetti astratti con risvolti evidentemente pratici quali «laicità», «tolleranza», «ambiente neutro e pluralistico», «libertà religiosa», «libertà di coscienza» e altri ancora. Per la parte avversa allo Stato italiano, ad esempio, l’esposizione del crocifisso quale simbolo religioso in un luogo pubblico (ad esempio un’aula scolastica) violerebbe il principio costituzionale della «laicità» dello Stato. Inoltre, la semplice presenza del crocifisso in un’aula scolastica costituirebbe un attentato alla «libertà di coscienza» e al diritto del singolo di ricevere una formazione conforme alle sue «convinzioni religiose e filosofiche». Ovviamente, per il difensore dell’Italia la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche non viola alcuno dei concetti summenzionati, purché ci s’intenda sul loro significato.
Laicità e tolleranza?
In effetti, a mio parere, tutta la questione sta nel significato che si dà alle parole chiave riportate. Infatti «laicità» può essere tanto una sana e persino ovvia separazione del potere civile dal potere religioso, ma anche «laicismo», come atteggiamento che propugna non solo la separazione tra Stato e Chiesa, ma anche l’eliminazione nella sfera civile pubblica di qualsiasi anche solo apparente commistione tra i due poteri. Senza dire che certe forme di «laicismo» tradiscono un vero e proprio anticlericalismo illiberale e persino un ateismo mascherato. «Tolleranza» è l’atteggiamento tipico di una società pluriculturale in cui gli individui si accettano e rispettano come persone indipendentemente dalle idee e convinzioni religiose o filosofiche che sostengono e manifestano. La tolleranza tuttavia non può essere spinta al punto da esigere la rinuncia alla libertà di manifestare apertamente le proprie idee e la propria credenza. Significherebbe esigere la rinuncia alla propria identità.
Nelle argomentazioni della parte avversa allo Stato italiano, credo che le motivazioni della «laicità» e della «tolleranza» siano inaccettabili perché fanno riferimento a significati eccessivi e negativi, ma soprattutto perché senza fondamento. Credo che sia difficile per chiunque dimostrare che per la semplice presenza nelle aule scolastiche del crocifisso lo Stato italiano intenda subdolamente «indottrinare» gli allievi che la frequentano. Pertanto tale presenza non viola a mio modo di vedere la «laicità» dello Stato italiano. Se l’esposizione in luogo pubblico del crocifisso non comporta alcun indottrinamento diretto o alcuna violenza indiretta alle idee e ai sentimenti religiosi o filosofici degli allievi, non vedo come si possa ritenere fondata l’accusa della parte avversa di considerare l’aula scolastica con crocifisso un «ambiente negativo» per lo sviluppo delle idee religiose o filosofiche degli allievi.
L’accusa poi di «mancanza di tolleranza» per il fatto che in un’aula è esposto il simbolo religioso della maggioranza credo che meriti qualche riflessione. Ovviamente l’aula scolastica, che dev’essere aperta a tutti senza restrizioni, deve cercare di garantire un ambiente neutro, pluralistico e aconfessionale. Se la presenza di un simbolo religioso dovesse creare problemi di natura psicologica e comportamentale (da provare!) mi pare giudizioso che se ne debba discutere nella sede opportuna. Invocare invece la via giudiziaria mi sembra la scelta sbagliata, anche perché si rischia l’assurdo.
Domande alla Grande Chambre
Nella vertenza in questione, la parte avversa (un solo genitore, nemmeno entrambi i genitori di due allievi) sostiene che voler mantenere il crocifisso nell’aula, come deciso a stragrande maggioranza dal consiglio d’istituto, significa una vera e propria «tirannia della maggioranza». A questo punto la domanda sorge spontanea: e come si configurerebbe la situazione se la richiesta della esigua minoranza s’imponesse contro la volontà manifesta della maggioranza? Detto altrimenti: come potrebbe il diritto dei non credenti di non credere costringere i credenti a rinunciare ai loro diritti di manifestare il proprio credo?
Rispondere a queste e simili domande non sarà facile per la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, anche perché nella vertenza sono intervenuti una decina di Stati del Consiglio d’Europa, che si sono opposti alla decisione originaria sostenendo l’Italia, e la sentenza, attesa entro la fine dell’anno, non potrà riguardare solo lo Stato italiano.
Il ricorso alla Corte europea di Strasburgo, pur ritenendolo sostanzialmente infondato, credo che avrà una grande importanza sul piano della riflessione individuale e collettiva. Occorre infatti che non solo gli italiani, ma gli europei in generale, riconsiderino la loro «semenza», per usare un termine dantesco, fatta di tante cellule ma sicuramente anche di quella cristiana.
Percorrendo recentemente una regione meridionale della Germania, la Foresta Nera, ho avuto la sensazione di trovarmi in un Paese che questa riflessione l’ha già fatta. L’intero territorio, tutte le città, i villaggi e anche i piccoli insediamenti sono marcati da quel simbolo che si vorrebbe espellere dalle aule scolastiche, la croce. Una miriade di chiese, monasteri, cappelle generalmente in ottimo stato segnalano la presenza viva sul territorio di una religiosità che ha radici profonde e sa convivere pienamente con la modernità. Evidentemente, religiosità e laicità non stanno in contraddizione e la tolleranza vera si esprime rispettando tutti, quelli che hanno simboli e vogliono mantenerli e quelli che non ne hanno e non vogliono averne.
Giovanni Longu
Berna, 21.07.2010

