08 marzo 2017

Il coraggio delle donne immigrate in Svizzera



La storia dell’immigrazione italiana in Svizzera è spesso presentata come una serie di avventure e disavventure vissute dagli emigrati italiani, fuggiti da una situazione di bisogno e desiderosi di garantire per sé e per le loro famiglie sicurezza e benessere. Per oltre un secolo hanno dovuto lottare e aspettare di essere accettati e stimati da una vasta opinione pubblica.

Una storia incompleta
In questo discorso, che abbraccia gli ultimi decenni dell’Ottocento e gran parte del secolo scorso, lo scenario sembra costituito da una società diffidente e talvolta ostile, da una politica (quella italiana come quella svizzera) sfavorevole, da un tipo di evoluzione dell’economia e della società piuttosto esigente che gli immigrati italiani non riescono a seguire agevolmente.
I protagonisti della storia, quelli di cui trattano gli accordi internazionali, molti libri e ricerche, e di cui si occupano la politica, l’amministrazione, la stampa, i dispacci delle cancellerie diplomatiche, sono loro, gli emigrati/immigrati, di genere maschile, con al seguito o al fianco in ruoli secondari le donne emigrate/immigrate. Una storia evidentemente distorta, incompleta, a metà, in parte da riscrivere.
E’ vero, le donne italiane immigrate in Svizzera non sono mai state protagoniste, nel senso comunemente inteso di persone di primo piano, perché hanno svolto per quasi un secolo attività considerate (allora) secondarie o comunque meno importanti perché spesso erano mal pagate o non retribuite affatto come i lavori domestici e la cura dei figli, degli anziani, dei malati. Gran parte dei lavori «femminili» erano sottopagati anche nelle fabbriche, nei negozi, negli ospedali, negli alberghi, nelle mense, nelle lavanderie, nelle case delle famiglie facoltose.
Spesso le donne erano costrette al doppio lavoro, in fabbrica o nei servizi e in famiglia. Non ricordo di aver mai letto, in tutta la letteratura dedicata alla storia dell’immigrazione italiana in Svizzera, di scioperi, cortei o proteste di donne perché erano in qualche modo doppiamente sfruttate. Non ho nemmeno mai letto ch’esse andassero fiere perché spesso, sul lavoro nelle filature, nelle fabbriche di cioccolata, nella confezione dei ricami e delle scarpe erano considerate da molti datori di lavoro più brave delle colleghe svizzere, perché dicevano che apprendessero più in fretta e più facilmente delle indigene ed apportassero nelle loro attribuzioni «un certo senso artistico e di maggiore precisione».
Nel racconto tradizionale dell’immigrazione italiana in Svizzera le donne hanno ricevuto quasi sempre una considerazione di secondo livello almeno fino agli ultimi decenni del secolo scorso. Di queste donne si conosce molto poco di quel che facevano nell’Ottocento e agli inizi del Novecento in campo sociale, politico e culturale, del loro impegno nelle associazioni, dell’azione di sostegno fisico e morale all’attività degli immigrati maschi, parenti o no, del contributo che in molti modi hanno dato alla salute fisica dei lavoratori addetti agli scavi stradali e ferroviari, all’elevazione morale di intere generazioni come custodi dell’integrità della famiglia, alla crescita e allo sviluppo delle seconde e terze generazioni nella scuola e nella società, a una pacifica convivenza, all’integrazione. Si tratta certamente di una lacuna grave.

