16 dicembre 2020

Immigrazione italiana 1970-1990: 33. Integrazione e identità

Il periodo della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera che si sta esaminando (1970-1990) è stato fortemente caratterizzato, fra l’altro, da un’ampia e approfondita discussione sull’integrazione. Dalla seconda metà degli anni Sessanta appariva chiara la tendenza alla stabilizzazione degli immigrati italiani, ma erano molte le perplessità su ciò ch’essa poteva comportare in termini di identità personale, nazionalità, cultura, come pure nei rapporti con l’Italia, ma anche con gli svizzeri. Le domande erano tante, le risposte poche e incerte. Dipesero anche da questa incertezza e talvolta paura le difficoltà e la lunghezza del processo d’integrazione della seconda generazione.

Esigenze di chiarezza

Oggi la nozione d’«integrazione» è abbastanza chiara e probabilmente nessuno ha paura di essere «integrato». Fino a quarant’anni era predominante nell’uso comune il termine «assimilazione» rispetto a quello usato oggi d’«integrazione» e poteva fare paura. Sembrava infatti che la Svizzera pretendesse dagli stranieri che intendevano stabilizzarsi e magari naturalizzarsi una rinuncia al proprio passato, alla propria cultura, alle proprie tradizioni e un assorbimento totale della lingua, della cultura, degli usi locali. Un processo che appariva a molti immigrati italiani giustamente inaccettabile.

La richiesta di entrare a far parte della nuova società non poteva esigere un’assimilazione totale delle sue caratteristiche dominanti e la dimenticanza fino alla negazione delle proprie abitudini, del proprio modo di pensare, della propria lingua e cultura d’origine, lo sradicamento completo. Forse nessuno ha mai pensato seriamente di poter chiedere agli stranieri di rinunciare o addirittura negare le proprie origini, ma sicuramente erano moltissimi gli stranieri che temevano conseguenze del genere e per questo si ponevano in una posizione preventiva di rifiuto.

Per rendere accettabile e persino conveniente l’integrazione specialmente delle giovani generazioni di stranieri sono stati necessari decenni di discussioni, studi, modifiche legislative, azioni mirate di sensibilizzazione tra gli stranieri e nella società civile. Del resto, le discussioni non sono terminate e gli aggiustamenti del concetto d’integrazione sono costanti. Il motivo è semplice: l’integrazione è un processo complesso che varia nel tempo e nello spazio perché variano i protagonisti, non solo gli stranieri ma anche la società in cui sono chiamati a inserirsi.

Non dovrebbe pertanto suscitare meraviglia che in Svizzera si discuta d’integrazione, inizialmente nella forma primitiva dell’assimilazione, fin dall’inizio del secolo scorso, ossia da quando cominciò a porsi in maniera seria il problema del rapporto degli svizzeri con la massa crescente d’immigrati. Qualche considerazione al riguardo può aiutare a comprendere meglio le difficoltà oggettive che molti italiani hanno dovuto superare prima di potersi considerare integrati, senza sentirsi costretti a rinunce inaccettabili.

Considerazioni sull’integrazione

La prima considerazione riguarda il concetto stesso di integrazione. Sono occorsi decenni di studi e discussioni per giungere al primo «abbozzo per un concetto d’integrazione», elaborato dalla Commissione federale degli stranieri (CFS) nel 1996 nel contesto della revisione della legge federale sull’asilo e gli stranieri. Solo un decennio dopo è stato possibile leggere in testi normativi che «l’integrazione mira alla convivenza della popolazione residente indigena e di quella straniera, sulla base dei valori sanciti dalla Costituzione federale, nonché sulla base del rispetto reciproco e della tolleranza, […] è volta a garantire agli stranieri che risiedono legalmente e a lungo termine in Svizzera la possibilità di partecipare alla vita economica, sociale e culturale della società,[…] presuppone la volontà degli stranieri di integrarsi nella società e un atteggiamento di apertura da parte della popolazione svizzera. Occorre che gli stranieri si familiarizzino con la realtà sociale e le condizioni di vita in Svizzera, segnatamente imparando una lingua nazionale».