21 luglio 2010

Per un’intesa forte in difesa dell’italiano in Svizzera

Con l’approvazione della legge sulle lingue e della relativa ordinanza d’applicazione sono ora disponibili gli strumenti giuridici necessari per poter intervenire a sostegno e a promozione del plurilinguismo soprattutto all’interno dell’Amministrazione federale. Ma al di fuori di essa, cosa ne sarà soprattutto delle lingue minoritarie e specialmente dell’italiano?
Il delegato federale al plurilinguismo
Il 1° luglio è entrata in vigore la tanto attesa ordinanza sulle lingue. E’ stata fortemente voluta soprattutto dalla Deputazione ticinese alle Camere federali. Sarebbe tuttavia un errore pensare che il suo compito sia finito con l’approvazione della legge e relativa ordinanza e con la consegna alla Cancelliera della Confederazione, il 1° giugno, di un «Manifesto per il plurilinguismo nell’Amministrazione federale». Al contrario, il lavoro serio e costante comincia solo ora. Sta infatti soprattutto alla Deputazione vigilare e controllare che la legge e l’ordinanza vengano applicate correttamente, almeno per quel che riguarda l’italiano.
E’ vero che l’ordinanza prevede, ad esempio, che gli italofoni nell’Amministrazione federale siano almeno il 7 per cento e che spetta al delegato al plurilinguismo «raccogliere informazioni e riferire sulla rappresentanza delle comunità linguistiche e sullo sviluppo del plurilinguismo nell’Amministrazione federale», ma sta alla Deputazione vigilare e, se il caso, intervenire con gli strumenti parlamentari adeguati.
L’ombudsman richiesto dalla Deputazione non è stato concesso, se non con competenze limitate, in quanto il delegato non ha alcun potere vero di mediazione, d’investigazione e d’intervento. Si deve tuttavia dare ampia fiducia al delegato Vasco Dumartheray, in carica dal 1° luglio, perché conosce nei dettagli l’Amministrazione federale, vive già in famiglia il plurilinguismo (ha origini svizzere, brasiliane e francesi ed è sposato con una ticinese) e saprà quanto meno vigilare sull’applicazione delle quote fissate dal governo per i germanofoni (70%), i francofoni (22%), gli italofoni (7%) e i romanci (1%). Vero è che il suo compito non sarà facile perché oltre alla semplice vigilanza (cosa di per sé non da poco) dovrà occuparsi anche della promozione del plurilinguismo e soprattutto delle lingue minoritarie.
Mi auguro, ad esempio, che per migliorare la situazione non si metta tanto l’accento sull’aumento della traduzione italiana quanto sull’aumento del numero dei quadri italofoni da inserire nei vari uffici.
Credo anche che il delegato al plurilinguismo possa (o debba?) esprimersi pure sulla rappresentanza italofona in Consiglio federale ogniqualvolta se ne presenti l’occasione. E prossimamente ce ne sarà più d’una. Lo farà, o qualcuno gli obietterà che la questione non rientra nelle sue competenze? Eppure, nell’opinione pubblica italofona, si sente la mancanza (ingiustificata) di un rappresentante italofono nel governo federale.
Chi difenderà l’italiano in Svizzera?
In Svizzera, al di fuori del Ticino, l’italiano è in forte crisi, come ampiamente dimostrato dalle statistiche, dal progetto di ricerca sul plurilinguismo del Fondo nazionale PNR 56. Nelle scuole di secondo grado e nelle università i corsi d’italiano e i relativi partecipanti continuano a diminuire. Lo Stato italiano, come noto, riduce sempre più incisivamente i suoi interventi nel settore dei corsi e della promozione della lingua e della cultura italiane. E’ possibile rallentare questo declino?
Non c’è dubbio che di fronte a una situazione che appare irrimediabile il pessimismo è persino ovvio. Eppure c’è ancora spazio per un moderato ottimismo. L’italiano in Svizzera non può essere dato per tramontato perché a sud della Svizzera c’è un grande Cantone solidamente italofono e, a quanto sembra, deciso a contare maggiormente a Berna.
Tra i parlamentari del Consiglio nazionale e del Consiglio degli Stati sono numerosi quelli italofoni (o sensibili alla lingua e alla cultura italiane) interessati a un rafforzamento della presenza dell’italiano come lingua nazionale e ufficiale dell’intera Confederazione. Credo che un loro coinvolgimento diretto nella problematica dell’italianità in Svizzera possa risultare di grande utilità. Sarebbe anche auspicabile che l’Ambasciata italiana, nell’ambito dei suoi rapporti istituzionali, non trascurasse questo elemento, che potrebbe dimostrarsi addirittura determinante in una strategia comune di promozione della lingua e della cultura italiane in Svizzera.
E’ tempo di sintesi
Non so se nella storia delle relazioni italo-svizzere ci sia mai stato un momento più favorevole per un’intesa forte in difesa dell’italiano. Quando il Ticino non si curava (tanto) degli italiani e questi avevano come unico (o quasi) punto di riferimento lo Stato italiano, era quasi inevitabili percorrere strade parallele o persino divergenti. Oggi si avverte invece chiaramente che è venuto il momento delle convergenze, delle sinergie, della sintesi. Perché non cogliere questa occasione che forse non si ripresenterà più?
Infine, non si dovrebbe mai dimenticare che gli italofoni in Svizzera sono ancora tanti, non sono affatto marginalizzati nell’economia e nella cultura, hanno il senso dell’appartenenza ad una grande famiglia linguistica e culturale europea, sanno di avere radici sane e profonde. Purtroppo questi italofoni non hanno ancora trovato una motivazione comune per una mobilitazione collettiva in difesa di questo loro patrimonio linguistico e culturale. E’ in questa direzione che occorre muoversi.
Giovanni Longu
Berna, 21 luglio 2010

07 luglio 2010

Intercettazioni e libertà di stampa

A sentire l’interminabile e stucchevole dibattito sulle intercettazioni sembrerebbe che senza di esse la magistratura annasperebbe nel buio più fitto e non riuscirebbe più ad acciuffare i criminali e i malavitosi. A giudicare dai telefoni sotto controllo (oltre 130.000 nel 2009!) e dal numero delle intercettazioni che coinvolgerebbero centinaia di migliaia o addirittura milioni di persone, sembrerebbe inoltre che i presunti criminali pericolosi debbano essere dell’ordine di almeno centinaia di migliaia. Sembra inverosimile, eppure secondo i magistrati o almeno alcuni magistrati è così: senza le intercettazioni a tutto campo non sarebbe più possibile scovare e acciuffare i criminali. Addirittura, è stato detto, il disegno di legge sulle intercettazioni sarebbe anticostituzionale e «criminogeno», contribuirebbe cioè a far aumentare ulteriormente la criminalità organizzata.