Donne coraggiose
Le donne italiane immigrate dell’Ottocento e degli inizi del Novecento dovevano essere molto modeste, ma anche molto coraggiose. Desidero ricordare solo un episodio emblematico.
Dopo i tumulti anti italiani di Zurigo (1896) la reazione immediata degli uomini fu quella di fuggire, andar via da Zurigo. Molte donne italiane (comprese molte naturalizzate) reagirono invece diversamente. Si organizzarono e scesero in piazza per protestare, tenendo discorsi in tedesco e in italiano, contro il trattamento ingiusto riservato agli italiani dal popolo, dalla stampa e dalla polizia. Se era stato commesso un crimine, il primo sospettato era sempre un italiano, anche se il vero autore era un ticinese o un tirolese o uno svizzero qualunque. Se qualche italiano (come tanti tedeschi, austriaci e persino svizzeri) non pagava regolarmente le imposte, tutti gli italiani erano coinvolti nell’accusa. Bisognava smetterla con le facili accuse e i pregiudizi nei confronti degli italiani.
In quell’occasione ci fu anche chi invitò le mogli degli italiani a tenere lontani i loro mariti dai disordini provocati dai «socialisti» e a non farsi strumentalizzare. Era infatti accaduto che ad un corteo del primo maggio, a Zurigo, in prima fila avevano messo operai italiani che portavano manifesti rivoluzionari di cui ignoravano il contenuto perché scritti in tedesco, una lingua che non conoscevano. Venne infine decisa la creazione di una associazione femminile incaricata di rispondere, caso per caso, alle accuse ingiuste rivolte agli italiani.
Difficile dire quanto quella reazione delle donne italiane di Zurigo abbia influito sulla convivenza tra italiani e svizzeri. Sta di fatto che da allora non ci furono più aggressioni e violenze come quelle del 1896 e non c’è dubbio che il contributo delle donne italiane, convinte e coraggiose, sia stato importante, forse determinante.
Giovanni Longu
Berna, 8 marzo 2017

07 marzo 2017

Italiani in Svizzera: 8. Inforestierimento e naturalizzazione



Una delle conseguenze del dibattito di fine XIX e inizio XX secolo sul «problema degli stranieri» e sull’«inforestierimento» fu l’avvio di una discussione, che dura ormai da più di un secolo, sulle naturalizzazioni. Il risultato della votazione del 12 febbraio 2017 sulla «naturalizzazione agevolata degli stranieri della terza generazione» rappresenta a mio avviso solo una conclusione parziale e provvisoria, rispetto alle attese maturate nel secolo scorso tra la popolazione sia straniera che svizzera. Poiché la discussione sembra destinata a prolungarsi nel tempo, può essere interessante rievocare quanto veniva già sostenuto da molti svizzeri più di un secolo fa.

Naturalizzazione agevolata contro l’«inforestierimento»

All’inizio del XX secolo fino allo scoppio della prima guerra mondiale, l’inforestierimento percepito ormai in tutti i campi (demografico, economico, culturale, «spirituale» e persino politico) sembrava pericoloso e inaccettabile i governi cantonali e per l’opinione pubblica. Nessuno, però, nemmeno il governo federale, era in grado di proporre una soluzione che raccogliesse se non l’unanimità almeno la maggioranza dei consensi.
La proposta maggiormente discussa per risolvere almeno in parte il problema dell’inforestierimento demografico (il 7,9% di stranieri nel 1888) concerneva l’agevolazione della naturalizzazione della parte più «assimilata» degli stranieri, ossia di quelli nati e cresciuti in Svizzera. «Questi forestieri nati in Isvizzera – scriveva all’inizio del 1900 un quotidiano ticinese  - sono nella maggior parte Svizzeri di cuore e sentono e la pensano come noi. Ma noi non abbiamo fatto nulla per assicurarci almeno questi elementi. Questi forestieri che hanno frequentate le nostre scuole, che parlano i nostri dialetti, noi lasciamo che continuino ad essere forestieri …».
Poiché nessuna proposta faceva l’unanimità e nemmeno la maggioranza dei Cantoni, ognuno di essi si dotò di una propria legislazione nemmeno in sintonia con quella degli altri. Vi erano così Cantoni più disponibili, persino a concedere «gratuitamente» la naturalizzazione sia pure dopo un periodo di soggiorno prolungato (per es. di 15 anni come a Basilea Città), e Cantoni (quasi) totalmente chiusi alle naturalizzazioni. Nel mezzo era possibile trovare di tutto, Cantoni che usavano le naturalizzazioni per compensare gli svizzeri emigrati, Cantoni che naturalizzavano con molta facilità stranieri facoltosi e persino Cantoni che usavano le naturalizzazioni per specularci.
Questa diversità di regolamentazioni si spiega non solo per le difficoltà di raggiungere un’intesa tra tutti i Cantoni, ma anche per l’ostilità di molti di essi a un possibile intervento  della Confederazione in una materia da sempre nella potestà dei Cantoni.