La seconda considerazione riguarda gli stranieri. Non erano sempre gli stessi i soggetti considerati, anzi erano sempre diversi, perché gli stranieri sono giunti (e continuano a venire) in Svizzera a ondate successive, dapprima dai Paesi vicini (Germania, Francia, Austria, Italia), poi anche da Paesi più lontani (Spagna, Portogallo, Grecia, Turchia, ecc.). Inoltre erano varie non solo le motivazioni che spingevano ad emigrare in Svizzera, ma anche le propensioni all’integrazione. Per esempio, per gli italiani questa disposizione è sempre stata debole non solo per la vicinanza all’Italia, ma anche per ragioni storiche, linguistiche, culturali ed economiche.

La terza considerazione riguarda gli svizzeri. Spesso li si considera come appartenenti a un popolo omogeneo, dimenticando che costituiscono in realtà una popolazione molto composita con origini, culture, lingue, confessioni religiose, governi, ecc. differenti. Tra loro sono tenuti uniti da più di un collante, ma soprattutto da un processo d’integrazione che dura tutt’ora. Questo fa sì che tutti si riconoscano in un’unica Confederazione ma nella diversità linguistica, culturale, confessionale, regionale, ecc. Purtroppo, però, quel che ogni svizzero comprende e giustifica nei connazionali in nome dell’unità nazionale non sempre lo ha saputo accettare negli stranieri, interessati a mantenere vive le loro tradizioni, la loro lingua e la loro cultura.

Gli italiani e l’integrazione

Come accennato, gli italiani non sono mai stati molto propensi all’integrazione in Svizzera (cfr. L’ECO del 25.11.2020, p. 10: Emigrazione e integrazione), tanto è vero che sono sempre stati relativamente pochi gli immigrati e le immigrate che hanno contratto matrimoni misti ed è rimasto sempre modesto fino ai primi anni Novanta il numero delle naturalizzazioni. Solo quando fu resa possibile la doppia cittadinanza (dal 1992) c’è stato un forte incremento (attualmente sono oltre 240.000 gli italo-svizzeri).

L’andamento del numero delle naturalizzazioni, che riguardano soprattutto gli italiani nati in Svizzera (oltre i due terzi del totale) indica bene che l’integrazione dei giovani italiani era già in atto in larga misura fin dagli anni Settanta e Ottanta, ma non raggiungeva il suo massimo naturale (naturalizzazione) per motivi non dipendenti da loro stessi: l’acquisto della cittadinanza svizzera comportava la rinuncia a quella italiana, l’obbligo del servizio militare e dei corsi di ripetizione per i maschi, ecc.

La situazione ha cominciato a cambiare dalla fine degli anni Settanta quando molti genitori si convinsero che i loro figli sarebbero rimasti probabilmente qui anche se loro fossero rientrati presto o tardi in Italia (cfr. articolo precedente) e tanto valeva agevolare loro la strada dell’integrazione. I benefici, purtroppo, tardarono ad arrivare, ma dagli anni Novanta, come si vedrà in un’altra serie di articoli, saranno sempre più evidenti.

Verso una nuova identità

Nel trattare del processo d’integrazione dei giovani italiani della seconda generazione nel periodo in esame ci si è spesso interrogati se esso non abbia pregiudicato addirittura la loro identità. Ad alcuni osservatori (forse un po’ superficiali) sembrava infatti che questi giovani figli di immigrati, con l’integrazione linguistica, scolastica, sociale e culturale in questo Paese, acquisissero più problemi che certezze e vivessero in una specie di stato confusionale perché, pur essendo nati e cresciuti qui non si sentivano né svizzeri né italiani. Per definire questa situazione si usò l’espressione «Weder-noch-Generation», come se un’intera generazione fosse definibile più in negativo che in positivo, come se a prevalere in quei giovani fosse la confusione e l’incertezza e non l’arricchimento derivante dall’incontro con nuove culture, nuove realtà, nuovi amici, nuove prospettive, capaci di rafforzare e persino elevare l’identità dei soggetti interessati.