Una legge «criminogena»?
Un discorso, però, che per il comune cittadino non quadra. Se le intercettazioni di presunti delinquenti pericolosi sono così numerose, come mai, dopo anni e anni di sofisticate indagini non si è ancora riusciti a debellare la mafia, la ‘ndrangheta e in genere la criminalità organizzata? E ancora, se davvero le intercettazioni sono indispensabili, come sostengono i magistrati che protestano contro il Governo che vuole ridimensionarne il numero apparentemente esagerato e i relativi costi dell’ordine di centinaia di milioni di euro, quante persone dovrebbero riguardare (milioni?) e per quanti anni per poter acciuffare e affidare i criminali pericolosi alle patrie galere? Ma davvero la tanto esaltata intelligence italiana, con un minor numero di intercettazioni ben mirate, sarebbe messa in ginocchio? Oppure è vero che molte intercettazioni sono inutili e costituiscono uno dei tanti sprechi che caratterizzano l’amministrazione pubblica? Oppure la magistratura è un potere che, pur essendo chiamato a far rispettare le regole della convivenza civile, non vuole regole, nemmeno se approvate dal Parlamento sovrano?
Ancora: se le statistiche sulla criminalità collocano l’Italia nella media dei grandi Paesi del mondo, come giustificare all’opinione pubblica che per numero di intercettazioni per abitanti il nostro Paese è il più spiato del mondo? Stando al tedesco Max Planck Institut, l’Italia sarebbe il paese «più intercettato del mondo», con 76 intercettazioni ogni 100.000 abitanti. Seguirebbero i Paesi bassi con 62, la Svezia con 33 e la Germania con 23,5, mentre il Regno Unito starebbe attorno alle sei. Ovviamente non vengono presi in considerazione Stati di tipo autoritario come la Corea del nord, l’Iran o Cuba. Non credo che, andando avanti come finora l’Italia possa menar vanto di questo primato!

Privacy contro libertà di stampa?
Il disegno di legge sulle intercettazioni, finalizzato soprattutto a ridurre gli sprechi, in un momento in cui tutti gli Stati europei sono chiamati a mettere i propri conti in regola, mira anche a salvaguardare la vita privata dei cittadini. A prima vista non dovrebbe esserci in Italia chi non possa condividere questo obiettivo. La vita privata dei cittadini appartiene per definizione al privato e va quindi salvaguardata. E invece sono molti coloro che ritengono questo obiettivo esagerato e addirittura lesivo della libertà di stampa e d’informazione.
Apro una parentesi. In Svizzera negli anni Novanta del secolo scorso ci fu un grande scandalo quando si seppe che centinaia di migliaia di cittadini e di stranieri (generalmente di sinistra) erano schedati. La commissione parlamentare che se ne occupò decise la distruzione di tutte quelle schede perché illegali e inutili. I contenuti di tante registrazioni non avevano alcuna rilevanza ai fini della salvaguardia della sicurezza dello Stato. Molti erano segreti di Pulcinella. Eppure nessuna di quelle schede venne mai pubblicata!
Quello scandalo ha avuto un’appendice qualche giorno fa perché si è venuto a sapere che non tutte quelle schede vennero effettivamente distrutte. Perché? Ma anche in questa occasione non è stata pubblicata alcuna scheda.
Solo in un caso, che nulla ha a che fare con le schedature di presunti estremisti, l’opinione pubblica si è resa veramente conto della gravità della pubblicazione di qualcosa che non ha rilevanza penale, ma attiene alla sfera privata. E’ noto che a Ginevra è stato arrestato due anni fa un figlio del leader libico Gheddafi; è invece forse meno noto che la foto segnaletica dello stesso fu pubblicata illegalmente da un quotidiano locale, creando un vero e proprio affare di Stato, non ancora risolto. Richiamando la complessa vicenda, un lettore di un quotidiano ticinese, pochi giorni fa, scriveva testualmente: «la reale gravità di quanto contestato al figlio [di Gheddafi] è tutta da appurare e la pubblicazione della foto segnaletica dello stesso equipara questo Paese [la Svizzera] all’ignobile prassi italiana; evidentemente certi magistrati svizzeri si identificano in certi (europei) Di Pietro e Garzon; la smania di protagonismo di certuni ha causato una incredibile crisi svizzero-libica durata per ben due anni e a farne le spese sono stati due poveracci…».
In Italia non si è ancora giunti a casi del genere, ma altri tipi di pubblicazioni hanno segnato per sempre la vita di molte persone. Si direbbe che certi magistrati confondano la verità e la giustizia con l’umiliazione del presunto colpevole, ignorando vergognosamente che potrebbe essere ritenuto persino innocente e che comunque anche il condannato conserva intatti i diritti al rispetto della sua dignità personale.

Legge bavaglio per la stampa?
Il disegno di legge sulle intercettazioni non riguarda solo i magistrati, ma anche la stampa che spesso fa un uso indiscriminato delle intercettazioni. Visti gli abusi, non negati nemmeno dai più fanatici difensori della libertà assoluta di pubblicare qualsiasi cosa, il Governo e il Parlamento intendono ora porre dei limiti. Sarebbe, anzi è, normale in qualsiasi società civile, eppure la stampa italiana insorge come se si trattasse di una ingerenza liberticida da parte di un potere tirannico, come se in Italia Governo e Parlamento non fossero di emanazione democratica e popolare.
Credo che la libertà di stampa vada difesa a spada tratta, ma in uno Stato di diritto tutte le libertà possono anzi hanno dei limiti naturali invalicabili. Uno di questi limiti è che non si possano pubblicare indiscriminatamente informazioni anche vere che ledono la dignità della persona umana, tanto più se per legge sono coperte dal segreto professionale o processuale.
Perché dunque scandalizzarsi? Lo scandalo non sta nei limiti che si vorrebbe far osservare anche alla stampa, ma negli abusi continui di questa libertà. Non so quanti hanno letto qualcuna delle innumerevoli intercettazioni su intere pagine di giornali, ma dubito che, se l’hanno fatto, non abbiano provato un grande senso di disgusto. Spesso, infatti, si tratta di contenuti a sfondo sessuale o con riferimenti a vere o presunte prestazioni sessuali, coinvolgendo persone totalmente estranee alle indagini.