Verso un cambio di prospettiva e nuovi traguardi
Solo lentamente si è fatta strada, soprattutto nella seconda metà del secolo scorso, l’idea che il problema della naturalizzazione agevolata andasse visto e risolto in maniera unitaria e condivisa tra Confederazione e Cantoni, tenendo conto del progressivo venir meno dei nazionalismi e soprattutto del reciproco interesse delle parti: l’interesse dello Stato a «riconoscere i propri figli» (l’espressione è della consigliera nazionale Ada Marra) come propri cittadini a pieno titolo e l’interesse degli stranieri naturalizzandi a superare l’ingiusto statuto di «cittadini di fatto» e «stranieri di carta».
Non mi ha meravigliato il fatto che l’esito della votazione del 12 febbraio scorso sulla naturalizzazione agevolata per le terze generazioni non sia stato festeggiato (come forse qualcuno si attendeva). In effetti si è trattato di un risultato largamente atteso, poco contrastato (mancavano infatti seri argomenti contro) e giunto tardivamente. Per di più il testo in votazione era ben lontano dalle richieste più progressiste avanzate oltre un secolo fa. Quando ancora non si parlava della terza generazione si diceva chiaro e tondo che bisognasse facilitare e rendere economicamente più accessibile la naturalizzazione dei figli nati in Svizzera da stranieri domiciliati, ossia della seconda generazione.
Mentre in tutto il mondo si fa strada l’idea che i figli ben integrati degli immigranti debbano essere agevolati, anche finanziariamente, nell’ottenimento della cittadinanza dei Paesi ospiti e qualcuno di questi è disposto a concederla automaticamente, sia pure a certe condizioni, in Svizzera dovrebbe essere considerato un grande successo essere riusciti a strappare alla maggioranza del Popolo e dei Cantoni un sì alla naturalizzazione agevolata, a richiesta, degli stranieri di terza generazione? Non mi pare e spero che il percorso intrapreso più di un secolo fa non si sia concluso il 12 febbraio 2017, ma continui.
Anche le seconde generazioni attendono la possibilità di una naturalizzazione agevolata e poco onerosa, senza pretese esagerate sull’integrazione. Questa, semmai, andrebbe anch’essa agevolata, incoraggiando per esempio ogni forma di partecipazione nelle istituzioni pubbliche, dai comitati di quartiere ai partiti politici, dalle commissioni scolastiche al voto amministrativo. Per questo ritengo che la strada dell’integrazione e della naturalizzazione facilitata per tutti sia in buona parte ancora da percorrere. (Segue)

01 marzo 2017

Italiani in Svizzera: 7. All’inizio c’era la paura



Sul finire del XIX secolo, «il problema degli italiani» (Italienerproblem) divenne, per amplificazione naturale, «il problema degli stranieri» (Ausländerproblem), coinvolgendo così tutti gli stranieri della Svizzera già allora molto numerosi (oltre l’11,6% della popolazione residente). A partire dal 1900, si è cercato di precisare «il problema», che suonava troppo generico, ricorrendo a un neologismo: Überfremdung («inforestierimento»). Il successo riscosso da questo termine in Svizzera non ha pari, per continuità e importanza, in tutta la storia delle politiche migratorie europee moderne. Conoscerne le origini e la portata è indispensabile anche per comprendere la storia dell’immigrazione italiana in questo Paese.