In quell’epoca c’era, in effetti, molto turbamento tra i giovani, alcuni ne soffrirono a lungo, altri preferirono rientrare in Italia per eliminare alla radice il problema, tanto più che secondo un’opinione diffusa naturalizzarsi non era bello per un italiano e il passaporto italiano apriva in Europa più porte del passaporto rossocrociato!

In realtà, non era l’integrazione o la naturalizzazione che provocava disorientamento, ma l’incapacità degli adulti di vederne i vantaggi minimizzando gli eventuali svantaggi. Eppure bastava prendere in considerazione anche solo i profitti derivanti dalla conoscenza delle lingue, l’accesso a una formazione professionale con prospettive certe di un lavoro qualificato e rispettato, la possibilità di accedere a culture e mondi diversi… e tutto ciò senza alcuna perdita significativa d’identità o di dignità. Fortunatamente la maggioranza dei giovani è andata avanti…bene! (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 17.12.2020

09 dicembre 2020

E’ possibile realizzare in Svizzera un museo delle migrazioni?*

Molti Paesi hanno uno o più musei dedicati all’emigrazione per ricordare che nella loro storia molti cittadini hanno lasciato la madrepatria in cerca di lavoro e di un futuro migliore. Sono invece ancora pochi i Paesi che hanno dedicato un museo all’immigrazione, per ricordare che la prosperità raggiunta è dovuta anche al contributo di donne e uomini immigrati da altre parti del mondo. La Svizzera, da oltre un secolo Paese d’immigrazione, dopo essere stata Paese di emigranti, non le ha ancora destinato un museo, benché al tema siano dedicate sezioni minori di alcuni musei storici regionali. Si tratta di una mancanza di sensibilità o di un problema di fattibilità?

Museo certamente auspicabile…

Stazione di Milano, opera di Manuel Campus dedicata all'emigrazione italiana (ora alla Casa d'Italia di Berna)
Prima di rispondere alla domanda è opportuno ricordare che la Svizzera, per molto tempo Paese d’emigrazione e dalla fine dell’Ottocento Paese d’immigrazione, per oltre un secolo è stata restia a considerarsi tale. Da alcuni decenni, però, ha preso atto che la migrazione è parte integrante della sua storia e del suo sviluppo e probabilmente lo sarà ancora a lungo, anche in ragione della sua posizione geografica in Europa.

Senza le migrazioni la Svizzera è inconcepibile, basti pensare agli scambi di popolazione lungo i confini, ma anche alle reti ferroviarie, stradali, idroelettriche, urbane, realizzate col contributo di milioni di immigrati. Qui l’impronta migratoria è indelebile perché stampata per così dire nella pietra e nel cemento. E’ sufficiente nominare alcune infrastrutture - gallerie, ponti, dighe, piazze, palazzi, strade, quartieri - per richiamare alla mente e all’immaginazione epoche in cui i lavoratori stranieri erano protagonisti. Di essi purtroppo si sta perdendo lentamente il ricordo e un museo contribuirebbe a trattenerlo.

Sembrerebbe dunque più che giustificato e auspicabile un museo delle migrazioni in Svizzera. In molti si chiedono perché non sia stato ancora realizzato, ma probabilmente non esiste una sola risposta. Quella determinante, tuttavia, non andrebbe ricercata in una presunta mancanza di sensibilità o nelle difficoltà materiali e finanziarie che inevitabilmente comporterebbe la realizzazione di una tale opera. In teoria, infatti, il museo è fattibile, tanto più che alla Svizzera non mancherebbero le capacità tecniche e i mezzi finanziari necessari.

… irrealizzabile fisicamente...