Giornalisti e pennivendoli
Riportando frasi o spezzoni di frasi talvolta fuori da ogni contesto oggettivo, è facile che il filo conduttore sia lasciato all’interpretazione del lettore, e quindi a ogni possibile illazione, supposizione, deduzione completamente estranee a ogni logica processuale e dibattimentale. In effetti, per molti giornalisti che meglio sarebbe chiamare pennivendoli, non è la verità o la notizia oggettiva che conta ma gettare fango addosso a determinate persone possibilmente di alto rango politico, ancora meglio se a capo del Governo. E’ questa la libertà di stampa che si vorrebbe a tutti i costi difendere?
Molti dei giornalisti che si appellano a questo tipo di libertà di stampa, in realtà la strapazzano, riducendola a ben poca cosa. Nel pubblicare cose dette da altri e non ancora verificate dai tribunali non vedo né la forza investigativa del buon giornalista né la perspicacia dell’analisi né l’originalità della «notizia». Vedo solo il degrado della notizia ridotta a pettegolezzo e gossip, la ricostruzione dei fatti a interpretazioni senza fondamento, a cattiveria gratuita. Altro che privacy!
Ben venga dunque una limitazione di questa depravata libertà d’infangare. Bugiardi quei giornalisti che si appellano al diritto-dovere dei cittadini ad essere informati, come se il popolo italiano fosse una massa di guardoni, di abbrutiti, di vendicatori neri. Perché al lettore non vengono offerte nella stessa misura notizie positive riguardanti tutti coloro che dalla giustizia vengono quotidianamente assolti? Perché per molti giornalisti fa fede la parola del poliziotto, dell’investigatore, del pubblico ministero e non quella del difensore? Non sarebbe meglio aspettare le vere sentenze?

Dov’è l’interesse pubblico?
Quanti giornalisti, prima di riportare un’intercettazione non si chiedono semplicemente: dov’è l’interesse pubblico in quel che si sta per scrivere? Qual è, ad esempio, l’interesse pubblico delle inchieste tipo quella «su Berlusconi e su come lui usa il sesso a fini politici» addirittura filmata? Cos’hanno di interesse pubblico le registrazioni assolutamente illegali della escort D’Addario? Cos’hanno di interesse pubblico le prodezze o le disfatte sessuali di Tizio o di Caio?
E’ difficile accettare l’idea che gli italiani siano un popolo di guardoni, di qualunquisti che riducono l’informazione al gossip, o peggio, siano così assetati di vendetta da godere se l’avversario politico è infangato e distrutto mediaticamente. E’ questa la «verità» che vorrebbero conoscere gli italiani?
E’ difficile accettare l’idea che in Italia ci sia più libertà di stampa quando si può calunniare, infangare, persino suscitare odio e non quando la stampa sente la responsabilità di contribuire a risolvere i problemi reali del Paese, a instaurare un clima di tolleranza e di collaborazione, a suscitare fiducia negli organi dello Stato democraticamente costituiti. Non sarebbe anche un ottimo contributo del giornalismo italiano, se riuscisse a dare dell’Italia nel mondo un’immagine più positiva, valorizzandone i punti forte, i numerosi talenti, le tante eccellenze, le innumerevoli capacità imprenditoriali, ecc.? Ben venga, dunque, una buona legge sulle intercettazioni e sul loro uso!
Giovanni Longu
Berna, 7 luglio 2010

01 luglio 2010

Plurilinguismo: per la Deputazione il compito continua

Plurilinguismo: per la Deputazione il compito continua
Il 1° luglio è entrata in vigore la tanto attesa ordinanza sulle lingue. La prima a gioirne sembra essere la Deputazione ticinese alle Camere federali, a cui va dato atto di essersi adoperata molto per ottenere dapprima la legge e ora l’ordinanza. Sarebbe tuttavia un errore pensare che il suo compito sia finito con l’approvazione della legge e la consegna alla Cancelliera della Confederazione, il 1° giugno, di un «Manifesto per il plurilinguismo nell’Amministrazione federale». Al contrario, il lavoro serio e costante comincia solo ora. Sta infatti soprattutto alla Deputazione vigilare e controllare che la legge e l’ordinanza vengano applicate correttamente, almeno per quel che riguarda l’italiano.
E’ vero che l’ordinanza prevede, ad esempio, che gli italofoni nell’Amministrazione federale siano almeno il 7 per cento e che spetta al delegato al plurilinguismo «raccogliere informazioni e riferire sulla rappresentanza delle comunità linguistiche e sullo sviluppo del plurilinguismo nell’Amministrazione federale», ma sta alla Deputazione vigilare e, se il caso, intervenire con gli strumenti parlamentari adeguati. L’ombudsman richiesto dalla Deputazione non è stato infatti concesso, se non con competenze limitate, in quanto il delegato non ha alcun potere vero di mediazione, d’investigazione e d’intervento.
In Svizzera, al di fuori del Ticino, l’italiano è in forte crisi, come ampiamente dimostrato dalle statistiche, dal progetto di ricerca sul plurilinguismo del Fondo nazionale PNR 56, e dalla stessa scarsa rappresentanza italofona nell’Amministrazione federale. Alcuni anni fa, la Consigliera federale Ruth Dreifuss da me interpellata in merito alle competenze del Cantone Ticino circa la promozione dell’italiano fuori del proprio territorio, mi assicurò che il Ticino riceveva contributi finanziari per la difesa dell’italiano anche fuori del Cantone. Da parte cantonale, tuttavia, veniva dichiarata la propria incompetenza ad agire oltre i propri confini.
Oggi, questo ostacolo è dichiarato ufficialmente inconsistente perché l’ordinanza sulle lingue prevede espressamente all’art. 23 che la Confederazione concede «aiuti finanziari al Cantone Ticino per sostenere attività sovraregionali di organizzazioni e istituzioni, segnatamente per: a) progetti di salvaguardia e promozione del patrimonio culturale; b) misure di promozione della creazione letteraria; c) l’organizzazione e lo svolgimento di manifestazioni linguistiche e culturali».
Si spera quindi che il Ticino si avvalga di questi aiuti finanziari per promuovere e sostenere attività promozionali e di salvaguardia anche fuori dei confini cantonali. E’ tuttavia necessario che le autorità ticinesi possano contare al di fuori del Cantone su enti, organizzazioni e persone italofone, svizzere e straniere, motivate a promuovere e valorizzare il ricco patrimonio linguistico e culturale italiano. L’italiano potrà essere salvato solo attraverso un sistema di sinergie.
Bastano questi esempi per sottolineare che il compito del Cantone Ticino e in particolare della Deputazione ticinese alle Camere federali è tutt’altro che esaurito con l’entrata in vigore della legge e dell’ordinanza sulle lingue. Un primo bilancio si potrà già tirare fra un anno, quando verranno presentate le nuove statistiche sulla ripartizione del personale federale, o anche prima se nel frattempo ci saranno sostituzioni importanti in seno agli Uffici federali e magari nello stesso Consiglio federale.
Giovanni Longu
Berna, 1° luglio 2010
[Pubblicato in: Giornale del Popolo del 5.7.2010, Corriere del Ticino dell'8.7.2010, La RegioneTicino dell'8.7.2010]