L’«inforestierimento»
1972: una delle tante dimostrazioni contro l'inforestierimento.
Nella seconda metà del XIX secolo, i temi dell’emigrazione (svizzera) e dell’immigrazione (straniera) erano discussi frequentemente perché in alcuni Cantoni della Svizzera l’emigrazione spopolava e impoveriva intere regioni e in altri l’immigrazione creava sì nuovo benessere, ma anche grossi disagi tra la popolazione locale. Sul finire del secolo gli immigrati diventarono l’oggetto di un discorso socio-politico specifico, non più limitato a qualche gruppo in particolare (per es. gli italiani), ma esteso genericamente a tutti gli stranieri.
Fu a quel punto che si cercò di precisare «il problema degli stranieri» e, in mancanza di un’espressione più adeguata, fu introdotto il neologismo Überfremdung, che ebbe una straordinaria accoglienza, dapprima in cerchie ristrette di specialisti, poi nell’opinione pubblica e, poco più tardi, anche nel linguaggio politico-burocratico.
Di fatto, questo termine, tradotto grossolanamente in italiano «inforestierimento», ha segnato profondamente tutta la politica migratoria federale fino a pochi decenni fa e si presta ancora oggi a spiegare gli atteggiamenti più severi del popolo svizzero nei confronti degli stranieri (anche se invece d’inforestierimento si preferisce parlare di «immigrazione di massa»). Approfondirne il significato (o i significati) del termine è pertanto indispensabile anche per comprendere l’evoluzione dell’immigrazione italiana in Svizzera.

Paura di un pericolo imprecisato
Non esiste, a mia conoscenza, una definizione esauriente e soddisfacente del concetto di «Überfremdung», benché il tema sia stato affrontato da decine di studiosi. Questa mancanza di una definizione appropriata è dovuta, verosimilmente, ad una ragione oggettiva molto semplice: il termine Überfremdung è stato utilizzato in epoche diverse, quindi da soggetti diversi, con riferimento ad aspetti diversi di una realtà non statica ma mutevole, sempre in movimento, com’è stata l’immigrazione.
Eppure ritengo indispensabile, per capire la storia dell’immigrazione italiana in Svizzera, tentare di cogliere nell’uso più che secolare del termine Überfremdung almeno una costante sempre presente nella percezione di moltissimi svizzeri del fenomeno immigratorio in generale. Ebbene, secondo me, questa costante è la paura, declinata in tante varianti, a seconda del tipo di pericolo percepito come presente, imminente o probabile nelle varie epoche. Una prova indiretta di questa affermazione è che in molti testi in cui compare il termine Überfremdung (inforestierimento) si trova anche la parola composta Überfremdungsgefahr (pericolo d’inforestierimento).
Quando il termine fu utilizzato per la prima volta a Zurigo nel 1900, ossia quattro anni dopo i tumulti anti italiani, la paura era associata soprattutto al fastidio provato da molti svizzeri di sentirsi circondati da troppi stranieri, italiani in particolare, ritenuti di livello inferiore, grossolani, pericolosi «invasori» e usurpatori. Può sorprendere, ma nelle considerazioni di cui si sta parlando la pericolosità degli stranieri non era mai osservata dal punto di vista criminologico. In questo campo, infatti, i Cantoni disponevano di sufficienti forze dell’ordine per far rispettare la legge e la Confederazione era sufficientemente forte per espellere gli stranieri facinorosi o pericolosi. La pericolosità nasceva anzitutto dall’eccessiva presenza di stranieri in un piccolo Paese, ancora fragile istituzionalmente e politicamente. Il termine Überfremdung sembrava render bene questa pericolosità indefinita degli stranieri.