Verosimilmente le difficoltà maggiori per realizzare fisicamente un museo dedicato alle migrazioni non sono di ordine materiale ma istituzionale e organizzativo. Una prima difficoltà – e basterebbe da sola a scoraggiare qualsiasi tentativo di superarla - è rappresentata dal federalismo. Chi conosce la Svizzera sa bene che esso non riguarda solo l’aspetto istituzionale (Confederazione, Cantoni, Comuni), ma anche la geografia, la storia, la cultura, lo sviluppo economico di questo Paese plurimo. Ciascuno di questi elementi ha influito sia sull’emigrazione di molti svizzeri, specialmente nell’Ottocento, che sull’immigrazione di molti stranieri. Come potrebbe un unico museo rappresentare questa enorme diversità?

La Grande Dixence, una delle più grandi dighe del mondo.
Un’altra difficoltà, anch’essa difficilmente superabile, è legata alla prima: in un museo unico le storie delle migrazioni rischierebbero di essere snaturate perché decontestualizzate. I tumulti verificatisi sul finire dell’Ottocento a Berna e a Zurigo contro gli immigrati italiani sarebbero difficilmente comprensibili in qualsiasi altra regione della Svizzera. Altrettanto si potrebbe dire delle numerose disgrazie che hanno colpito lavoratori immigrati durante la costruzione di grandi infrastrutture, ma anche delle diverse caratteristiche dei migranti (comunicabilità, integrazione, partecipazione, ecc.) nella Svizzera tedesca, francese e italiana.

A queste difficoltà se ne aggiungerebbero poi altre, anch’esse difficilmente superabili, legate all’ubicazione del museo, alla sua costruzione o al suo adeguamento (se inserito in un edificio già esistente) e soprattutto ai costi, iniziali e soprattutto di gestione.

…ma realizzabile virtualmente!

L'immigrazione italiana in Svizzera è stata
determinante per lo sviluppo del Paese.
A questo punto sembrerebbe prospettarsi una risposta decisamente negativa all’interrogativo iniziale. Sarebbe tuttavia affrettata e incoerente, perché la rinuncia alla realizzazione di un «museo fisico» significherebbe dover rinunciare contestualmente all’idea stessa di un museo. Ma chi ha detto che il «museo fisico» sia l’unica modalità museale?

Ne esistono infatti altre. Per esempio, andrebbe presa in considerazione l’idea del «museo virtuale», in grado di garantire le caratteristiche essenziali del museo come luogo di conservazione e di studio di una memoria storica ritenuta imperdibile. D’altra parte, se ogni Paese fa di tutto per salvaguardare la propria - e i musei insieme alle biblioteche ne sono i «contenitori» privilegiati - potrebbe rinunciarvi la Svizzera intrisa di migrazione? Certamente no. Dunque, il «museo virtuale» potrebbe rappresentare per la Svizzera una soluzione adeguata.

Rispetto al «museo fisico», il «museo virtuale» avrebbe, fra l’altro,
numerosi vantaggi. Per esempio sarebbe facilmente realizzabile con le moderne tecnologie multimediali; potrebbe essere implementato in tempi brevi essendo sufficiente mettere in rete le sezioni dedicate al tema di alcuni musei esistenti; costerebbe relativamente poco; sarebbe facilmente fruibile anche a distanza non essendo localizzato, ecc. Inoltre, una rete museale ben strutturata riuscirebbe a tener meglio conto della varietà, intensità e profondità del diverso contributo delle migrazioni allo sviluppo di questo Paese in tutte le grandi regioni e nelle singole agglomerazioni.

Condizioni di fattibilità

Perché tale idea diventi realtà il percorso non può essere breve. Anzitutto dovrebbe essere costituito un gruppo promotore di persone convinte di poter riuscire nell’impresa e impegnate a preparare un progetto di massima realizzabile e sostenibile da sottoporre alle istituzioni interessate per il finanziamento. Idealmente del gruppo dovrebbero far parte rappresentanti di tutti i possibili finanziatori, tecnici della comunicazione e studiosi.

Berna anni '70: allievi del CISAP, scuola pioniere in Svizzera nella
formazione professionale e nell'integrazione sociale degli immigrati.