30 giugno 2010

Tre baluardi a difesa dell’italianità in Svizzera

Col rientro in patria di molti italiani della prima generazione e la crescita esponenziale delle seconde e terze generazioni, spesso nemmeno più italofone, da alcuni decenni l’italiano parlato e studiato in Svizzera perde costantemente utilizzatori e conoscitori. E’ come un malato (grave) che s’indebolisce sempre di più e rischia purtroppo di esaurirsi come una pianta a cui non giunge più linfa vitale. E siccome il fenomeno è interessante sotto il profilo scientifico, sono in molti ormai che lo osservano, lo studiano, lo analizzano, organizzano convegni e tavole rotonde. Linguisti, sociologi, psicologi, discutono, scrivono e concludono inevitabilmente che la situazione è grave, forse irrimediabile. Trattandosi di «esperti», le loro conclusioni non vanno minimizzate, ma forse nemmeno drammatizzate.
Intanto va detto che l’italiano in Svizzera è sì in crisi, ma non dappertutto. Lo è sicuramente nella Svizzera tedesca e francese, ma non nel Ticino e in una parte dei Grigioni, dove l’italiano gode ottima salute e non desta timori circa la sua vitalità. Il Ticino, grazie alla sua solidità, rappresenta un baluardo sicuro per la lingua di Dante e per l’italianità in generale anche fuori del Cantone, dove è particolarmente minacciato. Ma non è l’unico. Anche la Confederazione è schierata in difesa del plurilinguismo e quindi anche dell’italiano come lingua nazionale e lingua ufficiale. Infine, ma non ultimo, anche lo Stato italiano rappresenta un fondamentale riferimento istituzionale per la promozione e la salvaguardia della lingua e della cultura italiane in Svizzera.
Quando si affronta la tematica della crisi dell’italiano in Svizzera non si dovrebbe mai dimenticare l’esistenza di questi tre baluardi. Presi individualmente, tuttavia, essi sono deboli. Per essere efficaci dovrebbero interagire.

Il Ticino
Il Ticino ha sempre avuto, storicamente e istituzionalmente, il compito di garantire nella Confederazione la componente italiana. Sentendosi a sua volta minacciato, questo Cantone ha provveduto soprattutto a garantire la propria identità linguistica e culturale, dimenticandosi molto spesso che la lingua e la cultura italiane andavano salvaguardate anche nel resto della Svizzera. Alcuni anni fa, interpellai al riguardo la Consigliera federale Ruth Dreifuss, che mi assicurò che il Ticino riceveva contributi finanziari per la difesa dell’italiano anche fuori del proprio territorio. Da parte cantonale, tuttavia, veniva dichiarata la propria incompetenza ad agire oltre i propri confini. Oggi, grazie alla legge sulle lingue e alla relativa ordinanza d’applicazione, in vigore dal 1° luglio, questo ostacolo sembra superato.
L’ordinanza sulle lingue prevede espressamente all’art. 23 che la Confederazione concede «aiuti finanziari al Cantone Ticino per sostenere attività sovraregionali di organizzazioni e istituzioni, segnatamente per: a) progetti di salvaguardia e promozione del patrimonio culturale; b) misure di promozione della creazione letteraria; c) l’organizzazione e lo svolgimento di manifestazioni linguistiche e culturali». Si spera quindi che il Ticino si avvalga di questi aiuti finanziari per promuovere e sostenere attività promozionali e di salvaguardia anche fuori dei confini cantonali. E’ altresì auspicabile che sorgano soprattutto nei principali centri urbani della Svizzera tedesca e francese iniziative e progetti atti a mettere in luce il ricco patrimonio linguistico e culturale italiano. Spetterà poi al Cantone la responsabilità di onorare gli impegni che attraverso la legge e l’ordinanza sulle lingue si è assunto.