Paura di essere sopraffatti
L’«eccesso» di popolazione straniera era difficile da dimostrare, ma la percezione del costante aumento degli stranieri era innegabile, soprattutto da quando cominciarono a diffondersi le cifre sulla proporzione di stranieri nella popolazione residente. Si venne così a sapere che la proporzione di stranieri in Svizzera non aveva confronti in nessun altro Stato vicino, dove essa non arrivava nemmeno al 3 per cento. Qui, invece, quella percentuale era stata superata già da cinquant’anni e sfiorava, secondo i dati del censimento federale della popolazione del 1900, il 12 per cento.
L'immigrazione massiccia generava paura in molti svizzeri.
L’osservazione andava oltre: in alcuni Cantoni la proporzione di stranieri superava il 40 per cento e in alcune città la concentrazione di stranieri in alcuni quartieri creava non pochi disagi nella popolazione indigena. Divenne perciò facile parlare di Überfremdung, dove il prefisso «über» rendeva bene l’idea del superamento di una soglia, di un limite che solo in Svizzera era stato oltrepassato. Persino il Consiglio federale dovette ammettere che si trattava di una «situazione non sana». Tanto più che anche le conseguenze dell’incremento della popolazione sembravano evidenti, per esempio la penuria degli alloggi, la speculazione edilizia, la pressione sui salari (per la concorrenza soprattutto degli italiani disposti a lavorare per paghe troppo basse). La paura divenne palpabile perché i disagi sembravano imputabili, anche senza prove, all’eccessiva presenza di stranieri.
L’eccesso di popolazione straniera era ritenuto da taluni preoccupante perché il suo accrescimento sembrava inarrestabile e tale da mettere in pericolo la conservazione dei «valori tradizionali svizzeri» (legati soprattutto al mondo agrario, che andava sempre più indebolendosi) e la stessa sopravvivenza del popolo svizzero con le sue caratteristiche.
A quanti affermavano che si dovesse intervenire d’autorità per limitare l’immigrazione si obiettava che ad attrarre così tanti stranieri era lo sviluppo economico, anch’esso inarrestabile (si era nella Belle Époque), e le favorevoli disposizioni degli accordi di stabilimento della Svizzera con le grandi potenze confinanti. Sembrava difficile, se non impossibile, opporsi al progresso e alle grandi potenze, ma anche rinunciare agli stranieri che erano considerati ormai «elemento integrante della popolazione, di cui non vogliamo né possiamo fare a meno».

Considerazioni quantitative e qualitative
Secondo alcuni osservatori, la pericolosità degli stranieri non era tuttavia dipendente principalmente dal loro numero, ma anche dalla loro capacità, immediata o futura, d’influire sui centri vitali dell’economia, della finanza, della cultura, della stampa e della stessa politica, tutti campi in cui la Confederazione era particolarmente debole. Inoltre, questa influenza non era solo quella diretta (ad es. attraverso la numerosa presenza di stranieri domiciliati, i capitali in mani straniere, le imprese straniere, ecc.), ma anche indiretta (attraverso la stampa, la lingua, l’insegnamento, le partecipazioni, ecc.).
Il passaggio da considerazioni di tipo quantitativo ad analisi di tipo qualitativo era immediato, almeno per una ristretta cerchia di persone, intellettuali, politici, membri dell’amministrazione pubblica, non appena si passava in rassegna l’impatto degli stranieri nella vita sociale, economica, culturale e persino politica. Non tutti i gruppi nazionali stranieri venivano considerati alla stessa maniera, ma i risultati giungevano all’opinione pubblica generalizzati e riferiti genericamente agli stranieri.
Gli stranieri apparivano in molti campi in posizione dominante rispetto agli svizzeri perché il diritto di domicilio assicurava loro numerosi vantaggi senza subire alcun obbligo legato al diritto di cittadinanza. Per questo, si diceva, «in nessun luogo come da noi il forestiero domiciliato gode una situazione di privilegio, che gli fa temere la naturalizzazione, l’acquisto della cittadinanza, addirittura come un peggioramento del suo stato economico».
Non c’è dubbio che questo atteggiamento di distacco e di disinteresse per la naturalizzazione fu considerato da molti osservatori come un indubbio segnale di pericolosità degli stranieri, sebbene non di tutti i gruppi allo stesso modo. Dei tedeschi, per esempio, preoccupava il movimento generale di germanizzazione, tendente, secondo alcuni, all’assorbimento della Svizzera mediante la lega doganale tedesca dell’Europa centrale.