Una volta costituito, il gruppo promotore dovrebbe anche stimolare la creazione di sottogruppi finalizzati alla creazione di musei regionali (per esempio nelle agglomerazioni di Zurigo, Berna, Basilea, Ginevra, San Gallo e nei Cantoni periferici). A loro volta questi potrebbero già avviare la raccolta del materiale esistente ritenuto degno di essere conservato (manufatti, cimeli, libri, fotografie, pellicole, manoscritti, registrazioni audio e video, attestazioni, testimonianze varie, ecc.). Molti italiani sarebbero certamente interessati a collaborare, coinvolgendo in particolare le associazioni storiche degli immigrati, le Missioni cattoliche, le Case d’Italia e altre istituzioni.

Non è esagerato pensare che l’idea possa piacere e interessare molti italiani. La storia dell’immigrazione italiana in Svizzera è lunga, ricchissima, estremamente varia e interessante. Valorizzarla significherebbe rendere onore a chi l’ha vissuta in prima persona, ma anche ai loro discendenti. Significherebbe far conoscere che le varie ondate di immigrati (e di altre nazionalità) hanno contribuito a sviluppare la Svizzera moderna in tutta la sua varietà umana, culturale, linguistica, artistica, storica. Significherebbe anche ricordare che l’attuale prosperità è un patrimonio comune, frutto del lavoro di molti e a beneficio di tutti.

Ci si dovrebbe preoccupare dei finanziamenti? Certamente, ma con un pizzico di ottimismo perché la Svizzera è interessata a mantenere vive le tradizioni immateriali e a sostenere le attività culturali d’interesse pubblico, anche l’Italia ha tutto l’interesse a mantenere vivo il ricordo dell’immigrazione italiana, che ha contribuito a sviluppare un Paese amico e, se il progetto è sostenibile, certamente si troverebbero anche privati, imprenditori e semplici cittadini, disposti a sostenere la rete del museo virtuale delle migrazioni.

Giovanni Longu
9 dicembre 2020

* L'articolo è stato pubblicato anche su Insieme (MCLI, Berna) n. 12 Dicembre 2020.

 

 

02 dicembre 2020

Immigrazione italiana 1970-1990: 32.Integrazione e ambiente scolastico e familiare

L’integrazione della seconda generazione è stata molto lunga e difficile per svariati motivi soprattutto politici e ideologici, ma non va dimenticata l’influenza che hanno avuto nella riuscita scolastica dei bambini italiani e nella formazione della loro personalità l’ambiente della scuola, quello familiare e più in generale l’ambiente sociale dei genitori, soprattutto negli anni Settanta e Ottanta. Accennarvi dovrebbe contribuire a capire meglio la complessa problematica della seconda generazione.

Ambiente scolastico

Quanto sia stato lungo e difficile per i bambini italiani (e in generale per gli stranieri) raggiungere le stesse prestazioni scolastiche dei coetanei svizzeri è risaputo, mentre si è prestata sempre poca attenzione all’influenza ambientale. Eppure è facile comprendere che la presenza inconsueta nelle classi della scuola obbligatoria di un gran numero di allievi stranieri (in media attorno al 17% dalla metà degli anni Settanta alla fine degli anni Ottanta) non poteva non provocare interrogativi seri. Ad essi venivano date risposte contrastanti da parte degli allievi svizzeri (riproducenti verosimilmente atteggiamenti e giudizi osservati in famiglia), degli allievi italiani (consci della loro diversità e a rischio di perdita d’interesse, sensi di frustrazione, isolamento, incomunicabilità) e degli stessi docenti, impegnati a portare avanti l’insegnamento ma con un aggravio di competenze per tenere unite le classi costituite da allievi di provenienze, mentalità e competenze linguistiche differenti.

Era inevitabile che nella scuola si riflettessero i diversi atteggiamenti presenti nella società e nelle famiglie verso gli stranieri e di questi verso le istituzioni e la società. In quel periodo, soprattutto negli ultimi anni della scuola obbligatoria, non erano rari i piccoli dispetti, le frasi offensive e persino atti di violenza nei confronti degli stranieri.