La Confederazione
La Confederazione è il garante istituzionale del plurilinguismo elvetico, conformemente al dettato costituzionale e ora anche alla nuova legge sulle lingue nazionali e la comprensionetra le comunità linguistiche. In questo quadro, essa garantisce ogni anno migliaia di traduzioni soprattutto in francese e italiano che consentono la stessa informazione all’insieme della popolazione. Si tratta non solo di pubblicazioni ufficiali (come leggi e ordinanze) ma anche di rapporti, opuscoli informativi, analisi, raccomandazioni, ecc.
La Confederazione è anche un importante datore di lavoro che occupa non solo svizzero-tedeschi, ma anche francofoni e italofoni. Con la recente ordinanza sulle lingue s’impegna anche a raggiungere nell’Amministrazione federale determinate quote in rappresentanza delle quattro comunità linguistiche nazionali.
E’ interessante osservare che la quota fissata per gli italofoni è ora del 7%, dopo che per quasi un decennio era rimasta bloccata al 4,3%. E’ stato un errore gravissimo, perché ha consentito l’abbassamento generale e forse irrimediabile della rappresentanza italofona, soprattutto in alcuni Dipartimenti. Per il raggiungimento del nuovo obiettivo occorrerebbe una volontà di ferro dell’intero Consiglio federale, che dovrebbe esigerlo anche in quei Dipartimenti dove lo squilibrio delle lingue è maggiore, ed esigerlo a tutti i livelli gerarchici. Ma ce l’ha il governo una simile determinazione? Il dubbio è legittimo.
Sarà difficile che il nuovo obiettivo possa essere raggiunto anche perché il sistema di controllo previsto dall’ordinanza è obiettivamente fragile. Esso è affidato essenzialmente alla figura del delegato al plurilinguismo, che non ha le competenze che avrebbe potuto avere un ombudsman parlamentare (cioè eletto e non un dipendente di un ufficio federale). L’ordinanza gli assegna in particolare i compiti di «a) trattare le questioni in materia di plurilinguismo sollevate in seno al Parlamento e all’Amministrazione; b) sensibilizzare, consigliare e sostenere le persone e le unità amministrative di cui al capoverso 1 in merito al plurilinguismo nell’ambito del reclutamento e dello sviluppo del personale; c) raccogliere informazioni e riferire sulla rappresentanza delle comunità linguistiche e sullo sviluppo del plurilinguismo nell’Amministrazione federale» e di esprimere pareri e formulare raccomandazioni. Si tratta, come si vede, di compiti importanti, ma non tali da consentire al delegato al plurilinguismo di intervenire in piena autonomia e con autorevolezza nelle situazioni più critiche con reali poteri di mediazione, d’investigazione e di raccomandazione.
La Confederazione resta indubbiamente il garante principale del plurilinguismo in Svizzera, ma il suo ruolo non va sopravvalutato. Tanto la legge che l’ordinanza sulle lingue si basano infatti su un fragile equilibrio tra Confederazione e Cantoni, per cui la prima non può nulla imporre ai secondi in materia linguistica, ma può solo concedere aiuti finanziari (obiettivamente molto modesti) per sostenere determinate iniziative. E se queste iniziative mancano? La Confederazione non può sostituirsi ai Cantoni. La responsabilità principale del plurilinguismo incombe dunque sui Cantoni ed è ancora tutto da dimostrare che abbiano interesse a salvare per esempio l’italiano. Di fatto, in quasi tutti i Cantoni l’offerta di corsi d’italiano nella scuola pubblica e nell’università è in forte calo e non ci sono segni di inversione di tendenza.

Lo Stato italiano
In un’analisi seria del plurilinguismo elvetico, almeno per quel che riguarda la presenza e lo sviluppo dell’italiano e dell’italianità in Svizzera, non c’è dubbio che lo Stato italiano svolga un ruolo di primo piano. Basti pensare alla continua assistenza prestata in tutti i campi ormai da quasi 150 anni a centinaia di migliaia di cittadini italiani qui immigrati. Basti ricordare l’organizzazione e il finanziamento di innumerevoli scuole italiane e migliaia di corsi di lingua e cultura italiane. Senza dimenticare il sostegno a una miriade di associazioni e istituzioni pubbliche e private di italiani, che hanno determinato un’ampia diffusione della lingua e della cultura italiane in tutti gli angoli della Svizzera. Se ancora oggi l’italiano è così diffuso (si pensi che nel 2000 lo parlava almeno saltuariamente circa un milione di persone!) molto si deve all’intervento diretto o indiretto dello Stato italiano.
Purtroppo però da alcuni anni il sostegno pubblico italiano tende a ridursi. In molti gridano allo scandalo. Altri cominciano a rendersi conto che i corsi di lingua e cultura stanno rapidamente esaurendo lo scopo per cui furono istituiti e sviluppati negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Occorre anche dire che i processi d’integrazione, dapprima lenti e poi sempre più rapidi, rendono meno necessari certi interventi statali di tipo assistenziale.
Il ruolo dello Stato italiano diviene dunque secondario nella salvaguardia dell’italiano e dell’italianità in Svizzera? Niente affatto, anche perché la valorizzazione del patrimonio culturale italiano resta anche compito dell’Italia. Le forme degli interventi, tuttavia, è giusto che cambino, devono cambiare.

Collaborazione indispensabile
A Zurigo, dove c’è la più forte concentrazione d’italofoni fuori del Ticino, si stanno sperimentando nuove forme che meritano grande attenzione. Si è riusciti a costituire un «polo scolastico» riconosciuto l’anno scorso dal Cantone quale «scuola bilingue/biculturale italiano-tedesco». Le autorità consolari stanno inoltre cercando, finora con successo, di rilanciare la Casa d’Italia di Zurigo «come luogo di incontro per la collettività italiana, attraverso l’organizzazione di eventi culturali ed altre manifestazioni a favore dei connazionali e delle loro associazioni, unitamente agli amici svizzeri ed italofoni». Si notano molti segni di apertura e sostegno culturale da parte del locale Centro Studi Italiani. Sul modello, ancora incompiuto ma già ben delineato di Zurigo, si stanno muovendo anche altre realtà a forte presenza italiana, a Basilea, a Ginevra, a Berna.
Ovunque ci si rende conto che la salvaguardia dell’italianità passa ormai per altre forme rispetto al passato. Ma in tutto questo movimento c’è una novità: oggi l’italianità può essere difesa solo stando INSIEME. E’ divenuto un compito che spetta congiuntamente al Ticino (ticinesi), alla Confederazione (italofoni), ai Cantoni e allo Stato italiano (italiani). Solo insieme sarà possibile valorizzare e persino sviluppare la lingua e la cultura italiana nelle sue molteplici espressioni. Solo coinvolgendo direttamente i Cantoni e le grandi Città sarà possibile d’ora in poi sviluppare i corsi d’italiano nell’ambito della scuola locale (oggi è possibile grazie alla legge federale sulle lingue). Solo valorizzando insieme il potenziale dell’italofonia sarà possibile garantire nell’Amministrazione federale una presenza efficace e non solo simbolica della lingua e della cultura italiana. Solo con una stretta, leale e costante collaborazione tra italiani, ticinesi e altri italofoni sarà possibile rivitalizzare le associazioni più innovative, realizzare iniziative e progetti culturali nell’ambito dell’italofonia e della cultura italiana, mantenere viva anche nella Svizzera tedesca e francese una tradizione d’italianità che ben s’inserisce nel ricco panorama culturale svizzero.
Giovanni Longu
Berna 30.06.2010

23 giugno 2010

Como, Varese e la Valle d’Aosta prossimi Cantoni svizzeri?