Analisi, ma anche proposte
Molti di coloro che riflettevano sulla situazione venutasi a creare con la presenza massiccia di stranieri non si limitavano tuttavia all’analisi di fatti e cifre, ma cercavano anche di individuare possibili soluzioni. E’ interessante, per esempio, osservare che più di un secolo fa già si parlava di «ostacolare l’immigrazione», render difficile il domicilio, aumentare la tassa per l’acquisto della cittadinanza, ma anche di coinvolgere maggiormente gli stranieri nel «nostro corpo di cittadinanza», facilitare la naturalizzazione di un maggior numero di stranieri che «offrono garanzia di diventare veri cittadini» e persino di introdurre, in situazioni particolari, la naturalizzazione automatica degli stranieri di seconda generazione. (Segue)
Giovanni Longu
Berna 1.3.2017

22 febbraio 2017

Italiani in Svizzera: 6. Il «problema degli italiani»



Gli immigrati italiani in Svizzera del XIX-inizio XX secolo erano richiesti e apprezzati dai datori di lavoro, ma ritenuti pericolosi concorrenti dai lavoratori svizzeri. L’accusa? Accettavano salari più bassi mettendo a rischio molte famiglie svizzere che avevano bisogno di salari più alti. La difesa: non è vero! Fatto sta che dalla paura all’odio il passo fu breve a Berna nel 1893, ma lo sarà ancora di più a Zurigo tre anni più tardi. Nel frattempo la politica federale si era schierata decisamente dalla parte dei padroni, non dei salariati. Nel 1894 fu infatti respinta dal Parlamento e dal Popolo una iniziativa volta a garantire il lavoro per tutti.

La situazione sul finire dell’800
Nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera, gli ultimi decenni dell’Ottocento sono stati molto difficili, certamente più difficili di quanto siano stati per i tedeschi, gli austriaci e i francesi. Di quei decenni l’opinione pubblica conosce, spesso vagamente, i due più clamorosi episodi di violenza subiti da italiani a Berna (1893) e a Zurigo (1896), ma non le cause e le circostanze.
Eppure il periodo fino allo scoppio della prima guerra mondiale è stato per molti versi fondamentale. Basti solo ricordare, giusto per fare qualche esempio, che il discorso sulle naturalizzazioni facilitate, agevolate o automatiche, di cui si è molto parlato anche recentemente, venne avviato all’inizio del secolo scorso. Anche i temi della «paura degli stranieri» (xenofobia) e della «paura dell’inforestierimento» (Überfremdung), che hanno caratterizzato la politica migratoria cantonale e federale di buona parte del secolo scorso, cominciarono ad entrare nel dibattito politico ma anche nella discussione dell’opinione pubblica nello stesso periodo.
Ritengo pertanto utile soffermarsi sia pur brevemente su quel finale di secolo e inizio di quello successivo per cercare di capire, a prescindere dall’irrazionalità della paura e della violenza, perché gli italiani furono oggetto degli atti più clamorosi di violenza collettiva di tutta la storia moderna dell’immigrazione in Svizzera. Perché gli italiani e non, per esempio, i tedeschi (112.342 nel 1888) ben più numerosi e soprattutto più influenti degli italiani (41.881)?