Da parte loro, soprattutto negli anni Ottanta, le autorità si rendevano conto che le classi miste plurilingui potevano favorire più delle classi monolingui l’integrazione degli stranieri. In esse, infatti, diventavano possibili e quasi naturali la conoscenza (e comprensione) reciproca, lo scambio e il mutuo arricchimento culturale, l’avvio di una futura (e necessaria) collaborazione.

A parte gli esempi (fortunatamente non frequenti) di classi in cui questi modelli educativi non erano seguiti e aumentava addirittura la selezione nei confronti dei bambini stranieri, le autorità scolastiche cercavano di mettere tutti gli allievi in condizione di seguire i programmi di studio e gli insegnanti in condizione di poterli svolgere. Nella seconda metà degli anni Ottanta, per esempio, si cercò di limitare per quanto possibile il numero degli stranieri per classe. In effetti, nella maggioranza delle classi miste la percentuale di stranieri non superava il 30%; solo in alcune classi (poco più del 10%) era superiore e solo in pochissime classi equivaleva alla totalità degli allievi.

Ambiente familiare e sociale

Secondo le statistiche, negli anni Ottanta le prestazioni scolastiche degli allievi italiani tendevano ad avvicinarsi sempre più a quelle dei coetanei svizzeri, ma il divario era ancora significativo. Pesavano soprattutto, in una parte degli allievi, le difficoltà linguistiche (specialmente nei bambini giunti in Svizzera da poco tempo), ma anche le difficoltà di adattamento socio-culturale (dovute alla posizione sociale medio-bassa dei genitori) e lo scarso sostegno ricevuto in famiglia.

In generale, tuttavia, tra gli allievi italiani si notava un costante miglioramento: diminuiva il numero di quelli che frequentavano una scuola con un programma d’insegnamento speciale, aumentava quello degli italiani che frequentavano il secondo livello della scuola obbligatoria (scuola media) e cresceva sensibilmente il numero di coloro che frequentavano una formazione post-obbligatoria (soprattutto una formazione professionale).

A migliorare la situazione scolastica degli italiani di seconda generazione fu anche il convincimento crescente di molti genitori che i loro figli non li avrebbero seguiti in un eventuale rientro in Italia perché stavano progettando il loro futuro in Svizzera. Ora stavano gettando le basi per un lavoro qualificato, soddisfacente, socialmente ed economicamente gratificante e in questa preparazione dovevano essere sostenuti.

Giovanni Longu
Berna, 25.11.2020

 

25 novembre 2020

Immigrazione italiana 1970-1990: 31. Emigrazione e integrazione

Uno dei freni all’integrazione della seconda generazione degli immigrati italiani in Svizzera nella seconda metà del secolo scorso è stato il generale convincimento che l’emigrazione fosse una condizione temporanea, spesso penosa, per poter vivere meglio in seguito. Quasi tutti gli emigranti lasciavano l’Italia con l’intenzione di tornarvi prima o poi per proseguire la vita più serenamente. La temporaneità era voluta non solo dai migranti, ma anche dalle leggi e dagli ordinamenti svizzeri concepiti per impedire o rendere quasi impossibile la stabilizzazione degli immigrati: chiunque veniva in Svizzera per motivi di lavoro riceveva un permesso di soggiorno temporaneo, stagionale o annuale, rinnovabile solo se i bisogni dell’economia lo consentivano. La Svizzera non voleva essere un Paese d’immigrazione e pertanto l’integrazione non era favorita.

Immigrazione temporanea agli inizi del Novecento

Il passaggio del testimone tra la prima e la seconda generazione spesso si è inceppato!
Fino alla prima guerra mondiale, la «temporaneità» è sempre stata una caratteristica fondamentale dell’immigrazione italiana in Svizzera e rafforzava l’italianità. Negli ultimi decenni dell’Ottocento e agli inizi del Novecento la maggior parte degli italiani veniva chiamata dalle imprese appaltatrici per la realizzazione soprattutto di grandi progetti ferroviari e complessi edilizi. Con la fine dei lavori terminava normalmente anche il contratto dei lavoratori immigrati. Non tutti, però, rientravano in Italia perché molti restavano alle dipendenze delle imprese che li avevano ingaggiati e che avevano interesse a tenersi le maestranze sperimentate e affidabili per l’esecuzione di altri lavori.