In diverse epoche, movimenti irredentisti italiani hanno rivendicato il Ticino fino al San Gottardo per il completamento del territorio nazionale. Nei 150 anni di storia delle relazioni italo-svizzere, non credo invece che si sia mai posta seriamente per la Svizzera la questione circa la possibilità d’integrare nel suo territorio regioni appartenenti al Regno d’Italia prima e alla Repubblica Italiana dopo, … fino a qualche mese fa. Sì, fino a qualche mese fa, quando una tale possibilità è stata invocata da alcuni parlamentari svizzeri. Con una mozione hanno infatti chiesto al Consiglio federale svizzero di proporre gli adeguamenti costituzionali e legislativi necessari in modo da poter integrare nel territorio nazionale, ovviamente a richiesta, alcune regioni di confine quali, ad esempio, le province di Como e di Varese, la Valle d’Aosta, Bolzano, l’Alsazia, il Voralberg, ecc.
Ipotesi balzana di qualche paranoico isolato, dirà forse qualcuno. E invece no, si tratta di una vera e propria mozione parlamentare che porta il nome di un deputato (Dominique Baettig) del partito di destra UDC (Unione democratica di centro), ma è stata sostenuta da ben 28 parlamentari.

Seguendo il filo della storia
Si può ricordare che la Svizzera, dopo il Congresso di Vienna del 1815, non è mai stata tentata seriamente d’integrare altri territori nei suoi confini. L’Italia invece, sia prima dell’Unità che dopo, è stata attraversata da movimenti irredentisti, che rivendicavano alcuni territori della Svizzera italiana.
I momenti più problematici si possono collocare all’indomani dell’Unità d’Italia, sull’onda del movimento risorgimentale, e dell’avvento del Fascismo. Ogni velleità irredentista venne tuttavia stroncata sul nascere dai governi dell’epoca, facendo prevalere il buon senso e il calcolo politico. Era nell’interesse delle due parti non solo garantire i rapporti di buon vicinato ma anche sviluppare rapporti di collaborazione.
All’indomani della proclamazione dell’Unità d’Italia fu lo stesso Primo ministro Camillo Benso di Cavour (piemontese di nascita ma di madre svizzera) a garantire al Paese confinante l’assoluto rispetto della propria sovranità nazionale, nella convinzione che fosse nell’interesse dell’Italia avere come confinante uno Stato neutrale. Aveva tacciato di «chimeriche» le voci che parlavano di una possibile annessione della Svizzera italiana e aveva dichiarato che l’Italia non avrebbe mai tentato nulla contro la Svizzera. Secondo lui, «la nuova era che viene ad aprirsi per l’Italia contribuirà a migliorare ancora le buone relazioni d’amicizia che esistevano da così lungo tempo tra la Sardegna e la Svizzera. Il Governo del Re d’Italia farà, da parte sua, tutto ciò che è in suo potere per attendere a questo risultato».
Rassicurata da queste affermazioni, la Svizzera fu tra le prime nazioni a riconoscere il nuovo Regno d’Italia ad appena due settimane dalla proclamazione dell’Unità. La Confederazione aveva già stretto un accordo commerciale nel 1851 col Regno di Sardegna e da entrambe le parti si voleva che fosse mantenuto e rafforzato, anche in vista dei lavori per le grandi trasversali ferroviarie nord-sud di cui si cominciava a discutere.
La Svizzera, tuttavia, fiera della propria indipendenza, restava vigilante e non si accontentava delle assicurazioni formali. In ogni caso non avrebbe tollerato alcuna violazione dei suoi confini. In un celebre discorso di fine gennaio 1862, il generale Dufour, aveva rassicurato i politici e la popolazione perché «l’esercito è pronto!» (Die Armee ist da!) e poteva disporre di 100.000 uomini (compresi i riservisti) più 50.000 uomini della milizia territoriale. Tutti ben equipaggiati, istruiti e ben armati.

L’Italia pronta ad accogliere territori svizzeri
La Svizzera era vigilante ma tranquilla. Così accolse `nel 1862 con un certo imbarazzo, ma senza allarmismo, un intervento alla Camera del ministro degli esteri Giacomo Durando (1862) in risposta a voci irredentiste. Sarebbe stato un errore politico, aveva detto, creare difficoltà alle buone relazioni con la Confederazione. E anche nel caso che, spontaneamente, una parte del territorio nazionale svizzero avesse chiesto di ricongiungersi con l’Italia, egli avrebbe fatto di tutto per offrire alla Svizzera una compensazione territoriale. Aveva sottolineato che «l’Italia, Signori miei, farà di tutto per garantire l’indipendenza della Svizzera». In un successivo intervento aveva aggiunto che «se la Svizzera fosse minacciata, il dovere e l’interesse dell’Italia erano di aiutarla e difenderla».
Nell’informare Berna di quanto affermato dal ministro italiano, il rappresentante della Svizzera a Torino aveva sottolineato le «intenzioni amichevoli del ministro verso la Svizzera», anche quando ammetteva la «possibilità» di accogliere eventualmente territori confederati. A sua volta, il Consiglio federale, nel riferire questa comunicazione alle Camere, dichiarava di trovare le affermazioni del ministro generalmente favorevoli alla Confederazione, tranne quella riguardante la «possibilità» che una parte della Svizzera si riunisse volontariamente all’Italia pur garantendo delle compensazioni. Una tale «possibilità» minava, secondo il Consiglio federale, i principi stessi su cui si fonda la politica della Svizzera. Si convenne tuttavia di rinunciare a una protesta diplomatica preferendo mantenere e intensificare i buoni rapporti, soprattutto economici, tanto che nel 1864 la Svizzera decise di inviare quale suo ministro plenipotenziario a Torino un ex Consigliere federale, Giovan Battista Pioda, e non un semplice funzionario dell’amministrazione.