Perché proprio gli italiani?
Una prima risposta è che nella Svizzera tedesca i tedeschi e gli austriaci erano per così dire «di casa» già da molto tempo ed erano non solo accettati dall’elemento indigeno, ma rispettati e persino ammirati, perché occupavano posizioni di rilievo nell’economia, nel commercio, nell’insegnamento, nella vita civile in generale. Non che i tedeschi fossero particolarmente ben voluti, anzi, come si vedrà in seguito; ma per lo meno avevano saputo integrarsi, a modo loro, e rispettavano le regole e i costumi svizzeri.
Gli italiani, invece, erano gli ultimi arrivati e i meno integrati. Lo si può vedere anche dal numero di naturalizzazioni: tra il 1897 e il 1902, la quota di rifiuto di domande di naturalizzazione fu del 30% per i tedeschi, ma  di circa il 50% per gli italiani. In cifre assolute, per il periodo 1889 e il 1908, il numero di naturalizzazioni di italiani nel Cantone di Zurigo è assolutamente esiguo (138) rispetto a quello dei tedeschi (7912).
Pur essendo ritenuti indispensabili all’economia (per le infrastrutture, l’edilizia e alcune fabbricazioni industriali), non godevano di alcun prestigio, erano lontanissimi dalla cultura e dalla mentalità degli svizzeri, non manifestavano alcuna propensione all’integrazione, erano (considerati) veramente «stranieri», nel senso di «estranei» o «diversi» e anche per questo non avevano alcun potere politico, economico, contrattuale, sindacale o culturale. Erano forza lavoro… a buon mercato e basta. La maggior parte rientrava dopo una stagione o dopo qualche anno, pochi decidevano di restare.
Forse, proprio per questo gli italiani finirono per essere considerati più «pericolosi» dei tedeschi, dei francesi, degli austriaci. Prima ancora che si discutesse a vari livelli del «problema degli stranieri» (Ausländerfrage) già si parlava apertamente (dal 1893) del «problema degli italiani» (Italienerfrage). Ma perché proprio loro costituivano nell’opinione pubblica un «problema»?

«Il problema degli italiani»…
Prima di rispondere a questa difficile domanda mi sembra utile ricordare che quando si comincerà (dal 1900) a parlare del «problema degli stranieri» la discussione si collocherà subito ad un livello specialistico perché verteva soprattutto sull’impatto degli stranieri sull’economia, sulla cultura, sulla politica. Tanto è vero che nella discussione saranno coinvolti, almeno inizialmente, soprattutto i tedeschi. A discuterne saranno specialmente uomini politici, intellettuali, economisti, amministratori pubblici.
Il «problema degli italiani», invece, aveva una connotazione eminentemente pratica e immediata, legata alla presenza crescente e ingombrante degli italiani e ai loro comportamenti contrastanti con quelli della popolazione locale e ritenuti talvolta contrari alle buone tradizioni locali e persino pericolosi.
Esso nasceva da una serie di costatazioni. Anzitutto era impossibile non vedere il continuo e sempre più consistente arrivo di italiani. Basti qualche numero per dare un’idea del fenomeno, per molti, soprattutto nelle grandi città, sconvolgente. A livello nazionale gli arrivi dall’Italia erano passati da 4346 nel 1885 a 13195 nel 1890, a 18.311 nel 1895, a 45.785 nel 1900, addirittura a 88.777 nel 1910 e a 90.019 nel 1912. Si parlava ormai apertamente di «invasione» degli italiani, anche se erano perlopiù stagionali.
Lavoravano in maggioranza alle dipendenze di alcune imprese edili, meccaniche e tessili che li occupavano talvolta persino preferendoli agli indigeni. I motivi di tale preferenza erano sicuramente molteplici: gli italiani erano più disponibili ad accettare anche salari più bassi (rifiutarli sarebbe significato restare senza lavoro) e più produttivi, ma anche meno disponibili a scendere in piazza contro i padroni. Gli italiani, infatti, anche per forme esagerate di risparmio, aderivano raramente ai sindacati locali. Già questo contribuiva a metterli in cattiva luce presso i compagni di lavoro svizzeri.