In quel periodo si svilupparono in Svizzera diverse comunità italiane, perché le grandi opere duravano generalmente molti anni. Ve n’erano in tutte le regioni della Svizzera (Basilea, Bienne, Chiasso, Ginevra, Kandesteg, Losanna, Lucerna, Zurigo e altre località) e godevano di una certa autonomia organizzativa con propri negozi, ristoranti e persino scuole per bambini e per adulti. Oltre all’italianità, uno dei principali collanti delle varie collettività era costituito dall’associazionismo solidaristico (società di mutuo soccorso) e socio-religioso (società culturali, musicali, Missioni cattoliche italiane, ecc.).

Agli inizi del Novecento, nelle grandi aree urbane esistevano già diversi gruppi organizzati, perché oltre agli immigrati temporanei c’erano già anche molti italiani «domiciliati» stabilmente in Svizzera, per lo più sposati (talvolta con donne svizzere) e impiegati a tempo indeterminato nell’industria. Erano dunque facili gli incontri, gli scambi, le feste comuni, anche se spesso tra i vari gruppi non c’era grande intesa perché, a parte l’appartenenza nazionale all’Italia, avevano ben poco in comune.

Le concentrazioni nelle «colonie»

In questa condizione di temporaneità-provvisorietà, agli immigrati italiani non veniva generalmente nemmeno in mente di dover imparare la lingua locale o di doversi integrare, come si direbbe oggi, per convivere meglio con gli svizzeri. D’altra parte, questo tipo di integrazione non interessava nemmeno a loro, che consideravano gli immigrati «lavoratori ospiti» (Gastarbeiter) e «stranieri» (non solo per la diversa nazionalità, ma anche perché ritenuti «estranei», diversi dal loro mondo).

La combinazione di questi atteggiamenti ed esigenze pratiche di sopravvivenza avevano portato nelle agglomerazioni urbane alla concentrazione degli immigrati italiani in grandi baraccopoli e in determinati quartieri operai (soprattutto nella Svizzera tedesca). Per identificarli si usavano frequentemente termini come «colonia italiana» (Italienerkolonie), «quartiere italiano» (Italienerviertel) ed espressioni equivalenti, con una connotazione prevalentemente giuridico-civile e geografica, ma talvolta anche socio-culturale per sottolinearne in particolare l’isolamento.

Mentre negli ultimi decenni i «quartieri italiani» sono scomparsi in tutte le grandi città, il termine «colonia» è rimasto ed è ancora ricordato non solo dalle associazioni «Colonie libere», ma anche dalla stampa. Quando vengono pubblicati i dati sugli stranieri a fine agosto o a fine anno, dai commenti giornalistici risulta spesso che gli italiani sono sempre «la colonia più numerosa». Dal termine «colonia» sono però scomparse quasi completamente sia la connotazione geografica che quella dell’isolamento e resta solo quella giuridico-civile per indicare semplicemente i «cittadini italiani».

I rapporti con la madrepatria

Nella seconda metà del Novecento e specialmente nel periodo che si sta trattando (1970-1990), il termine «colonia» non esprimeva tuttavia solo l’appartenenza degli immigrati italiani a una delle varie nazionalità straniere presenti nella Confederazione, ma indicava anche il loro legame con l’Italia del tipo colonia-madrepatria basato su interessi reciproci.

In epoca monarchica l’Italia considerava già gli emigrati cittadini italiani a tutti gli effetti, anche se fuori dell’Italia, tanto è vero che i maschi soggiacevano all’obbligo del servizio militare, le donne che sposavano un cittadino straniero perdevano automaticamente la cittadinanza italiana, i lavoratori erano in qualche modo tutelati dalle rappresentanze diplomatiche e consolari (grazie ad accordi internazionali come il trattato tra l’Italia e la Svizzera del 1868). Da parte loro anche gli immigrati si consideravano in certo qual senso una «colonia italiana», benché spesso trascurata dalla madrepatria.