Il Vorarlberg in cambio del Ticino?
La «possibilità» di un’annessione pacifica della Svizzera italiana, restava tuttavia aperta e questo gli svizzeri lo sapevano. Ad una completa unificazione del territorio nazionale, secondo i Savoia, mancavano ancora il Veneto (sotto la dominazione austriaca) e Roma (capitale dello Stato pontificio). Tra gli scenari possibili in caso di vittoria italiana, nell’eventualità di un conflitto contro l’Austria per il controllo del Veneto, c’era anche la possibilità che il Vorarlberg austriaco passasse alla Svizzera in cambio del Ticino da assegnare all’Italia. Per impedire un tale scambio, il Legato svizzero a Torino aveva chiesto rassicurazioni allo stesso primo ministro Cavour che rispose: «Se la carta dell’Europa fosse rimaneggiata, se si donasse alla Svizzera il Vorarlberg e il Tirolo, ciò che io spero per il bene dell’Italia, se allora i Ticinesi desiderassero unirsi a noi, e se la Svizzera lo acconsentisse, certo noi non diremmo di no. Ma, pertanto, non siamo ancora a questo punto».
La questione del Vorarlberg resterà aperta fin dopo la fine della prima guerra mondiale e costituì un problema di politica estera assai delicato non solo per la Svizzera ma anche per l’Italia e le altre potenze europee. Se infatti il Vorarlberg e possibilmente anche il Tirolo fossero divenuti svizzeri, la Svizzera sarebbe diventata una specie di guardiana dell’intero arco alpino, benvista in questa funzione da alcune potenze. L’Italia non si sarebbe opposta, ma solo in cambio di avere il Ticino. E’ bene tuttavia ricordare che nel 1919, quando gli abitanti del Vorarlberg chiesero a grande maggioranza (85%), attraverso un referendum, il distacco dall’Austria e l’unione alla Svizzera, la Confederazione respinse l’offerta. Le buone relazioni con tutti i Paesi vicini erano più importanti.

La «ragliata» di Mussolini…
Durante il Fascismo riemersero alcune rivendicazioni irredentiste sul Ticino, ma anche stavolta il buon senso e gli interessi comuni prevalsero. A stimolare le pretese italiane era stato Mussolini prima che prendesse il potere, con alcuni articoli sul «Popolo d’Italia» (di cui era direttore), ritenuti dal rappresentante della Confederazione a Roma «ingiuriosi nei confronti della Svizzera». Ma fu soprattutto il suo primo discorso da deputato (21 giugno 1921) che sembrava non lasciare dubbi: considerava infatti il San Gottardo il naturale confine settentrionale dell’Italia.
Mentre la stampa italiana non dava alcun rilievo alle affermazioni di Mussolini sul Ticino, la stampa svizzera e soprattutto quella ticinese le condannò energicamente. Solo il quotidiano socialista «Libera Stampa» tentò di sdrammatizzare considerando le affermazioni di Mussolini «una ragliata sonora». Questa volta tuttavia, dietro insistenza dei deputati ticinesi, il Governo federale protestò energicamente e chiese una smentita al Presidente del Consiglio Giolitti, che infatti rispose garantendo alla Svizzera il pieno rispetto della sua sovranità.
Dopo la presa del potere, anche Mussolini, ritenne più opportuno se non cambiare opinione almeno non parlarne più e già nel novembre del 1922 confermava al rappresentante svizzero in Italia la sua «ferma intenzione di mantenere fra i nostri due paesi una perfetta amicizia e una completa fiducia», aggiungendo che «non ci devono essere questioni territoriali tra l'Italia e la Svizzera».

… e quella dell’UDC
La storia fino ad oggi ha confermato le buone intenzioni di entrambe le parti. Suona dunque come un’altra «sonora ragliata», per riesumare l’espressione sopraccitata, la richiesta dei 28 fantasiosi deputati dell’UDC, depositata il 18 marzo 2010, secondo cui «il Consiglio federale è incaricato di proporre un quadro costituzionale e legale che permetta di integrare, quale nuovo Cantone svizzero, le regioni limitrofe, se auspicato dalla maggioranza della popolazione interessata».
Nel proporre alle Camere di respingere la mozione, il 19 maggio 2010 il Consiglio federale motivò il suo parere in questi termini: «Una revisione della Costituzione federale che permetta alle regioni limitrofe al nostro Paese di unirsi alla Confederazione svizzera costituirebbe un atto politico ostile, che gli Stati vicini potrebbero considerare, a giusto titolo, provocatorio e nuocerebbe gravemente alle relazioni con i Paesi in questione. Una tale revisione non sarebbe soltanto politicamente inopportuna, bensì anche problematica sul piano del diritto internazionale. Violerebbe infatti le regole fondamentali del diritto internazionale, che non riconosce un diritto generale alla secessione. Il diritto di secessione costituisce soltanto l'ultima ratio in circostanze eccezionali, che evidentemente non sono date nella fattispecie».
La questione è dunque chiusa? Si direbbe di sì, visto che è impensabile che le Camere possano accogliere la mozione nei termini proposti. Del resto, la stampa non ha dedicato alla notizia molta attenzione. Ma non si può escludere che dal cilindro di qualche testa calda (e ve ne sono diverse anche nel Parlamento elvetico) salti fuori qualche altra amenità, utile solo a far sorridere e ricordare che la storia, nonostante i corsi e ricorsi storici teorizzati dal filosofo napoletano Giambattista Vico (vissuto a cavallo tra Seicento e Settecento), raramente si ripete.
Giovanni Longu
Berna 23.6.2010