… e degli svizzeri
E’ anche probabile che molti operai svizzeri non si sentissero garantiti dal «sistema» politico vigente a predominio liberale, soprattutto dopo la schiacciante sconfitta in votazione popolare (80% di no!), nel 1894, di una iniziativa lanciata dai socialisti che mirava a garantire il «diritto al lavoro» sufficientemente retribuito a tutti i cittadini svizzeri (ma soprattutto agli operai). Si disse, durante la discussione in Parlamento, che l’accettazione dell’iniziativa avrebbe sconvolto l’ordine costituito e introdotto la lotta di classe fino alla presa del potere da parte della sinistra.
A questo punto verrebbe quasi da rispondere alla precedente domanda affermando che almeno una parte del «problema degli italiani» era un problema della classe operaia svizzera che non disponeva ancora di forze politiche e sindacali sufficienti per far valere i propri diritti. Sarebbero passati infatti molti anni prima che la Svizzera si dotasse di un sistema assicurativo in parte già prefigurato nell’iniziativa popolare respinta nel 1894.
Gli italiani, per evitare il completo isolamento, non avendo in generale alcuna conoscenza della lingua del posto, vivevano preferibilmente tra loro concentrati in alcuni quartieri. E’ facile immaginare i problemi di convivenza che si venivano a creare con la popolazione locale, che considerava gli italiani trogloditi, arroganti, sporchi, immorali, rabbiosi, violenti, sempre pronti a usare il coltello, ecc.
Anche in questo caso, tuttavia, il «problema degli italiani» sembra essere pure un problema degli svizzeri, del tutto impreparati a gestire una convivenza indubbiamente difficile, ma non impossibile. E’ anche comprensibile che in quella situazione i problemi si amplificassero facilmente perché vi trovava un terreno fertile ogni sorta di pregiudizio, da una parte e dall’altra. L’equilibrio era estremamente precario, perché l’incomunicabilità era la regola, il dialogo l’eccezione, l’intesa quasi impossibile. Spesso un semplice diverbio si trasformava in violenza verbale, talvolta anche fisica e in un caso tumultuosa.

I tumulti anti-italiani di Zurigo
Copertina del Corriere della Domenica del
9.8.1896, dedicata ai tumulti di Zurigo.
Era il 26 luglio 1896. In un locale era appena scoppiata una rissa e un immigrato italiano aveva ucciso a coltellate un alsaziano che l’aveva insultato. Fu la classica goccia, sia pure assai pesante, che fece traboccare il vaso. La folla richiamata dal fatto di sangue compiuto da un italiano si trasformò in una banda (sobillata anche da tedeschi) a caccia degli italiani datisi alla fuga. Molti italiani furono comunque raggiunti e picchiati. Numerosi bar, ristoranti negozi e case di italiani furono messi a soqquadro. Solo dopo diversi giorni la polizia e l’esercito ripristinarono l’ordine e la calma.
Perplessi, molti studiosi si chiedono ancora oggi quali siano state le «vere» cause che fecero scatenare tanta violenza, ma forse le «vere» risposte non si avranno mai. Le violenze registrate a Berna (Käfigturmkrawall), a Zurigo (Italiener-Krawall) e in numerosi altri posti della Svizzera avevano tutte un alcunché d’irrazionale e di sproporzionato.
In assenza di conferme mi pare condivisibile il giudizio conclusivo del Dizionario storico della Svizzera: «La sommossa fu una protesta spontanea delle classi popolari, priva di rivendicazioni concrete, e può essere considerata l'espressione di una crisi legata alla modernizzazione. Gli immigrati italiani, perlopiù lavoratori stagionali impiegati nell'edilizia, divennero il capro espiatorio del profondo disagio causato dai rivolgimenti economici e sociali dell'epoca». (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 22 febbraio 2017