La FCLIS è una delle poche associazioni «storiche» che ancora sopravvive
Il regime fascista cercò di vincolare ancora di più gli emigrati all’Italia intervenendo massicciamente con la propaganda e con sussidi sull’organizzazione e sulla mentalità delle «colonie», creando Fasci, Case d’Italia, scuole italiane, associazioni, ecc., ma incontrando anche non poche resistenze.

Caduto il fascismo, la lotta politica del dopoguerra tra la Democrazia Cristiana (DC) e il Partito comunista italiano (PCI) si è riverberata anche in Svizzera tra le associazioni italiane, producendo tuttavia un esito diverso: mentre in Italia aveva preso quasi subito il sopravvento la DC, in Svizzera cominciò a delinearsi la supremazia del PCI e più in generale della sinistra. A molti appariva chiaro che entrambi i fronti cercavano soprattutto consensi in occasione delle elezioni politiche. Soprattutto la seconda generazione si considerava totalmente estranea al gioco politico.

Poiché la lotta, anche se spesso solo sotterranea, non faceva bene all’immigrazione, nel 1970 si tentò un’intesa operativa almeno tra le principali organizzazioni (politiche). Da allora furono avanzate molte richieste e proposte che influirono probabilmente sul riconoscimento del diritto di voto all’estero e di una rappresentanza degli emigrati nel Parlamento italiano, sull’organizzazione di enti di rappresentanza da affiancare ai Consoli, sulla riorganizzazione delle scuole all’estero e forse su altro ancora, ma tutto era rivolto al rafforzamento dei rapporti della «colonia italiana» con la madrepatria.

Giovani trascurati

Oggi si assiste, in Svizzera, ad una irreversibile crisi dell’associazionismo tradizionale per il venir meno delle ragioni che avevano spinto alla creazione di tante associazioni negli anni Sessanta e Settanta e per l’incapacità delle stesse di osservare le tendenze che cominciavano a delinearsi già allora riguardanti la seconda generazione.

Soprattutto negli anni Ottanta e Novanta molte associazioni assistevano quasi impassibili all’invecchiamento dei loro membri e facevano ben poco per rinnovarsi. Nelle assemblee sociali si parlava preferibilmente di quote, di cariche, di pensioni, di rientri, raramente di problematiche giovanili. I figli degli immigrati, in generale, disertavano quegli incontri, non ambivano ad alcuna carica nelle associazioni e tantomeno a cariche politiche nelle varie istituzioni di rappresentanza, non pensavano nemmeno a tornare in Italia.

I giovani della seconda generazione volevano integrarsi nel Paese in cui erano nati e cresciuti, di cui faticavano ad apprendere la lingua e la cultura, in cui stavano costruendo i primi rapporti sociali e in cui si preparavano a vivere la loro vita professionale. La mentalità dominante nella «colonia italiana» spesso non li ha capiti, non li ha sostenuti, non ha favorito la loro integrazione e, perché no?, la loro naturalizzazione (anche quando reclamava vagamente i diritti politici per gli stranieri).

La concezione dell’emigrazione come momento temporaneo degli «italiani» all'estero impediva anche solo di concepire che quei giovani avrebbero potuto diventare ottimi portatori di «italianità» anche restando per sempre in Svizzera, anche diventando svizzeri. Per questo il percorso della loro integrazione riuscita è stato lungo e difficile.

Ora, però, che questi giovani hanno raggiunto ampiamente i loro obiettivi, sarebbe auspicabile che mostrino ai concittadini e alla società che è possibile e arricchente una buona integrazione linguistica, culturale, etica, in un mondo che sarà sempre più aperto, multiculturale e integrato.

Giovanni Longu
Berna, 25.11.2020